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Perdere l'amore: Paulo Henrique Ganso
08 ott 2021
08 ott 2021
Pensavamo fosse più forte di Neymar.
(articolo)
16 min
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Il 10 agosto del 2010 il centro dell’universo calcistico è in New Jersey. A east Rutherford si sta giocando una semplice amichevole tra Stati Uniti e Brasile, e gli occhi non sono precisamente sulla partita ma su due giocatori che, danzando per il campo, la stanno trasformando nella propria personale dimostrazione di talento. È il palcoscenico che il Brasile, e il suo ct, Mano Menezes, hanno scelto per mettere in mostra i propri due talenti più brillanti: Neymar Jr. e Paulo Henrique Ganso. Da due anni si parla di loro, da quando cioè hanno esordito con la gloriosa maglia del Santos. Due anni in cui hanno sfoggiato un talento così oltraggioso che il popolo ha iniziato a reclamarli per il Mondiale sudafricano. Col loro stile di gioco eccentrico, fantasioso e ultratecnico erano dei degni ambasciatori dell’ideologia del Joga Bonito. Il CT del Mondiale, Dunga, forse per paura di bruciarli, ha preferito tenerli nascosti al mondo e non li ha convocati. Erano il frutto più dolce partorito dal Brasile, bisognava coltivarli con amore e prudenza. Ganso era uscito devastato dalla mancata convocazione: «Di notte sognavo la Coppa del Mondo. Ho sognato di segnare un gol, non so se in finale, ma di certo indossavo la maglia del Brasile».

Quel giorno Neymar e Ganso sono insieme sullo stesso campo e quando il Brasile decide di mostrare al mondo i propri talenti generazionali, il mondo si mette all’ascolto, in attesa di capire che faccia avrà il calcio del futuro. Vicino a loro c’è Robinho, che di Neymar è padre spirituale. Ganso si mette in mezzo al campo, maglia numero 10 sulle spalle, e non ha nessuna intenzione di faticare. Mentre Neymar e Robinho, così magri che sembrano scomparire dentro maglie troppo larghe, sfrecciano sulle fasce in corse piene di sbuffi barocchi, Ganso si limita ad assecondarli passandogli la palla di prima. Neymar segna di testa, dribbla tutti, riempie la sua partita il più possibile di giocate da highlights con un gusto massimalista. Ganso, minimalista, si accontenta di fare da punteggiatura dello sfarzoso possesso palla brasiliano. Quando la partita è quasi finita si concede un leziosismo. A pochi centimetri dall’area di rigore, defilato leggermente sulla destra, ha un marcatore davanti e la palla attaccata al piede. Con un elastico la sposta dal sinistro al destro, e prova un tiro goffo, cadendo. Negli spogliatoi camminano abbracciati, lui e Neymar, coi calzettoni bassi, il rumore dei tacchetti sul pavimento dei corridoi dello stadio. Hanno due anni di differenza ma si sono presi il Santos quasi in contemporanea, e in quel momento è difficile immaginare chi dei due avrà la carriera migliore.

Dai video che arrivano dal Brasile, che in quei primi anni di social ci scambiavamo come gli ep esoterici delle band indie-rock, Neymar è chiaramente un alieno. Coi capelli sparati come quelli di un chitarrista glam rock in pensione, comunica davvero qualcosa di liquido in campo. Il suo corpo schizza, diventa un pennello che si muove su una tela immaginaria con gusto barocco e decorativo. Quello di Ganso a volte sembra tenersi a malapena in piedi, e solo quando gli avversari gli vanno addosso, cercando di rubargli palla, ne indoviniamo un’inattesa solidità, atollo in mezzo a un mare in tempesta. La tenacia sempre sorniona con cui protegge il pallone è ciò che lo rende di più Ganso. La lentezza enigmatica delle sue protezioni palla. Se Neymar confonde gli avversari con la velocità, Ganso li stordisce con la lentezza, come quegli stupefacenti che rallentando la realtà ne aprono nuove dimensioni. Neymar può portare a spasso i giocatori avversari anche per tutto il campo come beep-beep; Ganso però può tenerli incatenati a un solo angolo nel vano tentativo di togliergli la palla dai piedi. La palla è ferma, Ganso pure, e loro sotto ipnosi, rallentati come un pezzo Chopped and Screwed ascoltato bevendo Lean.

Il video sotto si riferisce alla finale del campionato paulista tra Santos e Santo André. Mentre il Santos è in vantaggio, la palla viene data a Ganso che la occulta. La partita viene congelata per un tempo nauseante, flemmatico persino per la flemma del calcio sudamericano. È una delle partite che più hanno contribuito alla costruzione del mito di Ganso. A 10’ dalla fine viene richiamato dall’allenatore in panchina, e lui rifiuta il cambio facendo no con la mano: «Mi sono preso le mie responsabilità, sentivo che dovevo farlo. Con la 10 addosso dovevo comportarmi così, non potevo uscire dal campo. Alla fine abbiamo vinto il titolo».

Forse non c’è giocata che caratterizza meglio Ganso, di lui che perde tempo. Definirlo un artista della pausa, come altri centrocampisti dello stesso ramo genealogico - Riquelme, Zidane, Aimar - è riduttivo. Ganso, fra loro, è l’unico che sembra voler far precipitare la partita verso il suo stesso annullamento. A non esprimere nessuna energia vitale verso il pallone. O almeno così sembra, finché non ha una scintilla che restituisce senso al tutto.

Il duo Ganso-Neymar è stilisticamente affascinante perché sono due facce opposte di come si può esprimere il talento tecnico. Neymar coi dribbling partendo dall’esterno del campo, cercando di risolvere da solo il grande problema di come si infila una palla in porta. Ganso con i filtranti geniali, i piccoli tocchi di palleggio, le protezioni palla, i primi controlli di una dolcezza indescrivibile. Porta più all’estremo la premessa di un calcio puramente estetico.

Chi conosce il calcio può capire quanto sia complicato fare un controllo del genere, e i fanatici dei video di Zidane riconosceranno una vaga assonanza estetica. In effetti Neymar ama chiamare Ganso “Zidane 2”. Un paragone che non gli pesa e che anzi gli piace alimentare. Ma se Zidane proteggeva palla per poi partire in progressione come un uccello che spicca il volo, Ganso rimane pigramente impantanato a terra.

Era difficile dire chi avrebbe avuto la carriera migliore, tra Neymar e Ganso, ma quelli che vogliono esprimere un gusto più raffinato non hanno dubbi: «Ganso è il più grande talento prodotto dal Brasile negli ultimi dieci anni. Il Santos può anche vendere tutta la squadra e tenere lui» dice un Socrates innamorato. Juca Kfouri, uno dei più rispettati scrittori di calcio in Brasile, lo definisce il miglior giovane della squadra. Il talento di Ganso è meno appariscente di quello di Neymar, ma ciò che non salta immediatamente all’occhio è di certo meno pacchiano, più prezioso.

Crack

Il 27 agosto, poco più di due settimane dopo l’esordio con la Seleçao, il ginocchio di Ganso si rompe. Santos contro Gremio; c’è un cambio di gioco verso Neymar, che con un piatto di prima serve l’inserimento di Ganso. Prova ad agganciare la palla col destro, la struscia un po’, il difensore è in controtempo, ma Ganso finisce la sua corsa zoppicando. Non guarda più la palla ma davanti a sé mentre corricchia su una gamba sola. Poi la faccia devastata, il capannello di persone intorno: si è rotto il legamento crociato. Pur economizzando le sue corse al massimo, gli è bastato un piccolo scatto per andare in pezzi. Il corpo di Ganso, semplicemente, non è fatto per correre. Anzi, non è fatto per l’agonismo di una partita di calcio. È quello il momento, per noi che cerchiamo delle tappe narrative riconoscibili nelle carriere dei calciatori, la carriera di Ganso si è spezzata.

Rientra in campo dopo cinque mesi nel secondo tempo contro il Botafogo, e bisogna aspettare per il fischio di inizio perché lo stadio vuole tributare un lungo applauso a un grande artista. Lui, una decina di metri dietro Neymar ed Elano, saluta il pubblico con entrambe le mani, poi si aggiusta i calzettoni e la partita può ricominciare. Ha solo 22 anni ma è già una leggenda nostalgica. Un calciatore imbucatosi dal passato, dagli anni ’70, dal Brasile di Tele Santana e del Fuitebole Bailado. Ha una consistenza sfuggente, una proiezione imagologica di un Brasile calcistico ideale, che nella realtà è ai limiti dell’impalpabile. Come ha dichiarato Tostao: «Mi manca la versione di Ganso che non è mai esistita».

In una delle prime palle toccate, ovviamente da fermo, manda in porta Elano e il Santos segna. Tutti lo abbracciano ed è la sua festa. Dieci minuti dopo segna con un inserimento in area di rigore concluso con un semplice piatto a porta vuota, lo stadio è ai suoi piedi. Ma è davvero ancora lui? Sono passati cinque mesi dal suo infortunio ed è difficile capire cosa abbia perso per strada, dopo l’operazione. Il suo gioco in fondo è sempre stato così pigro, così ostinatamente contrario alla dimensione atletica. Se c’è un giocatore che pensiamo possa non risentire di un infortunio del genere è lui. Ganso vince anche la Libertadores, la prima per il Santos dal 1963 (epoca Pelè), eppure lui pian piano scolorisce, c’è qualche frazione infinitesimale del suo gioco che si disperde, e forse era l’ultimo centesimo che lo teneva aggrappato a delle prestazioni ad alto livello. Oppure Ganso non aveva in realtà perso niente col suo infortunio: il Ganso precedente era stato solo un sogno da cui ci siamo risvegliati alcuni mesi dopo.

A Tokyo, nel Mondiale per Club, il risveglio più brusco. In finale contro il Barcellona, il Santos arriva come l’ultima grande espressione artistica del calcio sudamericano. Ganso, Neymar e l’allenatore Muicy Ramalho sfidano la squadra di Pep nell’ultimo tentativo di giocare un calcio diverso da quello Europeo ma comunque competitivo: il talento individuale contro l’organizzazione collettiva; l’istinto artistico contro la razionalità tattica, la futebol-arte contro il calcio totale. A chi appartiene l’anima del calcio? Il risultato è inequivocabile. Il Santos viene maciullato dall’esattezza del gioco di passaggi, del pressing e dell’armonia del Barcellona. Neymar a fine partita parla con Messi con la mano sulla bocca, passerà al Barcellona un anno anno e mezzo dopo e avvierà un processo di scioglimento del proprio talento nel calcio Europeo non privo di resistenze. Ganso invece ha passato la partita a guardare i centrocampisti fenomenali del Barcellona passargli accanto a una velocità che forse non aveva mai visto in vita sua. È davvero quello, lo stesso calcio che pratica lui ogni settimana nel proprio giardino “santista”?

Neymar così a proprio agio negli spot pubblicitari, il cui stile di gioco sembra stato inventato dagli uffici di marketing di Nike, con tagli di capelli sempre nuovi, sempre a ballare raggiante. E Ganso invece un po’ in disparte, i sorrisi stentati, i capelli tagliati senza fantasia, come glieli faceva la mamma da bambino. L’aria sempre troppo rigida e a disagio, il naso grosso la bocca ampia e stretta. Se Neymar è l’anima malandrina del calcio brasiliano, Ganso ne è la malinconia.

Comincia il 2012 e il Santos lo fa giocare sempre meno, Ganso sbiadisce, mentre Neymar si avvicina all’onnipotenza. Le loro traiettorie cominciano a divergere fino a un punto in cui dimentichiamo il perché li mettevamo nella stessa categoria. Come avevamo fatto a considerarli di un livello simile? C’è un uomo che va talmente veloce che pare correre sospeso da terra; e dall’altra uno così fermo che manco sembra voler vivere per davvero.

Ogni tanto una perla lanciata a un pubblico che probabilmente considera di porci. Questo colpo di tacco eseguito con un grado incalcolabile di indolenza. Ganso che esulta orchestrando gli strepiti del pubblico come fossero una marcetta. “GENIOO” grida il telecronista.

Ganso è di proprietà di un fondo - come spesso capita in Brasile - che offre al Santos la possibilità di prendere la maggioranza del cartellino per solo 5 milioni. Il Santos rifiuta - lo valuta ancora meno quindi? Il suo agente dice che Ganso andrà via dal Santos, con una dichiarazione che starebbe bene in un film decadente di Paolo Sorrentino: «È molto irritato con il club, hanno preparato un progetto per Neymar e si sono dimenticati di lui. Ora vuole andarsene».

Dissipatio

In Italia è Gansomania, o almeno così descrivono i giornali le presunte trattative con Milan e Inter dell’estate 2012. Ma è già un sogno Ganso minore, di cui ormai abbiamo intuito l’irrealtà. La Serie A è dentro una spirale di crisi, e se le sue squadre cercano un talento sudamericano vuol dire che qualcosa per quel giocatore è andato storto. Infine si trasferisce, ma non in Europa bensì al San Paolo ed è quasi una resa al fatto che il proprio stile sia troppo eccentrico per il mondo occidentale.

Del resto a chi poteva interessare un giocatore così? In un calcio sempre più dominato dall’intensità e da organizzazioni tattiche basate sulla riconquista del pallone, chi poteva permettersi Ganso? Sarebbe stato come appendere un dipinto barocco in stanze arredate col rigido stile scandinavo. Magari oggi sarebbe stato diverso, in un calcio in cui le squadre si sono attrezzate con giocatori bravi a mettere calma in mezzo a ritmi sempre più intensi. Ma è una teoria comoda da formulare a posteriori. La verità è che il calcio di Ganso possedeva qualcosa di irriducibile e inadattabile all’Europa. A 23 anni era già in declino ma in fondo lo è sempre stato, vista l’inattualità del suo stile. Gioca in una squadra di ex giovani fenomeni impalliditi e tornati in Brasile per un po’ di relax: Kakà, Luis Fabiano, Bastos, Pato.

Al San Paolo torna a egemonizzare il gioco della propria squadra. Sta davanti la difesa, ma poi si muove magneticamente verso la palla lungo tutta la fascia centrale. E quando la palla gli arriva il San Paolo prende il suo ritmo sinuoso da incantatore di serpenti.

Sembra con la testa da un’altra parte quando gli arriva la palla, svagato. Come se stesse pensando a un’altra cosa, non necessariamente al calcio. Poi però si ricorda all’improvviso che deve fare qualcosa, allora si libera del pallone con un tocco visionario, o protegge la palla con un’abilità tecnica tanto complessa quanto originale. Inventa spazi dove non esistono, confondendo avversari spaesati che forse lo avevano sottovalutato, o visto addormentato.

Ganso in brasiliano significa oca, è stato soprannominato così per il suo collo lungo; ma lui ha in effetti qualcosa dell’uccello acquatico. Di creatura mai perfettamente a suo agio né per aria, né in acqua e né in terra, ma al contempo capace di destreggiarsi fra tutti e tre gli elementi. L’impaccio che ha sulle gambe - così snelle, così fiacche - a tratti confina con la vera e propria paralisi, e allora Ganso oscilla come una trottola, una danza di micromovimenti imparati inventando il calcio da capo. La sua visione di gioco ha qualcosa di magico. Le linee di passaggio che trova fra le difese avversarie lo accomunano ai migliori rifinitori. Si potesse giocare solo così: fermi, a cercare la linea di passaggio più cristallina.

In quel periodo al San Paolo in cui Ganso si costruisce il ruolo di leggenda minore, solo un pazzo poteva decidere di portarlo in Europa, facendo un’estrema scommessa sul suo talento. Quel pazzo, lo avrete capito, si chiama Jorge Sampaoli. Assunto dal Siviglia, l’argentino a volte sembra voler costruire progetti artistici più che squadre di calcio. In Andalusia vuole mettere su una squadra basata sul possesso palla, e vuole Ganso, lo fa pagare a Monchi 9 milioni e mezzo. Arriva in Europa già in un momento in cui nessuno si aspetta ormai niente da lui. Forse solo per togliersi lo sfizio. È stato il passaggio più triste possibile, se la tristezza non è lo schianto vero e proprio ma l’anonimato. Rimanere assolutamente non memorabile tanto in positivo quanto in negativo. Sampaoli voleva Ganso, ma poi non lo fa giocare più di tanto, e il brasiliano è stranito: «Quando una persona ti chiede di andare in un club e poi non ti fa giocare è strano. Poi nemmeno ti spiega niente. Non so, è sbagliato». Cosa rimane del suo viaggio a Siviglia? La buccia di qualche presenza, i resti di qualche magia come quella del beone che al bar tira fuori un vecchio trucco per puro narcisismo, o per dimostrare che un tempo era qualcuno. Qualche sombrero messo sopra la testa di qualche centrocampista precipitoso. Quel colpo di tacco con cui manda in porta Ben Yedder, mentre è attaccato da due giocatori e sta per cadere a terra. Tutti sono costretti a ruotare la propria testa di novanta gradi per osservare l’ultimo magia del vecchio Ganso.

Dopo due anni e tre allenatori diversi che non lo fanno giocare, va in prestito all’Amiens, squadra della Piccardia che sarebbe contraria a qualsiasi tipo di epica, se non vogliamo infilarcela noi con romanticismo disperato. Possiamo, per esempio, immaginare Ganso come un personaggio noir scritto da Paul Auster. In un momento della sua vita in cui vuole fare i conti con sé stesso, ritesse pazientemente il filo della sua vita. Così finisce in Francia, dove può avere l’occasione di ritrovare il suo vecchio amico Neymar, diventato nel frattempo una superstar. Il reperto della partita tra Amiens e PSG si trova su YouTube ed è presentato come l’incrocio tra le due vecchie stelle del Santos. L’Amiens perde 5-0, Ganso trotterella in campo, Neymar non c’è ed è un incontro mancato.

In Francia era arrivato con i riflettori addosso, e ne va a luci spente dopo sei mesi. Torna in Brasile, al Fluminense. È ancora lì e ha passato un anno difficile. Ha preso il covid, è stato operato di appendicite, ha dichiarato che senza il pubblico si fa a fatica a rimanere concentrati in campo (non è difficile immaginarlo). Ha detto che gli piacerebbe giocare più avanzato, da seconda punta, dove può rifinire e creare. A inizio stagione si era ipotizzato un suo ritorno in prestito al Santos, ma non se ne è fatto niente.

I video delle sue partite continuano a essere caricati su YouTube con religiosa regolarità. Cosa cercano in Ganso le persone che caricano con scrupolo i video delle sue prestazioni individuali con la maglia del Fluminense? Cercano nell’attuale Ganso, il vecchio Ganso? Un barlume di realizzazione del suo potenziale? Una capacità immutata di produrre momenti magici? Eppure Ganso non può fare niente di davvero eccezionale. A differenza di altri splendori perduti - Ben Arfa per esempio, o Balotelli - non ha momenti in cui può piegare una partita al suo volere. Anche solo per un momento. Gioca lontano dalla porta. Allora in quelle partite ci accontentiamo di sussultare su qualche tocco particolarmente dolce del pallone, qualche filtrante squisito. Il modo in cui non abbassa mai la testa, mentre porta il pallone a velocità minime. Dietro quei dettagli cerchiamo di recuperare l’idea che avevamo di Ganso, la sua arte perduta, o forse soltanto l’allucinazione che dieci anni fa ci ha fatto credere potesse essere un fenomeno.

Ipnosi

In un articolo di ESPN si sostiene che quello di Ganso era un mito creato ad arte dai media locali. Il suo talento ha brillato in contesti minori e poco competitivi, come il campionato Paulista del 2010, in cui non era presente nessun grande club della regione, tutti impegnati nella Libertadores. Il Santos vinse il titolo in finale contro una squadra senza grande pedigree come il Santo André. Clarence Seedorf nel 2014 bocciò completamente Ganso: «È un po' troppo lento. Con quel ritmo in Europa non può funzionare». Allora Ganso è stata solo un’allucinazione collettiva? Una psicosi di cui siamo stati vittime dieci anni fa? Forse somigliava troppo ai campioni del passato d’oro del calcio brasiliano, perché il pubblico potesse non innamorarsi di lui. Ancora oggi viene trattato con la reverenza che si riserva a un anziano senatore vittima dell'imbarbarimento dei tempi. In un'intervista del 2019 ha dichiarato che sogna ancora di tornare in Nazionale. Soprattutto, si augura di poter condividere ancora il campo con Neymar: «Forse un giorno potremo giocare di nuovo insieme, porteremo tanta gioia a tutti».

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