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Il mito dei bomber di provincia
01 dic 2016
01 dic 2016
Luiso, Zampagna, Schwoch, Riganò, Maniero, Protti, Ferrante, Hubner: l’epopea del grande centravanti di provincia.
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Comparivano in Serie A dal niente già vecchi. Attaccanti di piccole squadre con l’aria di cacciatori di taglie. Si portavano dietro un soprannome immaginifico, aneddoti poco credibili e la capacità misteriosa di segnare contro difese di qualsiasi livello. Specializzati in poche specifiche situazioni di gioco, assoldati da squadre alla disperata ricerca di quel pugno di gol che facesse la differenza tra salvezza e retrocessione. Conoscevano la linea del fuorigioco come una regola del cosmo, i segreti del tiro sporco, dell’“incornata”, del “gol di rapina”. Senza un talento

, costruivano la loro reputazione tramite l’estremo pragmatismo del gol e il loro culto si è alimentato nel tempo, gonfiandone la leggenda, confondendo l’immaginario al piano reale.

Guardando indietro, verso quel profondo abisso di nostalgia che sono gli anni ’90, poche cose brillano nella loro inattualità come i

. In quest’epoca di universalizzazione dei compiti, dove i centravanti devono possedere doti quasi sovrannaturali per non essere sostituiti da forme più raffinate di attaccante - o di

della costruzione bassa degli avversari - il loro ricordo ci sembra appartenere a un’era calcistica più innocente. Per questo oggi li rievochiamo con una quantità imprecisata di pagine Facebook e

. Anche se è difficile ricordare il loro reale valore e il motivo preciso per cui li amiamo ancora tanto.

C’entra solo il meccanismo basilare della nostalgia, il rimpianto della nostra infanzia; o lo stereotipo italiano dell’arte di arrangiarsi, il nostro gusto per una particolare forma di cinismo calcistico?

Probabilmente nella figura del centravanti di provincia entrano in azione due idiosincrasie degli italiani: la passione per i centravanti “veri” e quella per le divinità minori. Idiosincrasie di un paese che ha fondato il proprio gusto calcistico sull’ideologia breriana della praticità, che alla genialità del “10” ha sempre preferito il realismo del “9”. Un’espressione di quella estetica della praticità tipicamente italiana, un apparato ideologico dal quale rivestire di mitologia alcuni ruoli in particolare: il difensore centrale che “spazza in tribuna”; il terzino operaio che “ara la fascia”; il gregario che “fa la legna”; il bomber che “spacca la porta”.

A fronte di questa idea di praticità, per il numero “9” si usa spesso il concetto di “vocazione”, come se il gol fosse un dono religioso e la capacità di farne una specie di inclinazione mistica, che quindi non appartiene a tutti ma solo a pochi eletti. Centravanti, insomma, si è per elezione e bisogna possedere un talento invisibile che ha più a che fare con l’istinto che con la razionalità. La porta si “sente” o si “vede”, come se fosse un’entità parzialmente sovrannaturale. In questo senso, il centravanti di provincia incarna ancora più pienamente la nostra idea di centravanti perché a doti tecniche visibili apparentemente modeste, fanno da contraltare doti realizzative eccezionali, misteriose. Non è un caso che il centravanti è il ruolo che prevede più varianti, spesso oscure, a livello etimologico: goleador, bomber, cannoniere, marcatore, fromboliere. La lingua si estende quanto l’immaginario di quella cultura, diceva Wittgenstein.



Il termine “provincia” non si usa, qui, come indicazione geografica, piuttosto come un concetto culturale. L’enciclopedia Treccani la

: «L’insieme dei piccoli centri, dei paesi di una provincia, in contrapp. al capoluogo (spesso con partic. allusione al loro modo di vita, caratterizzato da un maggior attaccamento alle tradizioni e alle abitudini e, in genere, dalla minor varietà di attività culturali generalm. offerte dalle grandi città): venire dalla p.; abitare in p.; ritirarsi a vivere in p.; la monotonia, la tranquillità della p.; la grazia o il tedio a morte del vivere in provincia (Francesco Guccini); di provincia, contraddistinto da mentalità, abitudini, gusti, costumi più semplici, meno evoluti: città, gente di p.; vita di p.».

Bisogna anche specificare che si sta parlando di provincia calcistica, che quindi se Venezia non può essere considerata “provincia” nella geografia reale lo è senz’altro in quella pallonara. Spero nessuno si offenda.

Ho scelto sette centravanti italiani, perché sono i soli in grado di permettere quel meccanismo di identificazione fondamentale: il centravanti di provincia si ama soprattutto perché potrebbe essere nostro zio, o l’amico forte mezzo matto del bar. Gli stranieri non solo sono esotici, ma hanno quasi tutti hanno una carriera in Nazionale che ne ha elevato la dimensione (Kennet Anderson, ad esempio).

Da questa mia galleria sono esclusi i centravanti appartenenti a prima o a dopo gli anni ’90, quelli che hanno avuto contratti da un milione l’anno (chiedo scusa a Cristiano Lucarelli) e quelli rimasti nelle categorie inferiori del calcio, perché il mito del centravanti di provincia si costruisce sulla sua efficacia fuori contesto in un calcio d’alto livello: un vero bomber di provincia deve aver avuto almeno una stagione giocata in modo formidabile, in grado di generare più di un dubbio sul suo reale valore. Questo elimina dal pezzo tanti monumenti dei nostri album panini. Roberto Murgita ha perso lo sliding doors contro Pasquale Luiso con cui è stato scambiato nel 1997: uno ha segnato 5 gol al Piacenza, l’altro è diventato capocannoniere della Coppa delle Coppe. Luca Saudati ha avuto una buona stagione all’Empoli senza mai dare l’impressione di essere forte. Paolo Poggi era un grande faticatore, ma giocava fondamentalmente in funzione di Hubner (bomber di provincia). È stato escluso “Nick” Amoruso - tre stagioni alla Juventus - e Maurizio Ganz - quattro stagioni tra Milan e Inter - perché hanno prolungato la loro magia fino al punto di fare il salto di livello con il calcio “che conta”.

Sono stati esclusi giocatori dal talento cristallino che hanno passato la carriera in provincia per un problema di potenzialità inespresse: Arturo Di Napoli, che pure avrebbe un curriculum di grande provincia anni ’90 (Vicenza, Messina, Venezia, Piacenza), aveva un talento calcistico superiore alla media e sarà fuori da questa classifica. Stesso discorso per Roberto Muzzi, David Di Michele, Claudio Bellucci e Francesco Flachi, che hanno avuto una carriera inferiore alle proprie possibilità. Altri sono stati esclusi senza una ragione eclatante, ma solo perché non erano abbastanza buoni come centravanti di provincia. Sono rimasti esclusi per poco Sandro “Il Cobra” Tovalieri, Simone “Tir” Tiribocchi e “Pippo” Maniero, tutti a pieno titolo “centravanti di provincia”. Come piccola compensazione, ho provato a classificare tutti i centravanti di provincia dagli anni ’90 ad oggi nella mappa sui centravanti di provincia che trovate sotto.

NOTE:

È la capacità classica di un bomber di provincia di segnare reti inimmaginabili ed estremamente ambiziose.

Abbastanza chiaro. Dove non possono arrivare con la tecnica, il fisico e l’atletismo i centravanti arrivano con l’astuzia e la telecinesi.

A livello molto elementare: quanto un centravanti di provincia sembra un centravanti di provincia. Ma anche quanto il suo stile sia riuscito a rimanere immortale nella nostra memoria.

Le storie dei centravanti di provincia hanno una sintassi precisa, una narrazione fatta di prove eroiche realizzate dentro contesti poveri, artigiani, un po’ ridicoli. Con questo parametro misuriamo quanto fedelmente un centravanti di provincia ha rispettato questa narrazione.

In buona sostanza, quanto il bomber ha dovuto lavorare sul proprio talento per ricavare una carriera decente e un buono stipendio.

Bene, ora però cominciamo.

 

 

MAPPA CENTRAVANTI DI PROVINCIA ANNI ‘90

 

 































Per i centravanti di provincia le doti invisibili sono spesso più importanti di quelle visibili. Luiso è l’archetipo del centravanti sovrano indiscusso delle doti immateriali: la fame, la grinta, l’istinto, il mestiere. «La tecnica puoi sempre migliorarla, ma la grinta, quella devi averla dentro, non si compra al mercato. Tu ce l’hai, si tratta di un tesoro che devi sfruttare al massimo» gli

Corrado Orrico.

 

Luiso è entrato per la prima volta in una scuola calcio a 15 anni, nell’Afragolese, ma prima aveva giocato nei vicoli di Napoli: «Ero un giocatore grezzo, ruspante. Non c’era tempo per raffinare i fondamentali». Nel gioco del calcio di Luiso l’uso dei piedi ha un’importanza relativa, e se era efficace è perché giocava davvero come se avesse qualcosa che gli bruciasse dentro.

A inizio carriera giocava come ala destra, ruolo di cui ha conservato l’attitudine a puntare i difensori in accelerazione con la testa bassa, come un toro in un’arena. Poi quando si è trasferito al Sora l’allenatore lo ha spostato punta centrale: «Ti ho visto giocare, sei molto forte. Ma là in fascia non mi servi, la tua forza e la tua tenacia mi servono là in mezzo, davanti al portiere. Lì puoi fare molto male». Come per i migliori bomber di provincia, Luiso si è guadagnato il posto più per la sua attitudine mentale che per le sue doti tecniche. Per la sua capacità di usare i “trucchi”, di creare i contesti. È stato il mister Di Pucchio a spostarlo lì, che ricorda come suo mentore in un modo tutto suo: «Mi voleva bene, programmava le liti. Diceva: giovedì faccio incazzare Pasquale. Veniva lì, mi offendeva, me ne diceva di tutti i colori: “fetente, tu non vali niente, non hai coraggio, non hai le palle”. Cercava la reazione e io alla domenica davo tutto».

Nel Sora, Luiso ha segnato 22 gol in 30 partite, e Calleri, il presidente del Torino, ha l’intuizione di portarlo in Serie A. Alla presentazione

: «È come Romario, solo che è più forte di testa». Davanti però aveva Silenzi e Rizzitelli e dopo qualche mese di panchina ha chiesto al presidente di scendere di categoria, andando al Pescara. È solo il primo episodio in cui Luiso dà prova di una grande consapevolezza dei propri limiti.

Nella carriera di Luiso è inutile scavare alla ricerca di un talento inespresso: Luiso era tutto lì, ha ottenuto il massimo possibile, anzi molto molto di più, dal suo talento. E Luiso è anche quel tipo di persona che ha fatto di questo traguardo un vanto personale, un modo di stare al mondo. Lo si capisce quando, da nuovo allenatore della Triestina,

«Ho cercato una squadra in Lega Pro ma non l’ho trovata perché devi portare lo sponsor. E io non sono uno che porta lo sponsor. Io sono uno che deve allenare». Ma l’umiltà di Luiso, la sua straordinaria dedizione al lavoro, è così profonda da diventare disturbante per gli altri, come se il mondo non fosse abbastanza pronto per Pasquale Luiso: «Con Roma, Lazio, Milan e Napoli ci sono sempre stati dei contatti. È che in giro si diceva che Luiso fosse un po’ una testa calda, ed è vero».

Ecco una breve raccolta delle dichiarazioni di Pasquale Luiso più umili, perverse e paranoiche:








Un altro aneddoto tipico della scalata del centravanti di provincia è quello che risalente ai tempi dell’Avellino, quando il presidente promette a Pasquale Luiso una Mercedes a fronte di 15 gol. Per Luiso quel regalo diventa una trappola, o al limite una nuova possibilità per dimostrare una nobiltà di spirito ancora superiore: «Non l’ho voluta, ed è stato giusto così. Avrei meritato il regalo se i miei gol fossero serviti a salvare l’Avellino, invece la retrocessione in C1 rovinò tutto quanto. Non sarebbe stato corretto festeggiare le mie prodezze mentre la squadra era costretta a scendere di categoria».

Dopo l’Avellino, Luiso viene acquistato dal Piacenza, in Serie A, dove il suo mito si mescola a quello del Piacenza Tutto Italiano. Quando arriva gioca ancora con la medaglietta di Padre Pio sotto la maglia e una grossa cicatrice sulla guancia destra. In panchina c’è Bortolo Mutti che

alla squadra: «Giocate tutti per Luiso» e a lui non pare vero: «Cosa devi fare? Vai in campo e cerchi di spaccare il mondo».



A riguardare le compilation dei suoi gol viene il sospetto che Luiso sia stato il più grande colpitore di testa della storia del campionato italiano. Non esistono statistiche da consultare, ma sono quasi certo che Luiso abbia segnato più gol di testa che di piede. Riusciva quasi sempre a sovrastare il marcatore, in tempi in cui la protezione arbitrale dei difensori era più blanda, e a dare una forza al pallone che violava le leggi della fisica. A meno che Luiso non avesse dei muscoli supplementari sul collo, che gli permettevano di “frustrare” la palla con più forza.

Il colpo di testa di Pasquale Luiso era il simbolo più forte della sua voglia di distruggere la realtà, di non avere paura di niente, di essere disposto a piegare tutti i limiti pur di segnare. Forse per questo colpire di testa per lui era più naturale che colpire di piede: ci sono alcuni suoi gol in cui effettua dei movimenti innaturali, abbassandosi fino a terra, pur di prenderla con la testa: «Una volta ne ho fatto uno di testa con il pallone a cinque centimetri da terra, ho strisciato sulla ghiaietta con naso e pallone». Il suo gol più famoso è una rovesciata contro il Milan: «Dopo quella prodezza i miei compagni e Mutti dalla panchina mi urlavano “sei un pazzo! sei un pazzo!”: è stata l’apoteosi». Dargli del ‘“pazzo”, nella scala di valori di Luiso, è il migliore dei complimenti.

 



Avere a che fare con Pasquale Luiso doveva essere un vero incubo. Litigava con tutti, in qualunque momento, e ne faceva una condizione esistenziale, necessaria a tenerlo in vita: «Un sabato pomeriggio l’allenatore mi fece veramente andare fuori di testa, il giorno dopo segnai tre gol». Ribaltando l’assunto di Cartesio, per Luiso valeva il principio: “Litigo, quindi sono”. Ma se i rapporti con Luiso erano difficili sempre, quando non segnava diventavano davvero impossibili. Luiso ha vissuto periodi di digiuno sia a Piacenza che a Vicenza, e gli aneddoti che circolano su quei momenti sono quelli di un uomo da internare: Luiso durante gli allenamenti che resta a bordo campo a parlare da solo; Luiso che strilla in faccia alla gente; Luiso che insulta gli allenatori e poi

: «Scusi mister, mi è partita una scheggia di ignoranza».

Il rapporto tra Luiso e il gol era qualcosa di malato. Racconta che sua nonna teneva un santino della Madonna con dietro la sua foto, una cosa che persino Luiso trovava esagerata. Al che la nonna rispondeva: «Tu devi segnare sempre». E il rapporto tra Luiso e il gol si può leggere tutto nel modo in cui esultava. Le esultanze di Luiso sono una vera e propria sospensione della partita: durano diversi minuti, sembra sempre un disperato che vuole menare qualcuno.

Luiso viene spesso ricordato per ballare la

ai tempi del Piacenza Tutto Italiano, ma le sue migliori esultanze sono le più disperate. Tra le migliori

in cui si aggrappa alla recinzione e ci rimane sospeso, a fare il pazzo, per un tempo che sembra infinito. Ma anche

vagamente iconoclasta, in cui diventa improvvisamente freddo e cita Platini sdraiandosi sul cartellone pubblicitario. Le mie preferite in assoluto sono però quelle in cui si toglie la maglia e sotto tiene la maglia della salute, ed è sempre bello vedere il modo in cui tratta le maglie che si toglie.

per esempio la fa roteare in aria dopo essersela tolta come se stesse facendo un vero e proprio spogliarello;

invece la lancia in aria con una rabbia incomprensibile.

invece la tira in un punto qualunque del campo come fosse uno straccio bagnato (era il 70esimo e su quella maglia c’erano probabilmente almeno 3 dei 4 chili che Luiso perde ogni partita): dopo partono 3 minuti di esultanza e puro delirio.

Forse l’esultanza più iconica di Luiso è quella all’apice esatto della sua carriera, che corrisponde con la vetta del dominio del calcio italiano nel mondo. Dopo il gol dell’1 a 0 del Vicenza in trasferta a Stamford Bridge, nel ritorno della semifinale della Coppa delle Coppe, zittisce tutto lo stadio da vero mitomane, ma con la consapevolezza di chi sa che ha appena dipinto uno scorcio surrealista nella realtà quotidiana del calcio che sta diventando moderno.

Nella Coppa delle Coppe del ’98 Luiso non ha solo segnato in finale (due gol, uno annullato ingiustamente) ma ha anche conquistato la classifica marcatori. Ma invece di finire in una grande squadra è rimasto al Vicenza, persino dopo la retrocessione in Serie B, due stagioni dopo. Quando gli chiedono perché non è mai andato in una grande squadra dice che è stata solo colpa sua, «Me lo dice sempre mio padre», del fatto che avesse «un carattere di merda». Ma quando lo dice lo fa con addosso il sorriso del pazzo, o di qualcuno totalmente consapevole della propria retorica. Così consapevole da essere riuscito ad elevarla a forma d’arte.

 

































Cose belle esportate da Terni nel mondo: il panpepato, la scenografia de La Vita è bella e Riccardo Zampagna, un centravanti comunista di 90 chili che possedeva tutte le qualità richieste a un vero bomber di provincia:

Passato operaio ✓

Stagioni da doppia cifra in Serie A ✓

Fisico anti-agonistico ✓

Gol pazzeschi ✓

Fede socialista ✓

Amore folle e incondizionato delle piazze in cui ha giocato ✓

Appena arrivati a Terni, fuori dalla stazione, il monumento al centro della piazza è una dura dichiarazione d’intenti: una pressa da dodicimila tonnellate usata negli anni ’30 dalle acciaierie della città, che per decenni hanno dato da mangiare ai ternani. Il padre di Riccardo Zampagna, Ettore, a forza di lavorarci e di respirare amianto si è preso un tumore ai polmoni.

Fino a 23 anni, invece, Zampagna ha lavorato come tappezziere e non aveva praticamente mai fatto una scuola calcio. Il che lo rende uno dei bomber di provincia con la narrativa più pura: «Guadagnavo 800 mila lire al mese come lavorante nella tappezzeria di Giampiero Riciutelli e altrettanti me ne dava il presidente dell’Amerina». Quando nel 1996 viene ingaggiato in Interregionale, con il Pontevecchio, il padre gli regala una Fiat Tipo per muoversi dalla tappezzeria agli allenamenti, ma Zampagna era nella morsa delle contraddizioni di un lavoratore sottopagato: «La trasformammo a metano per consumare meno. Crescevo di categoria ma ci rimettevo economicamente, 100 mila lire al mese in meno come calciatore e gli spostamenti a mie spese».

Da lì forse lo sviluppo ancora più profondo della propria coscienza di classe. Se il comunismo è, in sintesi estrema, stare dalla parte dei deboli, e se l’idea del bomber di provincia è soprattutto fare l’ambasciatore dei sogni degli ultimi, Bomber Zampagna è una sintesi ideale dei due concetti. Anche perché poche cose sono meglio di un centravanti di provincia che

(nella categoria

Zampagna batte Lucarelli).

A renderlo professionista è stato un VHS recapitato a Walter Sabatini, all’epoca ds della Triestina, quando Zampagna era ancora all’Amerina. È arrivato in Serie A con il Messina, 30 anni, e all’esordio (Messina - Roma 4 a 3) segna il suo primo gol con

. Un gesto che uno come Zampagna, sempre attentissimo a voler dare l’immagine di un uomo anti-conformista,

con un forte simbolismo: «Quando ero all'Atalanta mi cercarono club del blasone di PSG, Monaco e Fulham. Mi offrirono molti soldi, ma io stavo bene all'Atalanta, mi trovavo con la società e accettare sarebbe stato contro i miei valori fondamentali. Fu una scelta un po' come quella del pallonetto in Messina-Atalanta: dettata dalla follia».

Zampagna ha legato la sua carriera a due città: Bergamo e Terni, peraltro gemellate. Alla Ternana ha giocato un solo anno, in Serie B, e non avergli fatto guadagnare la promozione per Zampagna è ancora il maggior rimpianto della carriera (mentre il suo sogno è portarcela da allenatore). «Quando mi hanno detto “Sarai un giocatore della Ternana”, mi sono venuti i brividi. Sono andato sotto la curva per togliermi la maglia. Guardo la curva per vedere chi conoscevo, e conoscevo un po’ tutti. Ad un certo punto, vedo mio cugino che piange». All’Atalanta ci è arrivato due anni dopo l’esordio in Serie A, nel pieno della maturità calcistica, decidendo di tornare nella serie cadetta, legandosi per due anni alla squadra lombarda. E quando nel 2010, con la maglia del Sassuolo, Zampagna è tornato in provincia di Bergamo per la trasferta con l’Albinoleffe, i tifosi bergamaschi bloccarono il pullman in autostrada per dedicargli una festa. Alla sua

allo stadio Liberati di Terni, erano presenti entrambe le tifoserie e Zampagna ha

la bandiera della Ternana sotto la curva indossando la maglia degli “orobici”.

Come un vero bomber di provincia, avendo cominciato molto tardi la scuola calcio, Zampagna si è costruito il proprio bagaglio tecnico in maniera artigianale, da auto-didatta («Il calciatore cresce passando attraverso i settori giovanili, con gente che gli spiega cosa fare, io non sono nato calciatore»

), ma non per questo senza attenzione allo stile. Nel gioco di Zampagna ci sono degli estemporanei picchi di classe operaia: pallonetti senza dolcezza, rovesciate troppo violente o stiracchiate per essere eleganti, dribbling troppo secchi e pragmatici per essere belli. Una coolness grezza che possiamo considerare lo stile di gioco più puro di un centravanti di provincia. L’equivalente di andare a rimorchiare a bordo di un’apetta modificata.

Zampagna ha segnato parecchi gol incredibili, che spesso colpiscono soprattutto per l’intuizione mentale improvvisa che li ha preceduti. Zampagna ad esempio era un mago delle rovesciate, a dispetto di un corpo che sembrava fare fatica a coordinarsi in movimenti complessi. Ma le sue rovesciate raramente erano un gesto tecnico realizzato su cross alti dietro al corpo, quei momenti in cui un corpo umano sembra scomporsi per tendere al cielo, mentre più spesso erano colpi di pura astuzia. Semplicemente un modo per prendere alla sprovvista i difensori: in

ad esempio è in una posizione in cui un attaccante di solito protegge palla e cerca di costruirsi un tiro, mentre Zampagna si gira all’improvviso e rovescia la palla da pazzo; stessa cosa

, dove si gira con la goffaggine di un insetto ribaltato. Zampagna era un maestro nell’anticipare i tempi della conclusione. Zampagna sapeva che se era girato spalle alla porta la cosa che meno poteva aspettarsi un portiere era un pallonetto, e su questa intuizione Zampagna ha costruito alcuni tra i gol più originali che ci sia mai capitato di vedere in Serie A. Li metto qui sotto una base di CCCP come magari piacerebbe a lui.



Nel 2011, dopo il suo ritiro, Zampagna si è emancipato dal lavoro dipendente comprando una tabaccheria nel centro di Terni, che nel 2016 ha venduto per dedicarsi totalmente al ruolo di allenatore. Nel 2015

con gli operai delle acciaierie di Terni, per protestare contro le emissioni che hanno reso la città la seconda in Italia per tumori: «Mio padre era un operaio. I miei facevano grossi sacrifici e per me oggi è un dovere scendere in piazza per questa causa. Le acciaierie mi hanno dato da mangiare». Se Terni è la Manchester d’Italia, Zampagna è stato il suo profeta.





























Schwoch è forse il centravanti con meno diritto a comparire in questa lista, perché la Serie A l’ha appena sfiorata, con 14 partite e 2 gol con il Venezia: appena 6 mesi tra il ’98 e il ’99. Per il resto Schwoch dovrebbe far parte del sottogruppo degli “attaccanti di categoria” (insieme a gente tipo Caracciolo, Cacia, Godeas, Tavano, Francioso). Schwoch è il giocatore che ha segnato più gol nella storia della Serie B: 135. Ma se Schwoch non è stato il miglior centravanti di provincia, né assolutamente il più forte, è stato senz’altro il più fico, quello con l’estetica più marcata. Le associazioni nella nostra mente funzionano in modo semplice: se dico “pensa a un attrezzo e a un colore” penserai a un “martello rosso”; se dico “pensa a Stefan Schwoch” penserai ai suoi capelli lunghi tenuti dalla fascetta, alla maglia del Napoli sponsorizzata Peroni

.

Schwoch è stato un vero idolo di provincia in una piazza enorme ma in momentaneo decadimento come Napoli. Un cortocircuito stupendo, il cui frutto migliore, più che i 28 gol segnati, sono stati i tributi situazionisti che i tifosi del Napoli gli hanno dedicato. Come ad esempio

“Napoli mia Napoli” e interpretata dallo stesso Schwoch insieme al figlio Iacopo; il soprannome “Sansone” e il documentario di un’ora intitolato “Treno ad alta velocità”.

Schwoch ha giocato due anni a Napoli, in Serie B, e nella seconda stagione i suoi 22 gol sono stati decisivi per la promozione. La sua cessione fu un vero dramma per i tifosi, che ancora considerano Schwoch “una luce in anni bui” e che sotto i suoi video scrivono commenti come: «Per i ragazzi negli anni ’90 Schwoch era quello che oggi è Higuain». I tifosi del Napoli hanno il bisogno di riversare il loro amore incondizionato verso una figura messianica, la cui caratura è spesso specchio del momento che il club sta attraversando. Alla fine degli anni ’90 a Stefan Schwoch si diceva «Tu si alto-atesino, scugnizz’ e Mergellina / Pure se si e Bolzano, l’azzurro è rint’e’te».

Il documentario a lui dedicato si trova su YouTube diviso in cinque parti ed è la cosa che vi introduce meglio di ogni altra cosa al mondo “Stefan Schwoch a Napoli”. All’inizio si citano Maradona, Giordano, Carnevale e Careca, poi si dice: «E adesso è il momento del grande Stefan Scwhoch». I momenti più alti del film:










Calcisticamente, Stefan Schwoch era un giocatore spettacolare, talmente assurdo da sembrare il parto di una sessione di edit a PES particolarmente lisergica. Il suo fisico brevilineo, col baricentro basso, era una rarità per i numeri ‘9’ dell’epoca. Schwoch aveva una tecnica sopra la media dei centravanti e, in un mondo di difensori alti e macchinosi, si muoveva come una specie di “Romario dei poveri”. Tirava i rigori con una rincorsa leggera, senza staccare gli occhi dal portiere. Le sue finalizzazioni erano talmente calme da sembrare quasi provocatorie. Il suo

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