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Il "giochismo" non esiste
15 gen 2020
15 gen 2020
Un termine che nasconde un grosso equivoco.
(articolo)
7 min
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In questi giorni stanno uscendo molti articoli sui quotidiani italiani in difesa di un presunto gioco “all’italiana” che si intende essere un’interpretazione “pragmatica” da anteporre a un’altra, opposta, che quegli stessi articoli hanno preso a chiamare “giochismo”. È una polemica che segue a ruota quella sul “contropiede” dell’Inter, che viene rafforzata dai commenti in diretta durante le partite e dalle domande post agli allenatori sulla “moda” della costruzione dal basso. Dietro un discorso che potrebbe a volte sembrare tecnico, o terminologico, si cela una battaglia culturale di retroguardia che ha a che fare più con il giornalismo che con i professionisti che lavorano sul campo. Non si tratta cioè di diversi problemi specifici, quanto piuttosto della declinazione di un unico pensiero conservatore, che coinvolge tutti i media italiani in modo più o meno consapevole.

Cos’è il “giochismo”?

Forse l’utilizzo di una parola così brutta potrebbe essere una spia sufficiente, quanto meno per i lettori più sgamati, del fatto che si sta provando a rinfrescare un dibattito già vecchio. La contrapposizione tra allenatori “giochisti” e “risultatisti”, o “pragmatici” a seconda dei casi, è altrettanto pretestuoso di quello con cui qualche anno fa venivano contrapposti Sarri e Allegri. Proseguito poi con le accuse rivolte alla Juventus di non essere bella da vedere, o non abbastanza propositiva, sfociato poi in uno scontro in diretta TV tra l’allenatore e l’opinionista Daniele Adani. In fondo sempre di queste cose si parlava, ma la Juventus era appena stata eliminata ai quarti di finale di Champions League dall’Ajax giovane, tecnico, che costruiva dal basso e aggrediva in alto, e sarebbe stato strano usare i toni che si usano oggi e prendere queste stesse posizioni.

Quello che non va dimenticato è che allenare una squadra di calcio, in prima categoria o in Serie A, è un lavoro. Lo è per gli allenatori, che vogliono farlo bene anche quando il loro lavoro principale è un altro e per scendere in campo devono rinunciare a una serata in famiglia o a una domenica al parco giochi, che vengono allontanati, tutti, se non portano un numero di vittorie soddisfacenti. Nessun allenatore prova a portare in campo alcuni princìpi per un vezzo, perché pensa siano quelli “giusti” o più “belli”.

Certo ognuno ha le proprie preferenze e convinzioni, ma nessuno è così ingenuo da non tenere conto che non esiste bel gioco senza risultati, o che a calcio “non” subire gol è tanto importante quanto farne (un’altra contrapposizione surreale inventata dai media in questi giorni).

La convinzione degli allenatori, semmai, è quella espressa da Fabio Barcellona nel pezzo in cui provava a rispondere alla domanda se la Juventus vincente di Allegri giocasse in effetti male come si diceva: «Alla lunga, è impossibile vincere giocando male, in maniera inefficace e quindi brutta». In un articolo ancora più vecchio, di quasi tre anni fa, in cui sempre Fabio Barcellona parlava del Napoli di Sarri, si chiedeva cosa potesse significare la formula giornalistica di “bel gioco”: «Una buona definizione potrebbe essere quella che identifica il giocare bene con il riuscire a esprimere in campo ciò che si è progettato di fare prima della partita».

Giocare bene, per un allenatore, significa essere efficaci: avere idee che si rivelano essere adatte al contesto della propria squadra e della partita che si deve affrontare e applicare in maniera corretta quelle stesse idee su cui si è lavorato in settimana.

Voglio dire, dovrebbe essere scontato.

E soprattutto dovrebbe essere questo il lavoro di chi deve fare da tramite tra i professionisti - allenatori, dirigenti, giocatori - e il pubblico. E invece quello che si sta provando a dire in questi giorni è che non importa quello che dicono i professionisti e non importa neanche come sta cambiando il calcio tanto sono solo delle “mode”.

Parlare di mode per non parlare di calcio

Un’altra cosa che tutti gli allenatori sanno ma che si dimentica spesso di dire è che non esiste un unico modo per vincere una partita di calcio. Chi sembra fare più fatica a ricordarlo sono proprio i media sportivi italiani quando creano contrapposizioni di questo tipo.

Chiamare alcuni allenatori “giochisti” serve solo ad accusarli di essere ideologici, per mascherare la loro di ideologia. Non stanno solo dicendo che c’è tutta una tipologia di tecnici arrivati ad alto livello che per qualche ragione coltiva velleità inutili e deleterie ma, implicitamente, stanno anche dicendo che ci sarebbe un gioco migliore di un altro. Che poi è il “caro vecchio modo” del calcio “all’italiana” - che convenienza per noi italiani e che fortuna che stia diventando chiaro proprio in questo periodo in cui anche fuori dall’ambito sportivo si parla molto di identità nazionale...

Certo, se qualcuno dicesse chiaramente che il modo migliore di giocare a calcio è difendere vicini alla propria area di rigore (perché “andare a prenderli nella loro metà campo” è un vezzo) per poi provare a raggiungere quella avversaria con meno passaggi possibile (perché, si sa, il possesso palla è dei radical chic o degli hipster) difficilmente verrebbe preso sul serio da quegli stessi professionisti con cui poi deve dialogare.

Allora si preferisce chiedere se c’è davvero una ragione per “insistere” nella costruzione dal basso, soprattutto quando una squadra subisce un gol perdendo palla vicino alla propria area. Solo negli ultimi giorni è stata fatta questa domanda a Gattuso dopo che Ospina aveva perso palla sulla pressione di Immobile, errore pagato con la sconfitta; a Fonseca e persino a Sarri dopo che Veretout ha perso palla dopo averla ricevuta dal portiere al limite della propria area, causando un rigore. Tutti e tre gli allenatori hanno dato la stessa risposta: e cioè che ritengono sia più conveniente, alla lunga. Che magari gli costa qualche gol o pericolo ma sono comunque di più quelli che si procurano costruendo dal basso.

Nessuno di loro ha detto che è più bello. O che per loro il gioco è più importante dei risultati.

Questo perché ovviamente non esiste il “giochismo” e neanche chi ne parla riesce a fare una distinzione netta tra gli allenatori che dovrebbero rientrare nella categoria e quelli che no. Al massimo può essere un modo facile per liquidare con poche parole allenatori in difficoltà o esonerati. Ma solo in quel momento. Giampaolo, per fare un esempio, lo scorso anno con la Sampdoria era altrettanto “giochista” ma non sembrava essere un problema per nessuno.

Non è chiaro neanche quali sarebbero gli allenatori da contrapporre ai “giochisti”? Da che parte sta Gasperini, che marca a uomo e si adatta all’avversario, ma cura il palleggio offensivo nei minimi dettagli? Da che parte sta Simone Inzaghi, che non mira particolarmente ad avere il possesso ma costruisce dal basso?

Siamo arrivati all’assurdo secondo cui Antonio Conte dovrebbe essere il simbolo di un gioco difensivista che non solo lui non pensa lo definisca ma di cui, secondo i media, si vergognerebbe. Antonio Conte, quindi, è al tempo stesso uno degli allenatori pragmatici, che sa come difendere e prendere le misure sugli avversari (entrambi affermazioni corrette), ma è anche un parvenue che si illude di essere alla moda (affermazione tutta da verificare). In pratica è stato detto che Conte stava dalla parte dei “giusti” senza saperlo né volerlo.

Ma neanche Massimiliano Allegri, che da giornali e tifosi viene utilizzato come esempio di allenatore “pragmatico”, e che ha finito col prendere parte in prima persona alla battaglia comunicativa contro un calcio che vede come “troppo teorico”, allena senza princìpi di gioco. Anzi, la sua Juventus era la dimostrazione di come fosse necessario sperimentarne diversi, anche in corso d’opera, per trovare quelli giusti. Se Allegri avesse scoperto il Sacro Graal della tattica le sue squadre giocherebbero sempre nello stesso modo. E non è così perché - ripeterlo non fa male - non esiste un modo migliore di un altro per vincere una partita di calcio.

Quelle che leggiamo in questi giorni sono manipolazioni che non raccontano la realtà complessa e ricca di sfumature del calcio di alto livello oggi, e che provano anzi a sostituire con una realtà che si pensa il pubblico possa capire e apprezzare più facilmente. Dietro la condiscendenza e le prese in giro di questi giorni si cela una mentalità inattuale e poco realistica, che vorrebbe convincerci che prima o poi gli allenatori si stancheranno di allenare l’uscita difensiva dal pressing, che i portieri torneranno a calciare lungo e che le squadre torneranno a difendere nella propria metà campo.

Il problema è che possono convincere i lettori ma difficilmente riusciranno a convincere gli allenatori che pensano che quei princìpi sono più convenienti.

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