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Antonio Gagliardi

Sta finendo l’era del Gioco di posizione?

Per anni ha rappresentato il canone tattico, ma oggi forse qualcosa sta cambiando.

La rivoluzione del “gioco di posizione” è arrivata al proprio apice negli ultimi anni e, come sempre nella storia (del calcio, ma non solo), è iniziata una controrivoluzione che porterà inevitabilmente a un’evoluzione.

 

Quella del gioco di posizione è una rivoluzione iniziata ormai 50 anni fa ad Amsterdam da Rinus Michels, allenatore, e Johan Cruyff, giocatore, proseguita poi fra Milano e Barcellona con Arrigo Sacchi, Louis van Gaal  e di nuovo Cruyff, stavolta allenatore. Completata, infine, da Pep Guardiola ormai 15 anni fa, sempre a Barcellona. Il gioco di posizione dell’allenatore catalano, capace di vincere tutto con Messi, Iniesta e Xavi, ha cambiato il calcio per sempre: la ricerca della superiorità posizionale partendo da dietro, con almeno un uomo libero alle spalle di ogni linea di pressione, la ricerca del terzo uomo, l’occupazione razionale e scientifica degli spazi con i 5 canali, lo sfruttamento quindi degli halfspaces e il ricorso a moduli come il 325 o 235 in fase offensiva. 

 

Sono princìpi e codifiche che abbiamo imparato a conoscere, apprezzare ed ammirare e che, negli ultimi anni, tantissime squadre al mondo (non solo le big) adottano. Per rimanere ai recenti Mondiali possiamo fare gli esempi della Spagna, della Germania ma anche del Brasile di Tite – e parlando di nazionali non possiamo non nominare la nazionale di Mancini vincitrice degli ultimi europei. La rivoluzione del gioco di posizione è stata talmente grandiosa da cambiare persino le regole, con l’introduzione della possibilità di avere uno o più giocatori all’interno della propria area di rigore al momento di battere il rinvio (regola introdotta nel 2019 e che garantisce alla squadra che vuole impostare dal basso un vantaggio geometrico sugli attaccanti), ed è arrivata a contaminare anche grandi allenatori con idee di gioco diverse, come Jurgen Klopp e Antonio Conte, che nel corso degli anni hanno aggiunto al loro personale e diverso modello di gioco proprio quei princìpi e quelle soluzioni tipici del gioco di posizione. 

 

Da un paio di stagioni a questa parte le difese hanno iniziato a prendere delle  contromisure al gioco di posizione ed è iniziata una controrivoluzione, in quella continua ed eterna tensione fra soluzioni offensive e adeguamenti difensivi che la storia di ogni sport conosce. L’aumento del pressing alto, aggressivo e spesso uomo contro uomo, per esempio, è uno dei principali ostacoli al gioco di posizione. Cercare di limitare la costruzione dal basso avversaria e dunque il predominio territoriale necessario per trovare l’uomo libero e, poi, occupare la metà campo offensiva per continuare ad accumulare vantaggi sfruttando superiorità soprattutto posizionali. 

 

La tendenza a marcare l’uomo e non lo spazio è sempre più comune non solo fra le squadre che adottano un pressing alto ma anche per quelle che restano più basse, in attesa, e che a centrocampo cercano i riferimenti avversari  per creare un 3vs3 (nel caso di centrocampo avversario a tre, ovviamente) con molti duelli individuali. Poche settimane fa Spalletti ha dichiarato: «Gli schemi non ci sono più nel calcio. Gli spazi non sono più tra le linee, ma tra gli uomini, la bravura sta a trovarli quegli spazi». Ci sono sempre meno difese di reparto (linee) da attaccare, ma se ci sono meno spazi tra le linee uno dei principi cardine del gioco di posizione (appunto quello di sfruttare gli spazi tra e fra le linee) viene meno. 

 

Per anni all’interno del gioco di posizione abbiamo chiesto ai nostri trequartisti di occupare un determinato spazio e di galleggiare in quella zona, aspettando il pallone: «È la palla che arriva a te e non il contrario. Stai fermo!» I vantaggi che si riuscivano ad ottenere “piazzando” i giocatori negli half spaces erano fondamentali e quasi scientifici contro determinate difese, soprattutto le linee difensive a quattro che lavoravano di reparto. Ma queste situazioni vantaggiose stanno diminuendo sempre di più. 

 

 

“Il ruolo: da posizione a funzione, da funzione a relazione”

Queste inevitabili contromosse da parte delle difese stanno portando a un’ulteriore evoluzione del gioco. Stiamo arrivando (tornando?) a un gioco basato maggiormente sulla continua mobilità intorno al portatore palla, un gioco maggiormente orientato sullo sfruttamento delle caratteristiche dei giocatori.

 

Negli ultimi anni abbiamo detto che «il ruolo non è più una posizione ma una funzione, un compito»: costruttore o invasore; un giocatore che dà ampiezza, uno che deve rifinire il gioco sulla trequarti. Adesso però le funzioni si sono ulteriormente evolute è il “ruolo” è passato dall’essere una funzione (più o meno specifica) all’interpretazione di un singolo all’interno di una “relazione”: è il continuo e costante movimento della palla, dei compagni e degli avversari a determinare gli smarcamenti intorno al giocatore in possesso.  

 

Di volta in volta i vari giocatori nella zona del pallone diventano “vertice”, “appoggio laterale” o “scarico”, indipendentemente dalla loro posizione o dalla funzione iniziale di partenza. Dunque è la “relazione” con la palla, con i compagni, con gli avversari – è la relazione con il contesto – a determinare e influenzare i movimenti, le scelte, il gioco dei singoli.

 

Si tratta di un ulteriore passaggio nella naturale evoluzione dei ruoli, con i giocatori che tornano a essere al centro di tutto e non più ingabbiati in una determinata posizione, ma neanche limitati da una o più funzioni. I giocatori, cioè, saranno completamente liberi di esprimersi all’interno di principi di gioco comuni. Ci saranno meno allenatori protagonisti ma più giocatori protagonisti. O forse, meglio, gli allenatori saranno protagonisti in maniera diversa. 

 

Questo stile di gioco ha radici antiche, soprattutto in Sudamerica. L’Argentina campione del Mondo ha vinto in totale contrapposizione al Brasile di Tite: la squadra verdeoro, secondo i puristi sudamericani, si è lasciata troppo ispirare dal “posizionisimo” europeo forzando i propri giocatori di talento all’interno della struttura del 325, limitando in maniera eccessiva campioni come Neymar o Vinicius. La selezione di Scaloni, invece, è tornata alla “Nuestra”: il personalissimo modello di gioco argentino ben idealizzato da Menotti negli anni 70’. «Il centro è la palla. Si muovono in funzione della palla», ha dichiarato il Ct campione del Mondo, recentemente a Coverciano in occasione del premio la Panchina d’Oro. 

 

Una squadra, quella argentina, capace di vincere cambiando sette strutture diverse (o moduli se preferite) nelle sette partite del Mondiale, cercando di adattarsi ad avversari e a Messi, provando – e riuscendo – a esaltare il talento argentino assecondandone i movimenti e creando un “supporting cast” di giocatori tecnici e offensivi come Di Maria, De Paul, McAllister, ma anche Alvarez, Paredes, Lautaro o il “Papu” Gomez. 

 

Un calcio capace di esaltare le qualità, le caratteristiche e i momenti emozionali dei giocatori, soprattutto quelli più tecnici. Anche perché connettere tra loro i giocatori, rende tutti poi un po’ più felici. Un calcio che non ha paura di prendere una forma asimettrica, che vuole dominare il possesso non per tattica e spazi predefiniti ma per tecnica e spazi dinamici. Il focus passa dallo spazio alla palla (e ai giocatori). Nel calcio posizionale, lo spazio occupato è fondamentale per poter performare meglio; nel calcio relazionale è la performance individuale a determinare gli spazi. 

 

In questo momento in Sud America si parla molto della Fluminense di Diniz. Densità in zona palla, asimmetria e ritmi adatti ai propri migliori giocatori, fra cui Ganso. L’asimmetria è un concetto importante perché dare libertà ai singoli presuppone che, muovendosi, la squadra possa avere superiorità numeriche in certe zone, lasciandone altre meno coperte. Questo ed altri aspetti non sono facili da accettare per allenatori abituati al controllo totale, o quasi, della propria squadra. 

 

Ci vengono in aiuto proprio le parole di Diniz:

 

 

Un calcio “aposizionale”, “funzionale” e “relazionale”

Come accennato, le “nuove” funzioni (totalmente o quasi scollegate dal ruolo di partenza) diventano dunque quelle di “appoggio”, “scarico” e “vertice” intorno al portatore di palla. Riuscire a far interiorizzare tutto ciò ai giocatori non sarà facile, e sarà la nuova sfida metodologica del prossimo decennio; forse dai rondo torneremo a possessi più liberi in cui dovremmo continuamente ricreare il rombo di palleggio. Sicuramente la riaggressione sarà ancora più importante e così le coperture preventive: quest’aspetto è già ora uno dei problemi del calcio posizionale con tanti invasori sopra linea palla, ma sarà ancora più difficile da organizzare con una costruzione e un possesso fluido in cui gli interpreti cambiano continuamente. 

 

Nel calcio di posizione, banalmente, le posizioni e gli spazi sono l’elemento più importante; così importante che molto lo chiamano “posizionismo” un processo calcistico che Sacchi ha portato all’esasperazione. Le sue squadre si muovevano all’unisono, collegate da un’invisibile corda soprattutto in fase di non possesso. Sacchi era il (fantastico) direttore d’orchestra della squadra. Ora è il tempo delle jam session in cui i grandi interpreti possono improvvisare, se connessi fra di loro soprattutto dal punto di vista emozionale. Pensiamo alla connessione Messi – D.Alves nel Barca o agli scambi Totti – Cassano nella Roma. Empatia animica che diventa arte.

 


Di questi temi abbiamo parlato anche in una puntata di Lovanovski, il nostro podcast dedicato alla tattica.

 

Forse ripensando ai fallimenti di Riquelme al Barcellona (gestione Van Gaal) o ancora del già citato Ganso in Europa (Siviglia ed Amiens) non possiamo non considerare l’eccesso di posizionismo che c’è stato nella gestione di questi e di altri talenti sudamericani. Probabilmente Riquelme è uno dei giocatori simbolo del calcio aposizionale, funzionale e relazionale con la sua andatura lenta, il suo bisogno di andare verso la palla, i suoi tanti tocchi per controllarla, le “pause” prima delle invenzioni, i suoi uno – due. 

 

Dell’argomento ho parlato con Francesco Farioli, uno dei giovani allenatori emergenti maggiormente vicini al gioco posizionale, proveniente da esperienze come primo allenatore in Turchia, l’ultima delle quali, sulla panchina dell’Alanyaspor, conclusasi lo scorso febbraio.

 

«Il concetto chiave per me è quello di un equilibrio dinamico, come quando si va in bici per intendersi. Trovare equilibrio attraverso il movimento più o meno armonico di ciò che è rappresentato in campo. Come giustamente sottolinei, la grande sfida non sarà più nell’analisi, ma in ambito metodologico, con giocatori sempre meno legati al compito/ruolo è sempre più abituati ad esplorare zone di campo differenti e con competenze sempre più variegate. Negli anni passati tante volte abbiamo sentito lamentele sul “giocare fuori ruolo” o “in zone di campo non familiari”. Oggi sempre di più le dinamiche della partita, le contrapposizioni, i continui cambi di modulo e l’allenamento stesso stanno guidando/avvicinando i calciatori verso una conoscenza sempre meno specifica, ma decisamente più ampia».

 

Farioli continua la sua riflessione:

 

«Qua non possiamo non fare riferimento a Darwin e alle sue teorie sull’evoluzione delle specie. Come il grande scienziato-filosofo ci ricorda, l’evoluzione della specie avviene come risultato di caso e necessità (proprio come nel calcio). Nella lotta per la vita, si salvano le specie che sono più abili ad adattarsi alle circostanze e alle necessità che via via si presentano. 

 

Riportando il discorso in ambito calcistico, si pensi all’evoluzione della richiesta e della performance fisica dei calciatori. Tra qualche tempo non ci sarà più spazio per giocatori non veloci e non potenti. Ed è proprio in questo continuo ed incessante fluire, tra ricerca scientifica e scouting, tra metodologia dell’allenamento e analisi tattica, tra competenze gestionali e sfide culturali, che si giocherà il prossimo grande capitolo dell’evoluzione calcistica». 

 

Abbiamo visto, prima, diversi esempi oltreoceano, ma ce ne stati e ce ne sono di ottimi anche in Europa. Innanzitutto torna alla mente lo splendido Ajax di Ten Haag, arrivato in semifinale di Champions League nel 2019, dopo aver eliminato Real Madrid e Juventus. Una squadra guidata dai giovani De Jong e De Ligt e con un attacco di densità composto dalle tre punte molto strette Neres, Tadic e Ziyech. 

 

O, ancora, il Napoli di Spalletti di quest’anno, una squadra poco posizionale e molto fluida, che riesce a sfruttare appieno le caratteristiche dei propri giocatori, Lobotka, Kvara ed Oshimen su tutti. Ma forse l’esempio europeo migliore e più vincente è quello del Real Madrid allenato da Carlo Ancelotti. L’allenatore italiano ha costruito diverse squadre plasmandole sulle qualità dei calciatori a disposizione. Il Milan di Pirlo, Seedorf e Rui Costa è stato un meraviglioso antenato del calcio funzionale e relazionale. Una delle prime squadre del calcio moderno a basarsi sul controllo del pallone e vero precursore del Barcellona di Xavi ed Iniesta per la capacità di potersi permettere così tanti centrocampisti tecnici e qualitativi. Ma anche l’ultimo Real Madrid con Kross e Modric a centrocampo, Valverde incursore o finto-esterno (a volte, però, a seconda dell’esigenza, anche vero e proprio esterno), Vinicius in uno contro uno a sinistra e Benzema libero di associarsi dove meglio crede. 


Siamo abituati a valutare la bravura dell’allenatore in base all’identità che riesce a dare alle proprie squadre, alla realizzazione del modello di gioco dell’allenatore stesso quasi indipendentemente dai giocatori che le compongono. Per questo alcuni fra i più bravi allenatori degli ultimi 10-15 anni sono molto riconoscibili anche nelle diverse esperienze che hanno, persino con poche partite a disposizione. Il modello di gioco alternativo di cui stiamo parlando invece cambia ogni volta, e sarà dunque difficile replicare da squadra a squadra, perché è disegnato sulle caratteristiche dei giocatori.

 

Ovviamente, come per tutti gli aspetti calcistici, sarà importante il contesto (il campionato, le avversarie) e il livello dei giocatori a disposizione. Con calciatori meno abili il lavoro dell’allenatore con le codifiche di movimenti e/o spazi possono colmare differenze tecniche importanti, ma anche la valorizzazione delle individualità e la possibilità di lasciare libera l’interpretazione  hanno i loro punti a favore. 

 

Di questo ne ho parlato con Davide Ancelotti, figlio di Carlo e vice-allenatore del Real Madrid:

 

«Osservo i miei due figli che, all’età di 4 anni, cominciano ad appassionarsi al gioco del calcio. Come il loro papà e qualsiasi altro bambino, lo fanno cercando di imitare le gesta dei propri calciatori preferiti, esclamando a voce alta il loro nome nel momento in cui calciano il pallone o effettuano una parata. Noi ci innamoriamo di questo gioco grazie ai calciatori. Partendo da questo presupposto, la vera sfida sta nel riuscire a riconoscere, tra le infinite connessioni che si creano tra di loro, quelle che vanno esaltate (come quella tra Messi e Dani Alves, o quella la famosa tra Insigne e Callejon). 

 

Far sì che tramite un’organizzazione di squadra si ripeta una situazione nella quale di una particolare connessione possa beneficiare il collettivo, trovare esercitazioni che in allenamento sviluppino queste connessioni e le migliorino. Il gioco di posizione nelle sue versioni migliori è stato un mezzo per poter esaltare i propri interpreti. Esattamente come per Mourinho nel 2010 il blocco basso e contropiede è stato il mezzo per far sì che Sneijder lanciasse Pandev, Eto’o e Milito a campo aperto. La mia opinione sull’argomento è che il calcio fin dall’inizio sia sempre stato dei calciatori. Non credo che il gioco di posizione stia andando verso la sua fine. Forse in alcuni casi, più che con altri modi di giocare, si è arrivati per questioni mediatiche a considerarlo una filosofia, un’identità necessaria per vincere. Ma non penso sia così. Il gioco di posizione fa parte di quel bagaglio culturale dal quale un allenatore può attingere per scegliere il vestito da cucire alla squadra. Va quindi conosciuto e studiato. Mi piace, nel rappresentare la figura dell’allenatore, utilizzare l’esempio del Camaleonte, un animale capace di cambiare in continuazione colore per sfuggire ai pericoli che lo circondano, per adeguarsi alla realtà attorno a lui. Non legato a un’identità. Oggi tra primo e secondo tempo si possono giocare due partite completamente diverse. Cosi come possono esserci prestazioni totalmente diverse di una stessa squadra a seconda dell’avversario che affronta». 

 

Non si può avere la presunzione di comprendere tutte le variabili e prevederle. Questo cambio continuo richiede comunque grande preparazione e studio da parte dello staff, che deve riuscire a riassumere il proprio lavoro in informazioni chiare e poco numerose da trasmettere ai giocatori. Deve proporre allenamenti che siano disordinati come la partita, ma che abbiano alla base grande organizzazione. Queste sfide probabilmente non verranno mai vinte, ma sono quello che ci stimolano e alimentano la nostra passione. 

 

Per questi motivi sta cambiando anche il lavoro di analisi degli staff tecnici. Preparare le partite contro squadre sempre più fluide e meno ancorate alle strutture è sempre più difficile e complicato. La volontà di codificare situazioni difficilmente codificabili rischia di lasciarci impreparati alla gara. Sembra un paradosso, ma non lo è. Più preparo e meno sono preparato. 

 

Il fattore emotivo in questo caso è fondamentale. Per i giocatori arrivare alla partita con troppe informazioni (soprattutto di contrapposizione difensiva) e constatare in campo che si trovano in un altro contesto rispetto a quello studiato può causare un deficit emotivo: “E adesso? Cosa facciamo?” Un calcio fatto di asimmetrie, non-strutture e maggiori scambi di posizione, risponde probabilmente meglio alle esigenze del calcio moderno e alle mosse della contro-rivoluzione di cui abbiamo parlato sopra. Come dire? Se vuoi marcarmi a uomo, ti porto in giro per il campo e libero altri spazi che saranno occupati da altri giocatori. Il gioco posizionale è stato una grandissima evoluzione del gioco, ma paradossalmente il suo grande successo rappresenta il suo stesso limite: Più squadre lo utilizzano e più avversari imparano a difendersi contro quei princìpi, contro quei posizionamenti e quell’utilizzo degli spazi. Il gioco aposizonale, funzionale e relazionale potrebbe essere la sua naturale evoluzione mantenendo tanti di quei princìpi ma restituendo maggiore libertà ai giocatori, aiutando il raggiungimento di un’empatia di squadra tale da far sembrare naturale qualsiasi rotazione o scambio di posizione.



Fa dunque sorridere, per concludere, pensare che il genitore stesso del gioco posizionale, l’Olanda del 1974 è stato probabilmente anche il più grande esempio di fluidità e scambi di posizione mai visto ad alto livello, con un’affinità socio-relazionale che rendeva il tutto poesia.  

 

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Antonio Gagliardi è nato nel 1983 a Bassano del Grappa. Collabora con lo staff tecnico della Nazionale Italiana dal 2010.