Western Conference
Golden State Warriors (1) vs Portland Trail Blazers (8)
di Davide Casadei
Per il terzo anno consecutivo torna in onda lo show più tristemente atteso dell’anno: gli Warriors che impallinano il loro avversario al primo turno di playoff. La prima stagione vide un Anthony Davis in rampa di lancio lottare come una bestia ingabbiata nell’aurea mediocritas per poi soccombere alla catapulta infernale degli Splash Brothers. La seconda, in cui vennero introdotti i morti viventi (ehi Dwight!) fu una palla al piede con un colpo di scena nel mezzo: la caduta e la faticosa risalita dell’eroe Curry. Questo episodio non preannuncia stravolgimenti di fronte, ma ci può regalare qualcosa che agli altri è mancato: un antieroe degno di questo nome.
Damian Lillard è nato ad Oakland, gioca a pallacanestro con la mentalità di Oakland, nella sua musica mette il sound di Oakland. La città della Bay Area è uno di quei posti in cui la gente ci tiene un sacco a farti capire cos’ha dovuto passare per arrivare dov’è ora, tipo Compton o Roma Nord. La cosa che manca invece a questa serie, ahimé, è la difesa. Dei Blazers nello specifico. Portland ha il Defensive Rating più basso delle squadre ai playoff (Cavs esclusi…) e le partite di regular season ci danno pessimi segnali in questo senso: 3-0 Warriors con tre blowout da 125+ punti giocando gli ultimi quarti col fondo delle panchine.
Terry Stotts è un allenatore preparato, con un arsenale di trick plays quasi inarrivabile persino per gli standard NBA. Sa arrangiare squadre competenti e difese passabili anche senza un materiale umano di eccellenza: tagliare fuori a rimbalzo, niente scommesse improbabili, cambi fluidi e che ce la mandino buona. Su Curry ovviamente non puoi mai passare sotto e il backcourt titolare dei Blazers non ha la velocità di piedi per stare con Steph. Il bi-MVP uscente ha massacrato ripetutamente la difesa avversaria con una pazzesca varietà di floater e persino Pachulia, che solitamente è un bloccatore d’èlite senza pretese di ricezione dopo il roll a canestro, ha fatto molti danni a centro area. Plumlee e Leonard sono perennemente in quella posizione di show debole su cui squali del pick and roll come il 30 e Draymond Green si avventano per uccidere.
L’unica e flebile speranza, e un inedito nella serie stagionale è la Bosnian Beast, Jusuk Nurkic. Entrato di soppiatto nelle rotazioni con la nomea di difensore pigro dal carattere intrattabile, in un mesetto di attività Jusuf si è preso l’area e l’arena di una città che lo ha letteralmente adottato. Le frecciatine in post-partita al management dei Nuggets sono già leggenda, mentre secondo NBA.com con il bosniaco in campo la difesa di Portland concede in media 9.5 punti in meno per 100 possessi. In attacco, su scala minore, ha avuto l’effetto che la sua nemesi serba Nikola Jokic sfodera partita dopo partita per gli ormai suoi Nuggets. È un passatore di ottimi istinti, in particolare dal post, e i Blazers tirano il 7% meglio da 3 da quando la cometa Nurkic ha impattato l’Oregon. Non è difficile immaginare il perché: i suoi blocchi sono solidi e danno più spazio all’artiglieria perimetrale, aprendo poi una voragine a centro area in cui si tuffa con sorprendente mobilità e dolcezza di mani. Il centro è stato a riposo precauzionale per un infortunio alla gamba, tagliando ulteriormente le possibilità già risicate di un upset. Può stare con Durant, Thompson o Curry in penetrazione? Assolutamente no. Ma è una presenza al ferro che in recupero può intimorire, fattore X di una serie che sembra comunque indirizzata verso i californiani.
L’altro punto di domanda sono le condizioni di Durant. È tornato da qualche partita e non è parso affatto arrugginito. KD, come tutte le superstar NBA è limitabile ma non arginabile e Portland può schierare una batteria di esterni che va da Aminu a Crabbe sulle sue tracce. Tentativo generoso ma che non può bastare, un vero grattacapo anche per squadre più attrezzate come probabilmente scopriremo nel corso dei playoff. Se Lillard e McCollum riescono a trascinare il Moda Center in un’esplosione di triple, i Blazers potrebbero afferrare una partita. Purtroppo per loro, però, in uno scontro di puro firepower nessuno nella storia può vantare l’arsenale degli Warriors. Stotts e i suoi si trovano nella scomoda posizione di dover battere una squadra che gioca il loro basket perimetrale ma in maniera estremamente più fluida ed armoniosa, nonché con un potenziale Defensive Player of the Year in meno.
L.A. Clippers (4) vs Utah Jazz (5)
di Francesco Andrianopoli
La sfida tra quarta e quinta forza ad Ovest è tradizionalmente la più attesa ed equilibrata dell’intero primo turno, e quest’anno non fa eccezione: si sfidano due squadre estremamente talentuose, con due/tre All-Star reali o putativi a testa, ben allenate, convinte dei propri mezzi; due formazioni a cui è mancata continuità per il medesimo motivo (gli infortuni), e il cui confronto potrebbe quindi essere sparigliato dalle condizioni fisiche dei rispettivi acciaccati e convalescenti.
I Clippers hanno stupito tutti con una partenza folgorante (14-2 nel primo mese di stagione), in cui trituravano gli avversari infliggendo distacchi abissali: poi sono iniziati i problemi, e a conti fatti hanno dovuto rinunciare per circa un quarto della stagione a Chris Paul e a Blake Griffin; a marzo sembravano sulla via del pieno recupero fisico, ma hanno perso Austin Rivers, che con il suo apporto di difesa e dinamismo è assolutamente cruciale per una panchina corta, avanti con gli anni e lenta di piedi.
I Jazz, da parte loro, hanno completato un percorso di crescita che li ha portati a mettere a segno quattro stagioni consecutive con almeno 20, poi 30, poi 40 e infine 50 vittorie: una circostanza curiosa, che si è ripetuta soltanto cinque volte nella storia della lega, e che rappresenta il miglior riconoscimento della loro oculata pianificazione e gestione delle risorse di uno small-market; il tutto pur dovendo rinunciare per lunghi periodi a Favors, Hill, Hood, Exum e Hayward, per un totale di oltre 130 partite perse; nessun altro backcourt titolare della lega ha giocato meno minuti insieme della coppia Hill-Hood, e i Jazz hanno potuto schierare il quintetto titolare soltanto in 13 occasioni (record 11-2).
A una prima impressione, i favori del pronostico sembrano doversi dirigere verso lo Utah: i Jazz sono più giovani, più atletici, più profondi; vantano una delle migliori difese della lega, il più temibile spauracchio difensivo del lotto, uno dei pochi pari-ruolo con una chance di contenere Chris Paul, e un potenziale All-NBA nascosto in piena vista.
Altri elementi, invece, inducono a preferire i Clippers:
- l’esperienza e il fattore campo, elementi immateriali e talvolta sopravvalutati, ma che in una serie così equilibrata potrebbero spostare l’ago della bilancia.
- il 3-1 Clippers negli scontri stagionali, con affermazioni sempre abbastanza nette, confermando un trend che vede i Jazz soccombere 1-9 negli ultimi 10 confronti contro di loro.
- la rotazione e l’incidenza delle panchine: per i Clippers, strangolati dal salary cap, l’efficacia delle riserve è un tasto dolentissimo, e ha rappresentato un grave handicap nel corso dell’intera Era Lob City; i Jazz, invece, hanno trovato nelle seconde linee quantità e qualità, e il rendimento sorprendente dei vari Ingles, Lyles, Joe Johnson, Diaw ed Exum ha risolto più di una partita; ai playoff però le rotazioni si accorciano drasticamente, e avere un roster profondo diventa quasi irrilevante, facendo impennare le azioni dei Clippers e il loro roster “top-heavy”.
Se la difesa dei Jazz è in grado di tenerli in partita contro chiunque, dall’altra parte del campo Quin Snyder ha disegnato un attacco elaborato e articolato, impreziosito da minuziosi dettagli e variazioni sul tema dei blocchi lontani dalla palla che non si ritrovano in molti altri playbook: un meccanismo splendido da vedere quando funziona a pieni giri, ma che richiede tempo (i Jazz, non casualmente, sono la squadra che gioca al ritmo più basso della lega), pazienza e precisione di esecuzione, tutti fattori che in una concitata serie di playoff possono venire facilmente a mancare, soprattutto dovendo contare su giocatori che di partite di questo tipo ne hanno giocate complessivamente ben poche.
Doc Rivers peraltro è un maestro nell’inserire granelli di sabbia nei meccanismi offensivi altrui, e se dovesse riuscirci anche questa volta i Jazz faranno molta fatica a segnare, visto che affidarsi alle interpretazioni individuali non è proprio la specialità della casa. Se da un lato del campo Paul e i lunghi dei Clippers avranno i loro problemi contro Hill, Gobert e il resto dei meccanismi difensivi dei mormoni, dall’altro sarà decisivo il rendimento di Hayward e il suo duello con Mbah a Moute, terrificante e sottovalutato gargoyle difensivo che in stagione regolare lo ha fatto soffrire terribilmente.