Alcuni giocatori sono condannati ad avere una percezione diversa da quello che in realtà sono, con una dicotomia di valutazione tra chi segue l’NBA solo occasionalmente e chi perde le diottrie sul League Pass. In questo senso Gordon Hayward è forse quello che ha la forbice più ampia tra le due parti: la stella degli Utah Jazz gioca in uno small market, viene da un college non di primissima fascia, non ha mai avuto grosse campagne mediatico-pubblicitarie alle spalle, è apparso solo quest’anno per la prima volta all’All-Star Game, ha persino declinato la possibilità di giocare con Team USA quest’estate per stare più vicino alla famiglia. I suoi numeri grezzi inoltre (22 punti, 5.5 rimbalzi, 3.5 assist) sembrano semplicemente “carini” confrontati a quelli di alcune superstar. Quindi è comprensibile perché, al fan più occasionale, Hayward possa sembrare un nome quasi hipster per quanto riguarda i giocatori NBA. Ai consumatori di League Pass invece il fatto che Hayward stia iniziando a ricevere parzialmente delle considerazioni non è affatto una casualità, così come non c’è nulla di sorprendente nel sapere che questa estate sarà il miglior free agent sul mercato.
Aspettative basse
Nel 2004 i New York Knicks assegnarono i ruoli di Presidente e General Manager della franchigia ad Isiah Thomas, che decise di presentarsi ai suoi fan con una delle sue tipiche mosse di mercato: un grosso nome disfunzionale in cambio di scelte al Draft. Thomas scelse di prelevare Stephon Marbury dai Suns in cambio di una prima scelta con protezioni severe nei primi anni, fino a diventare non protetta negli anni seguenti: l’unico risultato positivo tangibile per i Knicks è una frase di Scrubs che oggi fa ancora ridere per il motivo sbagliato. 55 giorni dopo la trade i Suns si liberarono della scelta, cedendola ai Jazz assieme a Tom Gugliotta per avere flessibilità salariale.
A differenza delle altre franchigie i Jazz si tennero stretta la pick per sei lunghi anni, sapendo che un giorno sarebbe diventata non protetta e affidandosi al fatto che i Knicks sono tra le franchigie più disfunzionali della storia dello sport. Ad un certo punto la scelta sembrava un asset di valore inestimabile, ai livelli della scelta dei Brooklyn Nets di quest’anno per intenderci, ma con uno degli ultimi spasmi di vita rimasti i Knicks si esibirono in una stagione solamente mediocre da 29 vittorie nel 2009-10, e ai Jazz spettò solo la nona scelta in un Draft che aveva come primo premio John Wall da Kentucky. I Jazz speravano che la pick sarebbe diventata una pietra angolare per la franchigia e quando al Draft venne scandito il nome del 20enne Gordon Hayward, pallido e gracilino e famoso ai più solo per aver quasi segnato il tiro del quasi upset di Butler in finale su Duke, i fischi riempirono la serata newyorkese.
Hayward avrebbe dovuto farsi strada in una squadra di veterani del calibro di Deron Williams, Carlos Boozer e Mehmet Okur (“oh the times, they are a-changing”), anche se in estate Carlos Boozer assieme ad altri elementi della rotazione quali Kyle Korver e Wes Matthews firmarono tutti per altre destinazioni. Nella stagione da rookie Hayward mise su una serie di numeri (5.4 punti, 1.9 rimbalzi, 1.1 assist) sufficienti per il fan occasionale a dimenticarsi della sua esistenza. Da quella stagione in poi, però, ha progressivamente migliorato numeri e prestazioni, diventando uno dei giocatori più versatili del mondo e portando quest’anno i Jazz ai playoff per la prima volta in cinque anni. Alla fine quella scelta è diventata davvero il giocatore franchigia che Kevin O’Connor, il GM di Utah al tempo, sperava – anche se non tutti ci hanno fatto caso.
Jack of all trades
Usando le parole di Kevin O’Connor (quello di The Ringer, non l’ex GM) Hayward è una superstar che si nasconde in piena vista. È uno dei soli cinque giocatori di quest’anno capaci di segnare più di 21 punti con meno di 16 tiri a sera, entrando in una lista che comprende oltre a Giannis Antetokounmpo anche Eric Bledsoe, Kyle Lowry e Blake Griffin, tre giocatori che condividono l’attacco con altri volume shooters, che sono fenomenali ad andare in lunetta e che per vari motivi vengono bistrattati dai fan occasionali.
Un compito assai difficile è quello di spiegare cosa faccia bene Hayward, non per mancanza di argomenti, ma perché la risposta più immediata sarebbe “tutto”, risultando spesso nel miglior portatore di palla e realizzatore dei Jazz marcando contemporaneamente l’esterno avversario più pericoloso. Non esiste situazione nel campo da gioco in cui Hayward sia in difficoltà, risultando nell’80° percentile nelle seguenti categorie: pick and roll, piedi per terra, in uscita dai blocchi, in transizione e su taglio. In aggiunta a ciò è praticamente primo a pari merito con Jimmy Butler come miglior giocatore in transizione con 1.43 punti per 100 possessi, in aggiunta a 1.03 punti per 100 possessi nell’attacco a metà campo, cifra che lo piazza al di sopra di giocatori come Steph Curry o Damian Lillard.
La spaventosa efficienza numerica tuttavia non è dovuta ai soli miglioramenti tecnici di Hayward, che ci sono ed è impossibile negare, ma anche alla rivoluzione del roster di Utah. L’anno scorso, così come negli anni passati, i Jazz non avevano un solo giocatore affidabile nel portare palla e dettare i ritmi di gioco nel backcourt e così Hayward era di fatto il playmaker designato della squadra, restringendo il suo gioco a un insieme ristretto di soluzioni offensive. Quest’anno l’aggiunta di George Hill, assieme agli innesti di altri trattatori veterani come Boris Diaw e Joe Johnson, hanno moltiplicato le soluzioni di circolazione di palla e in aggiunta a Trey Lyles (un vero e proprio talismano per lo spacing e il playmaking) ha permesso a Hayward di esprimersi sia da portatore di palla che lontano da essa, due aspetti del gioco che affronta con la stessa naturalezza.
Off the ball
Il gioco senza palla di Hayward, come già accennato, ha potuto fiorire soprattutto quest’anno. Nel primo anno al college era il giocatore più alto nel roster di Butler e Brad Stevens lo utilizzava spesso da “4”; solo con l’arrivo di Kyle Marshall ha potuto spostarsi stabilmente sul perimetro, senza però disdegnare alcune frazioni di gioco da lungo tattico. Uscito dal college non c’era quindi un’idea della valutazione del gioco senza palla di Hayward proprio per il fatto che non ci si chiedesse nemmeno se sarebbe stata una cosa che avrebbe usato; ad oggi invece la pletora di movimenti lontano dalla palla è lo yin al suo yang da portatore primario.
Hayward ha tre caratteristiche che gli permettono di essere una minaccia quando si muove sul lato debole: la capacità di lettura delle situazioni di gioco, l’esplosività e l’equilibrio del corpo, e la fiducia nel tiro.
Le letture gli permettono sia di decidere quando tagliare (non appena Muscala lo indica e gira la testa per non volersene più curare), sia dove farlo, ovvero di fronte alla palla, per facilitare il passaggio non appena arriva il raddoppio sul portatore.
L’esplosività invece è tutta da ammirare in questa clip: dopo un piccolo balzo sul posto Hayward scatta in tre falcate bruciando Giannis Antetokounmpo e andando a prendere la palla molto più in alto di quanto Monroe possa sperare di fare. Il fatto che per i tifosi occasionali Hayward non sia un atleta eccezionale è uno di quei misteri che la scienza dovrebbe risolvere al più presto.
La facilità di gioco in attacco è stata anche notevolmente agevolata dall’aumentata confidenza con il tiro da fuori, aumentando progressivamente il numero di tentativi da tre stagione dopo stagione. Hayward si trova sempre più a suo agio nella zona che va dalla media distanza fino al di sotto del canestro, ma il suo scoprirsi pericoloso da ogni punto del campo lo ha reso ancora più letale per gli avversari – e utile per i compagni.
Nella transizione in video, il Gordon Hayward del passato avrebbe puntato dritto verso il ferro. Quest’anno è stato molto più attento a coprire le linee esterne per trovare un tiro ad altissima percentuale o per aprire la strada centrale ai lunghi che arrivano a rimorchio.
I numeri da capogiro in transizione sono sottolineati da un irreale 71% dal campo, che diventa 77% per i tiri che prende ricevendo un passaggio. I Jazz non puntano particolarmente sull’attacco a tutto campo, ma la loro difesa granitica garantisce spesso delle ripartenze del genere e avere un finalizzatore del suo calibro ha permesso un miglioramento offensivo di tutta la squadra.