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Redazione

I migliori gol di Francia 98

Abbiamo scelto le 10 migliori reti del Mondiale in cui si è segnato di più.

Thierry Henry vs Sud Africa

di Emanuele Atturo

 

 

A 21 anni Thierry Henry aveva ancora tutti i capelli ed era un nugolo di potenzialità inesplorate. Il modo in cui si muoveva per il campo, a folate improvvise e maestose, non lasciava intuire del tutto che tipo di giocatore fosse. Troppo veloce per non essere sfruttato sulla fascia, eppure con un istinto per le conclusioni che sarebbe stato sprecato lontano dalla porta. Wenger però aveva profetizzato: «Quel ragazzo ha un turbo nella gambe, è l’attaccante del 2000». Nel 1998 giocava al Monaco e aveva segnato 11 gol in 44 partite: la sua evoluzione come centravanti prolifico era lontana e doveva attraversare il purgatorio della Juventus.

 

Anche per questo prima del Mondiale la Francia di Jacquet veniva descritta come una squadra “spuntata”, bella ma inconcludente. Henry gioca ala destra ma, nonostante la distanza dalla porta, già alla prima partita contro il Sudafrica crea il panico. Bixente Lizarazu ha commentato così quella sensazione: «Quando l’ho visto partire nella prima gara, mi sono detto “putaine, calmati, lascia qualcosa anche per la seconda partita”». È un peccato non avere statistiche di quella partita, ma dalle immagini – che potete vedere complete qui, con la musica di AntonGenius in sottofondo – Henry sembra semplicemente troppo forte e troppo veloce per dei giocatori fuori forma come quelli sudafricani.

 

Il gol che ho scelto riassume alla perfezione l’idea di forza e leggerezza che ha incarnato il miglior Henry. Un giocatore con una cura particolare per l’estetica dei propri gesti tecnici. La palla viene respinta dalla difesa del Sudafrica che poi prova ad alzarsi, si muove male, certo, ma il modo in cui Henry prende palla e li prende alla sprovvista fa comunque impressione. È uno di quei gol più belli da vedere dall’alto che nei dettagli ravvicinati. Con una visione a volo d’uccello è possibile vedere come Henry prenda in controtempo una massa di uomini che si muove dalla parte opposta alla sua corsa; riesce a infilarsi dietro la difesa avversaria come Frodo a Mordor. Mentre un difensore gli corre incontro tocca la palla con l’esterno ai suoi lati e lo sorpassa; a quel punto la palla sembra troppo lunga ma Henry ci arriva senza affanno e supera il portiere con uno scavino esatto nella forza e nella misura. Questa parte del gol è invece da guardare al rallentatore, con un’inquadratura ravvicinati che mostri la grazia con cui Henry tocca la palla col destro ed effettui un piccolo saltello per evitare l’uscita del portiere, occhi sul pallone. Issa, il difensore del Sudafrica che in quella partita si era già segnato un autogol, prova a salvare sulla linea ma col sinistro si tira la palla sul destro, e poi cade. La poca grazia del suo intervento racconta tutta la distanza tra gli esseri umani normali e Thierry Henry.

 

Tore André Flo vs Brasile 

di Emanuele Atturo

 

 

Ai Mondiali del 98 i nuovi prototipi di attaccanti convivevano con i vecchi: gli esseri umani arrivati dal futuro attraversavano forti e leggeri gli esemplari della generazione passata. È una delle sensazione più forti quando si scorrono i gol di Francia 98. C’è qualcosa di spietato e predatorio nel modo in cui gente come Ronaldo o Henry distruggevano difensori che erano stati preparati per un calcio diverso. Come in quei film in cui il pianeta terra si ritrova a dover affrontare l’invasione di una razza aliena superiore.

 

Tra i giocatori che spiccavano per la loro modernità non c’erano solo quelli effettivamente fuori scala. Francia 98 era ricca anche di giocatori strani, che esprimevano il proprio futurismo senza risultare poi dominanti. Tore André Flo era alto un metro e 93 ma si muoveva con disinvoltura negli spazi più risicati: un’accoppiata forza fisica+tecnica+velocità che oggi è comune ma che all’epoca era esotica. Gianfranco Zola, che in quegli anni giocava insieme a lui nel Chelsea lo aveva paragonato a van Basten: «Ha una buona tecnica e scatta in continuazione. È altissimo, ma gioca come un bassotto».

 

Dopo una doppietta al Brasile in un’amichevole del 1997 è stato soprannominato “Flonaldo”, un soprannome che esprimeva un’idea ironica e degradata del fenomeno brasiliano, ma che ci diceva quanto anche Flo rimandasse questa idea di modernità. Se volete farvi un’idea di che giocatore fosse Flo al suo meglio guardate questo video di highlights individuali dell’amichevole contro il Brasile.

 

Fa impressione notare quanto poco usasse il corpo per la sua stazza fisica e fosse invece tecnico e rapido nei cambi di direzione. Per certi versi somiglia a una versione embrionale di Ibrahimovic. La parte superiore del suo corpo sembra una protesi morta di quella inferiore, come se solo quest’ultima avesse vita.

 

Nel 1998 Tore André Flo è la punta di diamante di una Nazionale norvegese forte e credibile, che veniva da 15 risultati utili consecutivi. Nelle prime due partite del Mondiale aveva però ottenuto due pareggi deludenti contro Scozia e Marocco e per qualificarsi avrebbe dovuto battere il Brasile nell’ultima partita, già sicuro di passare il turno.

 

Dopo pochi minuti aveva segnato Bebeto su cross di Denilson, dopo una di quelle grandi giocate che avevano definito Denilson. Il fantasista era caduto per terra e si era rialzato dribblando e mettendo al centro una palla tesa perfetta per l’attaccante. Il gol del pareggio è quello di Flo, che raccoglie un lancio lungo dalla difesa e va in uno contro uno nello spazio con Junior Baiano. I due arrivano lunghi con la corsa, quasi sul fondo, quando Flo sterza all’improvviso con l’esterno del piede. Un movimento così inatteso che Baiano deve girare su sé stesso per accorgersi di che fine ha fatto Flo. Rientrando tocca la palla tre volte e carica il tiro di destro cadendo, come se finalmente potesse lasciar andare la tensione di un corpo spinto ai confini delle proprie possibilità.

 

Ebbe Sand vs Nigeria

di Daniele V. Morrone

 

 

La partita degli ottavi tra Nigeria e Danimarca è l’ennesima in cui Michael Laudrup, uno dei migliori giocatori degli anni ’90, mostra la sua classe. È la partita dei sui due assist spettacolari che spengono le speranze della Nigeria arrivata in Francia da outsider dopo aver vinto l’oro Olimpico due anni prima. Ma se per il primo assist rimane solo il bellissimo gesto d’esterno di prima, il secondo per il gol di Ebbe Sand assume un valore a sé stante per via di chi segna il gol.

 

Ebbe Sand sapeva utilizzare un’ottima tecnica in rapporto ad un corpo sviluppato, per giocare di sponda o segnare di prima. Sand è maturato tardi: mentre giocava in Danimarca ha avuto tutto il tempo di laurearsi in ingegneria civile. È esploso a 23 anni e a 25 viene da una stagione da capocannoniere con 28 gol nel Brøndby campione di Danimarca, in cui tra le altre cose ha segnato la tripletta più veloce della storia del campionato, chiudendola in 4 minuti. Al Mondiale arriva come punta titolare della Danimarca dopo aver esordito in Nazionale solo ad ad aprile dello stesso anno. Poco prima del Mondiale i medici gli hanno diagnosticato un cancro ai testicoli, con cui ha giocato la competizione rinviando il trattamento. San guarirà e avrà una buona carriera con lo Schalke dall’estate del 1999.

 

Ebbe Sand ha iniziato quel Mondiale con due prestazioni incolori. Viene messo in panchina per la partita contro la Francia e da lì continuerà come punta di riserva sia per gli ottavi contro la Nigeria che per i quarti contro il Brasile. Quando Sand entra in campo con la Nigeria è l’ora di gioco e la Danimarca è già in vantaggio di 2 gol dal 12’. Michael Laudrup ha già regalato un assist bellissimo al compagno Möller per il primo gol e Sand è lì per far riposare la punta titolare in vista dei quarti.

 

La palla è sulla trequarti dove Laudrup riceve e salta sul posto l’avversario diretto prima di avanzare in possesso andando incontro a Sand. L’attaccante inizia a correre prima che parta il passaggio, conoscendo chi ha la palla sa che può essere trovato anche così. Dirà che questo significava giocare con Laudrup. Dopo il taglio la palla gli sbatte esattamente davanti al piede destro, accanto a Taribo West. Il passaggio meriterebbe un pezzo a parte: è uno scavetto da fermo con cui Laudrup salta direttamente la linea difensiva. Ne ha fatti centinaia in carriera, qui gira anche la testa dall’alta parte per ingannare gli avversari. Il rimbalzo è morbido dietro la linea e Sand potrebbe portarla avanti col petto per poi tirare prima dell’intervento del centrale Taribo West in copertura, controintuitivamente sceglie di aspettare il rimbalzo e spostarla con la testa ancora a destra saltando West. La palla quindi si trova oltre West e lui può continuare il movimento per calciare senza nessuno davanti. Dopo il rimbalzo può prenderla di collo interno incrociandola. Per tutta l’azione Sand non guarda una sola volta la porta.

 

La palla è in gioco da soli 16 secondi quando segna il gol, il suo primo con la maglia della Danimarca e il suo unico gol ad un Mondiale. Ancora oggi detiene il record per il gol più veloce. Al momento dell’esultanza Sand ha la faccia di un bambino che ha fatto la sua prima capriola davanti al padre. Viene raggiunto dai compagni ma avanza piano guardando sempre in direzione di Michael Laudrup, che poi abbraccia appoggiando la testa sulla spalla e stringendolo forte. Sand, intervistato, dirà che si sentiva come levitare.

 

Dennis Bergkamp vs Argentina
di Daniele V. Morrone

 

 

Volendo associare un gesto all’immagine idealizzata di Bergkamp non andremmo molto lontani dai tre tocchi di questo gol. La forma stessa del tiro d’esterno è memorabile e facilmente riconducibile alla tecnica di Bergkamp.

 

La carriera di Bergkamp con la Nazionale olandese è strettamente legata a questo gol perché ne rappresenta il culminei. Bergkamp fa tutto in questa partita: l’assist per il gol di Kluivert al 12’, perde il pallone da cui arriva il gol di Claudio López cinque minuti dopo e proprio allo scadere segna il gol del passaggio del turno. Il momento del gol arriva quando i due allenatori sono talmente certi dei tempi supplementari, con entrambe le squadre in 10’ per le espulsioni di Numan per l’Olanda e Ortega per l’Argentina, da non voler utilizzare neanche tutte le sostituzioni: l’Olanda ne ha ancora due, l’Argentina fa entrare Balbo poco dopo l’espulsione di Ortega e ne tiene una libera. Proprio poco dopo l’espulsione di Ortega per doppio giallo con simulazione più testata a Van Der Saar arriva il gol di Bergkamp. De Boer raccoglie la palla nella sua area e avanza in conduzione mentre l’Argentina ancora stordita si rintana sempre di più. Arrivato all’altezza del cerchio di centrocampo fa partire il lancio lungo per Bergkamp.

 

Va detto che Bergkamp da una ventina di minuti sembra completamente cotto, fuori dalla partita. Mentre vede salire De Boer scatta per chiamargli il lancio, aggiusta la corsa, calcola il punto dell’impatto mentre pensa a come stopparla. C’è un momento in cui cambia passo, lì è probabilmente dove ha deciso cosa fare e conta i passi fino allo stop.

 

Bergkamp tocca la palla tre volte in due secondi quelli che portano dal primo contatto col pallone al tiro, ogni tocco sembra pensato prima a tavolino per la razionalità e la perfezione nel gesto. Come se per anni in allenamento Bergkamp avesse provato questa sequenza. Che poi conoscendo il perfezionismo di Bergkamp non sarebbe neanche un’opzione troppo distante dalla realtà. Il primo controllo serve per fermare la palla dal lancio di 50 metri, lo fa con il collo del piede toccandola appena. La palla ricade sullo stesso punto in verticale. Il secondo tocco arriva una frazione di secondo dopo ed è un interno del piede con cui aggiusta la traiettoria del pallone dopo il rimbalzo facendola sbattere a terra ancora una volta per mandare fuori tempo il centrale Ayala in copertura e aprirsi lo specchio della porta. Con Ayala fuori dai giochi e il portiere Roa in uscita, arriva il terzo tocco, ovvero il tiro: aspettando il rimbalzo del pallone Bergkamp decide di anticipare il portiere colpendolo col collo esterno del piede poco prima che tocchi terra un’altra volta. Il portiere ha coperto il primo palo, ma con l’esterno Bergkamp può allungare la traiettoria per mandarlo sul secondo e quindi segnare.

 

Subito dopo il tiro non deve neanche guardare dove va la palla, si gira per correre a festeggiare con le mani davanti la faccia come la persona che non può credere che una sua fantasia sfrenata sia diventata realtà. Nella sua autobiografia scritta con David Winner ci sono 5 pagine dedicate al gol con l’Argentina, quello che per Bergkamp stesso è il migliore della sua carriera, anche per tutto quello che c’è attorno, l’importanza nella partita e il momento in cui è arrivata la rete. Bergkamp ha lavorato tutta la vita per un gol del genere, dove la precisione tecnica e il tempo dell’esecuzione è tutto. Dirà: «non si può giocare la partita perfetta, ma il momento in sé è stato, penso, perfetto».

 

Robert Prosinecki vs Jamaica
di Fabrizio Gabrielli

 

 

Tra il primo e l’ultimo gol segnato da quel talento cristallino e abbacinante che è stato Robert Prosinecki nella storia dei Mondiali, tra la testa e la coda della cometa che ne ha attraversato la competizione, c’è un intervallo di otto anni, una crisi politica epocale che porta alla dissoluzione della Yugoslavia, una storia personale costellata dal passaggio per i due più grandi club di Spagna (e forse del mondo) dell’epoca. È giusto ricordare Prosinecki soltanto per il record, imbattibile dal momento che ogni Paese potenzialmente parcellizzabile si è già dissolto, di essere l’unico calciatore ad aver segnato un gol alla Coppa del Mondo con la maglia di due nazionali diverse? Secondo me no, così come sarebbe ingeneroso affidare ai gol prepotenti e sempre un po’ raffazzonati di Davor Suker il ruolo di ambra all’interno della quale cristallizzare il ricordo della madre di tutte le underdog dei Mondiali moderni, cioè la Croazia.

 

Quando si gioca Francia ‘98, Prosinecki ha quasi trent’anni ed è nella fase conclusiva della sua carriera: è tornato a giocare in patria, con il Croazia Zagabria, da una stagione. Il CT, Blazevic, non è proprio un suo estimatore: a inizio carriera lo ha bocciato inesorabilmente promettendo che se Prosinecki fosse diventato un calciatore professionista lui si sarebbe mangiato il diploma da allenatore, e nella semifinale contro la Francia lo avrebbe tenuto in panchina senza particolari motivi, lasciandolo entrare in campo solo a un minuto dalla fine, quasi a volerlo umiliare.

 

È strano, come un ricordo che riaffiora senza preavviso, e allo stesso tempo molto significativo, che Prosinecki sia comparso nel tabellino dei marcatori della prima e dell’ultima partita di quel Mondiale così sorprendente per la Croazia: e sono stato indeciso fino all’ultimo se scegliere il gol contro l’Olanda nella finale per il terzo posto, in cui compie una giravolta che disorienta Neuman  e gli permette di prendere il tempo necessario a infilargli il pallone tra le gambe, un tiro preciso come un tuffo ben eseguito da una scogliera di Kamenjak, e questo contro la Jamaica.

 

C’è questa punizione all’altezza del vertice sinistro dell’area difesa dai caraibici. Al centro ci sono Suker, Stanic, Stimac, tutti ottimi saltatori. Prosinecki l’appoggia a Jarni, che blocca la sfera: sembra che l’ala voglia crossare, e invece con il destro accarezza il pallone, mandando fuori giri il difensore. Ora ha la palla sul sinistro, e dopo uno sguardo fulmineo che sembra più orientato al portiere avversario che ai compagni al centro lascia che il suo piede disegni un arcobaleno.

 

Senza traccheggiare più di tanto parliamo subito di quest’elefante nella stanza: Prosinecki voleva crossare o tirare? C’è un antico proverbio zen che dice che quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito. Tiro e cross, come luna e dito, appartengono a sfere semantiche diverse, e la gittata del tiro di Prosinecki punta troppo all’intersezione tra il palo e la rete, come guidata da un filo a piombo, per poter anche sospettare che non volesse tirare.

 

La maniera in cui allarga le braccia, un festeggiamento più regale e pieno di sé che imbolsito, secondo me basta di per sé per dissipare ogni dubbio, e ci restituisce la dimensione di Prosinecki, oltre che la preziosità del momento che, come uno squarcio nel tempo, ci ha permesso di coglierla.  

 

Mustapha Hadji vs Norvegia
di Fabrizio Gabrielli

 

 

Mustapha Hadji, il Mondiale del 1998, avrebbe potuto giocarlo (e vincerlo) con la maglia dei “Bleus”: si era trasferito in Francia a cinque anni al seguito del padre minatore, e aveva la doppia nazionalità. Sarebbe potuto essere al posto di Zidane. Da ragazzino aveva girato per tutto il paese («Conosco tutte le miniere della Francia, perché ci spostavamo in continuazione: un incubo»), come in una specie di perpetuazione della natura carovaniera degli Imazighen (che è come i berberi chiamano se stessi). Nel ‘93 era stato convocato per Les Espoirs, l’U21 transalpina, ma aveva rinunciato proprio perché, come racconta lui stesso, «davanti avevo gli Zidane, i Dugarry, e io giocavo in seconda divisione». Umiltà? O scarsa fiducia nei suoi mezzi? Alla fine aveva scelto la Nazione dei genitori, dove lo chiamavano “Il Ronaldo Marocchino” oppure “Hadji il brasiliano” perché amava i dribbling nello stretto, la giocata irridente (all’epoca il Brasile suscitava ancora quel tipo di immaginario), e aveva uno stile di gioco animato da un’ambizione ai limiti della pretenziosità.

 

Ho scelto un gol piuttosto bello messo a segno contro la Norvegia, forse il più celebre che Hadji abbia segnato in carriera – insieme alla rovesciata al novantesimo di una partita contro l’Egitto di Coppa d’Africa, segnato quello stesso anno. Due gol che ne riassumono, forse in maniera riduzionistica, la legacy, e che all’epoca gli fecero guadagnare la palma di Miglior Calciatore Africano dell’anno. Il fatto che l’abbia segnato con un alluce fratturato («in campo stringo i denti, convivo con il dolore, ma non mollo perché è la mia occasione, e ho aspettato tanto che arrivasse») non fa che ingigantirne la portata mitopoietica.

 

Dopo una partita caratterizzata da pisaditas, tocchi leggeri e combinazioni nello stretto (a un certo punto addomestica con l’esterno destro un pallone che stava uscendo in fallo laterale: lo tiene in campo, è spalle alla porta, e sempre accarezzando il pallone compie una mezza veronica, conclusa con una pettinata di destro che passa tra le gambe del difensore), Hadji sembra voler dimostrare tutto ad un tratto che non è solo un giocatore da art pour l’art.  

 

Si lancia in progressione nello spazio inseguendo un bel lancio, sempre di esterno (è incredibile quanti assist e quanti tiri in porta d’esterno si facessero, a Francia ‘98), di un compagno: corre per quanti saranno?, sessanta metri?, con un’esplosività atletica coerente con il suo fisico, con le sue lunghe leve da levriero, ma non con il tipo di gioco messo in scena fino ad allora. È una serendipità. Il primo controllo con l’esterno del piede destro è delicato come un tè alla menta sorbito al tramonto. Ne seguono un alto, un altro ancora, morbidi come se avesse i piedi avvoltolati nella seta; poi accenna un doppio passo, lascia scivolare la palla tra destro e sinistro, finché non porta a conclusione l’incantesimo che ha imbambolato il difensore dribblandolo seccamente, prima di tirare in porta. Il pallone non compie neppure un giro su se stesso: rimane fisso, come il sole quando è alto sulle dune del deserto.

 

Avrebbe meritato di qualificarsi, quel Marocco, e sarebbe stata la gratificazione più grande per il talento di Mustapha Hadji. Se solo Rekdal, con un rigore segnato al novantesimo contro il Brasile, non avesse decretato il passaggio dei norvegesi, e l’eliminazione, la solita, di una squadra bella da vedere, e stavolta – a differenza del Mondiale di Russia di 20 anni dopo – più sfortunata che sterile.

 

Ronaldo vs Olanda 

di Marco D’Ottavi

 

 

 

Ronaldo a Francia ‘98 è già storia. È vivido nei nostri ricordi il suo avvicinamento al torneo, da giocatore più forte del mondo ad appena 21 anni; attaccante fenomeno dell’Inter, pagato un anno prima oltre 50 miliardi – più di tutti; da icona mediatica, con la famosa pubblicità della Nike in aeroporto a presentarlo come punta di diamante di un nuovo calcio che sta arrivando. Ricordiamo bene anche il finale tragico, una storia che assomiglia più ai complotti dietro l’omicidio di JFK a Dallas che non ad una partita di calcio: le convulsioni in albergo, l’esclusione e il successivo reintegro nella squadra titolare, le accuse e la sua scialba prestazione mentre la Francia saliva sul tetto del mondo. Ricordiamo anche della sua camminata malferma sulle scalette dell’aereo al ritorno, ma ce le ricordiamo le sue prestazioni?


In questo pezzo Jonathan Wilson classifica Ronaldo come il secondo miglior giocatore di quella competizione, dietro solo a Lilian Thuram. Se nei gironi si è limitato a colpire nella seconda partita il Marocco con una bella volée di destro dopo sei minuti di gioco, nelle partite ad eliminazione diretta è stato il fulcro creativo e realizzativo del Brasile, che poggiava tutto il suo gioco su di lui. Una doppietta contro il Cile, con anche un palo e una traversa, due assist nella vittoria per 3 a 2 contro la Danimarca.

 

Il gol in semifinale contro l’Olanda è un piccolo saggio delle qualità che aveva allora (vogliamo dire prima dell’infortunio al ginocchio?) una sorprendente combinazione di velocità, forza e tecnica. Rivaldo stoppa con il piatto destro una palla sulla trequarti sinistra con spazio davanti a sé. Non appena la sfiora con il sinistro, Frank De Boer parte in avanti come una furia. Non è chiaro se volesse mettere in fuorigioco Ronaldo, che però è dietro alcuni metri, o – più probabile – provare ad intercettare un eventuale passaggio che però non c’è.

 

Rivaldo fa invece una pausa che permette a Ronaldo di dettargli il passaggio con un taglio alle spalle di De Boer ormai tagliato fuori. Il gol nasce da qui, da questo taglio che dimostra anche l’intelligenza calcistica del Fenomeno e della sua capacità extra-terrestre di reagire ad ogni situazione di gioco più rapidamente di tutti. Alle sue spalle Cocu avrebbe anche la possibilità di difendere, ma non sono fatti neanche della stessa pasta: quel Ronaldo è più veloce, più potente, più cattivo: parte prima e arriva prima (di tutti). Con il braccio destro lo tiene a distanza di sicurezza, mentre con l’esterno sinistro doma il passaggio di Rivaldo e con l’interno batte l’uscita di Van Der Saar sotto le gambe. Due tocchi, un gol minimalista, ma perfetto. Anche l’esultanza ce la ricordiamo bene: Ronaldo che si allontana con le braccia larghe mentre si allontana dalla porta, dai problemi dei comuni mortali, da tutto quello che non era lui quel giorno: il giocatore più forte del mondo.

 

Michael Owen vs Argentina

di Daniele Manusia

 

 

Ci sono almeno un paio di Michael Owen diversi. Ci sono il Pallone d’Oro (2001) tormentato dagli infortuni; il fenomeno inglese che fallisce nel Real Madrid, fuori forma già a 24 anni; il traditore che i tifosi  del Liverpool non perdoneranno mai per aver vestito la maglia del Manchester United; il commentatore un po’ scemo che dice cose come “Se piove il campo diventa bagnato”, oppure “vincerà la squadra che riuscirà a segnare più gol”. Nessuno di questi è il primissimo Michael Owen, quello che a 18 anni è diventato capocannoniere della Premier League alla sua prima stagione da titolare, meritandosi la convocazione per il Mondiale francese. È difficile, oggi, con tutti i Michael Owen che abbiamo visto, ricordarsi del primissimo Michael Owen. Pochissimi giocatori hanno incarnato l’idea di nuovo come ha fatto Michael Owen. Piccolo, con una velocità e una naturalezza unica davanti alla porta, in una Premier League in cui molti difensori avrebbero ancora potuto fare i wrestler.

 

Per sua fortuna, Michael Owen avrà sempre il gol all’Argentina per ricordare a tutti di cosa era capace nel suo momento migliore. Un gol che rappresenta quell’idea di nuovo anche solo perché Ayala e Chamot sembrano due modelli di calciatori vecchi al suo confronto. Owen sembra ancora attuale: sembra giocare allo stesso gioco di Mbappé, Ayala e Chamot no. Ma il suo gol restituisce anche un’idea più universale di giovinezza, quel momento della vita in cui ognuno di noi, o quasi, si è sentito spericolato, in cui le cose sembravano semplici, in cui il mondo sembra fatto per rispondere ai nostri desideri. «Ero molto giovane, avevo 18 anni. Non avevo paure, preoccupazioni», ricorderà Owen anni dopo.

 

Owen era diventato titolare nell’Inghilterra di Hoddle, che lo aveva portato come “giocatore d’impatto”, a Mondiale in corso, dopo il gol segnato da subentrato alla Romania (contro cui l’Inghilterra ha perso). Dopo il vantaggio di Batistuta, Owen aveva già procurato il rigore del pareggio, prima di segnare il gol del momentaneo 2-1 in modo spettacolare. L’Argentina poi pareggerà, Beckham si farà espellere e l’Inghilterra perderà ai rigori (Owen segnerà il suo). Di quella partita è rimasto soprattutto questo gol in cui tutto è perfetto.

 

Il controllo di tacco-esterno con cui aggira Chamot di pura tecnica – a un certo punto allunga la punta del sinistro ma riesce solo a sfiorare la palla: “Pensavo di riuscire a togliergli la palla ma semplicemente non ci sono riuscito”; la finta di andare a sinistra, veloce come un battito d’occhi, che gela Ayala sul posto; il tiro di collo destro, a incrociare in alto dalla parte opposta, difficilissimo persino da immaginare arrivato a quel punto.

 

Un ulteriore dettaglio che mi fa amare questo gol: Paul Scholes che si fa tutta la metà campo seguendo Owen e che si deve fermare al limite dell’area, perché a quel ragazzino di 18 anni al primo Mondiale non serve l’aiuto di nessuno per segnare all’Argentina di Batistuta e Simeone.

 

Non so se quello di Owen è il gol più bello segnato a Francia ‘98, ma sicuramente è quello che meglio di qualsiasi altro rappresenta l’essenza della gioventù. E la gioventù non è fatta per durare, a volte svanisce dopo un solo momento di gloria, e Owen è stato già fortunato a vederla durare qualche anno.

 

Zinedine Zidane vs Brasile

di Daniele Manusia

 

 

Zidane – De Yazid à Zizou, la biografia della leggenda francese scritta da Patrick Fort e Jean Philippe, comincia con un colpo di testa mancato dal protagonista. Anzi, da una palla che viene verso di lui e lui che “si abbassa”. A quanto pare da piccolo Zidane non sapeva colpire di testa. Jean Varraud il suo scopritore – sua la definizione: “i suoi piedi parlavano al pallone” – ricorda quel problema col gioco aereo e di aver avuto a un certo punto l’illuminazione, che “nei quartieri nord (di Marsiglia, ndr) non si fanno i colpi di testa. I ragazzi che giocano per strada non giocano di testa”.

 

E forse non tutti ricordano che Zidane aveva segnato di testa anche all’esordio in Nazionale. Da subentrante contro la Repubblica Ceca, prima aveva segnato il gol del 1-2 con un collo pieno sinistro, preceduto da un doppio passo dei suoi, e poi il 2-2 con uno splendido colpo di testa su angolo. «La testa e il sinistro erano i miei punti deboli. In fin dei conti ci ho lavorato bene su, no?», ha detto Zidane, prima di sapere che la sua consacrazione sarebbe arrivata proprio con due colpi di testa.

 

Zidane aveva giocato il Mondiale con grandi aspettative – già due anni prima, per l’Europeo inglese del ‘96, il selezionatore Aimé Jacquet aveva fatto fuori Eric Cantona e David Ginola per inserire in squadra Zizou e Djorkaeff – che in parte aveva già deluso, facendosi espellere contro l’Arabia Saudita per aver calpestato un avversario. Con la Juventus veniva da due finali di Champions League perse (3-1 contro il Dortmund, 1-0 contro il Madrid pochi mesi prima del Mondiale) e non aveva ancora segnato nessun gol veramente importante. La Francia era stata tratta d’impaccio da Blanc contro il Paraguay, se l’era cavata ai rigori contro l’Italia e poi ci aveva pensato Thuram con una doppietta contro la Croazia. La partita di Zidane doveva ancora arrivare.

 

La partita di Zidane contro il Brasile sembra un distillato del migliore Zidane che ci possa venire in mente. L’unico giocatore a muoversi per il campo con una visione veramente a 360°, capace di andare in qualsiasi direzione in qualsiasi momento, pronto comunque a sfruttare ogni spazio in verticale per entrarci con una potenza straordinaria. Zidane sapeva essere al tempo stesso leggero e pesante, elegante e brutale (o almeno più brutale di come ce lo ricordiamo). Nel primo tempo ha servito un assist a Dugarry anticipando Aldair con un tunnel, dopo aver scartato Junior Baiano con un controllo di esterno, dopo aver saltato Dunga e il resto del centrocampo con un triangolo con Djorkaeff. Dugarry a mala pena controlla la palla, poi cade come un giocattolo smontato.

 

Zidane gioca con Lizarazu a sinistra e con Thuram a destra, viene a prendersi palla dai piedi di Petit, la porta se può altrimenti gioca di prima, usa l’esterno con la scioltezza con cui i tennisti usano il rovescio. Controlla e porta palla con la suola, senza toccare il pallone che scorre gli passa a destra e a sinistra, per ingannare i suoi avversari, per rallentare il gioco fino a fermarlo. Zidane è il pensatore unico della Francia e dopo 27’ usa la testa per schiacciare in rete il gol del vantaggio. Anticipa Leonardo e colpisce la palla con una tale violenza che il tentativo di parata di Taffarel è puramente formale. E a fine primo tempo segna il secondo, sempre colpendo all’altezza del primo palo ma stavolta disarcionando il suo marcatore, Dunga.

 

Poi Zidane gioca un secondo tempo fatto di sterzate e protezioni del pallone, con un’eleganza e una spigolosità che i brasiliani non hanno, che li fa restare a distanza.

 

«Mi sentivo come un bambino a cui avevano dato un gioco», ha detto Zidane di quella partita, ma la verità che erano stati gli spettatori a ricevere qualcosa in regalo quel giorno.

 

Oliver Bierhoff vs Messico

di Emanuele Atturo

 

 

Il Messico indossava una maglia con la fantasia di un’aquila reale ed era una delle squadre sorpresa di quel Mondiale. Dopo un’ora di gioco era passato in vantaggio con un’azione personale di Luis Hernandez, el Matador, che aveva sciato in mezzo agli avversari in area di rigore. La Germania era invece grigia e operaia, con un gioco fisico fatto di cross verso l’area di rigore.

 

Un gioco che aveva senso perché al centro dell’area c’era un uomo che aveva più sensibilità sulla testa che sui piedi. Oliver Bierhoff nel 98 era al culmine della propria onnipotenza aerea. Veniva da una stagione da 31 gol all’Udinese e si stava per trasferire al Milan, dove avrebbe vinto uno degli scudetti più inaspettati della sua storia.

 

La Germania aveva pareggiato con un gol brutto in spaccata di Klinsmann, dove l’attaccante aveva fatto valere la sua elettricità in area di rigore. Poi è arrivato questo gol assurdo. La Germania con due tentativi di cross non riesce a farne uno decente. Il secondo per lo meno arriva in area di rigore, ma è una brutta palla: arretrata, un po’ lenta, solo che a prenderla c’è Oliver Bierhoff, che la gira in porta con una forza e una precisione semplicemente incredibili. La mia teoria – che avevo espresso anche qui parlando di Pasquale Luiso – è che negli anni ‘90 gli attaccanti erano più tecnici di testa. Francia 98 è pieno di gol arrivati su colpi di testa potenti e rotondi, fatti con la decisione di chi considera la testa un ferro del mestiere. Anche in quest’ultimo Mondiale abbiamo visto molti gol di testa, ma nessuno riusciva davvero ad esprimere la potenza di Bierhoff, o di Salas, o di altri centravanti che avevano un mini cannone in quella parte laterale della testa con cui si colpisce la palla. Francia 98 va ricordato anche come il Mondiale dei grandi colpi di testa.

 

 

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