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Michele Tossani
Cosa lascia Mourinho in eredità a De Rossi
18 gen 2024
18 gen 2024
Cosa non ha funzionato nella Roma del portoghese e cosa può fare il nuovo allenatore.
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Michele Tossani
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IMAGO / ZUMA Wire
(foto) IMAGO / ZUMA Wire
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Sono entrato nel mondo del giornalismo sportivo da ammiratore e studioso di José Mourinho. Su di lui ho scritto un libro e dedicato molte energie ad approfondire la sua figura. Il tecnico portoghese che si era fatto da sé, scalando i vertici del calcio mondiale pur senza aver avuto alle spalle un passato da calciatore professionista. Da questo punto di vista una specie di nuovo Arrigo Sacchi, un innovatore, addirittura un rivoluzionario, se si considera che di solito il mondo del calcio permette l’ingresso solo a chi è già stato calciatore.

L’avvento di Mourinho è stato un vero e proprio shock culturale. L'allenatore di Setúbal infatti si è imposto utilizzando la cosiddetta periodizzazione tattica, ideata del professor Vitor Frade, docente al FADEUP (Facoltà sportiva dell’Università di Porto), e a quei tempi praticamente sconosciuta. In un periodo storico nel quale l’organizzazione tattica era considerata soltanto una parte del tutto e non l’elemento cardine sul quale improntare la preparazione di una squadra e quando ancora non si parlava diffusamente del concetto di modello di gioco (inteso come l’insieme dei comportamenti che una squadra deve tenere nelle varie fasi) la periodizzazione tattica ha creato un prima e un dopo. Una metodologia che ha cambiato il calcio e capace di produrre una lunga serie di allenatori di altissimo livello, tra cui il numero uno era ovviamente Mourinho.

Quello tra la Champions League vinta a Porto nel 2004 e quella vinta con l’Inter nel 2010 è stato il periodo d'oro della sua carriera, se si calcolano anche le conquiste inglesi al Chelsea. Ma come si dice l'apice contiene al suo interno il germe della sua fine. Già allora qualcosa si stava già incrinando nel suo modo di allenare e di essere - qualcosa che a lungo andare lo avrebbe cambiato e ne avrebbe mutato la percezione al di fuori della cerchia piuttosto ampia dei suoi ammiratori. Parlo ovviamente della repentina ascesa, solo leggermente successiva, di Pep Guardiola.

Da quando a Barcellona è apparso sulla scena Guardiola, alfiere del juego de posición, Mourinho ha deciso di calarsi (riuscendoci almeno per un periodo di tempo) nel ruolo di sua nemesi. Com'è noto, l'allenatore portoghese aveva collaborato con Guardiola ai tempi in cui era un giovane assistente sulla panchina Barça e Guardiola ancora un calciatore in attività. Eppure per Mourinho (e per la stampa internazionale, che di sicuro non si è tirata indietro a ingigantire la loro rivalità) la sfida con Guardiola è diventata un confronto filosofico, una guerra di religione. Quanto più Guardiola evolveva il suo calcio posizionale da Barcellona a Monaco di Baviera fino a Manchester, tanto più Mourinho diventava fautore di una proposta di gioco antitetica, reattiva; una battaglia ideologica che ha finito per coinvolgere media e tifosi. La famosa semifinale di Champions di ritorno dell’Inter che, stoicamente e in dieci, resiste agli assalti del Barcellona di Guardiola qualificandosi per l’atto conclusivo della competizione, assume dunque col senno di poi i caratteri di un manifesto programmatico.

Da quel momento Mourinho ha continuato a vincere (una Liga, una coppa del Re e una Supercoppa col Real Madrid; un altro campionato e un'altra coppa di Lega nella sua seconda esperienza col Chelsea; una Supercoppa, una coppa di Lega e una Europa League col Manchester United; fino alla Conference League conquistata con la Roma due stagioni fa) ma forse quella battaglia ideologica in cui lui stesso aveva deciso di infilarsi ha finito per ingessarlo, tenendolo ancorato al passato. Al di là dei trofei tutte le sue esperienze dalla seconda metà degli anni ’10 a oggi hanno avuto un retrogusto amaro. Risoluzione consensuale col Chelsea nel dicembre 2015 dopo una serie di risultati negativi, esonero dallo United nel dicembre 2018 dopo aver registrato il peggior inizio di stagione del Manchester dal campionato 1990-91, esonero al Tottenham nell’aprile 2021 all’interno di una stagione dove Mourinho stabilì il suo record negativo di sconfitte in un campionato (10), esonero a Roma.

Al di là dei risultati, comunque, di queste ultime esperienza ha fatto impressione la lunga sequela di conflitti con i propri giocatori, nonostante quello di creare un gruppo coeso fosse da sempre riconosciuto come uno dei suoi punti di forza. Basti pensare ai litigi con Paul Pogba allo United, Dele Alli, Danny Rose e Gareth Bale agli Spurs, i continui strali contro la propria rosa a Roma. Da questo punto di vista la docuserie All or Nothing prodotta da Amazon durante l’esperienza al Tottenham ha messo in evidenza come Mourinho sia rimasto un passo indietro rispetto a un mondo che sembra troppo cambiato intorno a lui, sia dal punto di vista tecnico che sotto quello della gestione dei calciatori, figli di una generazione diversa da quelle con le quali ha iniziato il suo percorso da allenatore.

Cosa è andato storto a Roma

Ricordare il suo percorso è necessario per storicizzare la sua esperienza a Roma, creare un pochino di distanza necessaria per analizzare ciò che è andato storto quest’anno. Rispetto al passato glorioso dell’allenatore portoghese ma anche rispetto alle prime due sue stagioni a Roma che, nonostante i problemi, non sembravano contenere questa cupezza. È incredibile da questo punto di vista che si sia avverato quasi perfettamente il peggior scenario possibile che avevamo immaginato nella guida alla Roma 2023-24. Com'è potuto succedere? Come ha fatto la Roma a sfibrarsi al punto da non essere più riconoscibile nonostante l’arrivo scenografico di un attaccante come Lukaku?

Dal punto di vista tattico i due anni e mezzo di Mourinho nella capitale sono andati in lenta ma costante discesa. Ad una più che sufficiente prima stagione (chiusa con la vittoria in Conference League) ha fatto seguito una seconda stagione più complicata, almeno in campionato, e culminata nella contestata finale di Europa League di Budapest che ha visto la Roma sconfitta ai rigori dal Siviglia. Questa involuzione ha seguito di pari passo i cambiamenti apportati nella rosa giallorossa, ai quali Mou non sempre è riuscito ad adattarsi. All’inizio della sua avventura romana il portoghese era partito col 4-2-3-1 come sistema base, utilizzando Nicolò Zaniolo da esterno d’attacco. La squadra ha però mostrato subito evidenti problemi di equilibrio, tendeva ad allungarsi e lasciava troppo spesso i centrali difensivi in situazione di due contro due con gli attaccanti avversari.

Per sistemare le cose Mourinho è ricorso quasi subito alle stesse soluzioni che aveva adottato prima di lui Paulo Fonseca, altro allenatore portoghese e suo predecessore sulla panchina giallorossa. Mourinho è quindi passato alla difesa a tre, per dare maggior copertura centrale e sfruttare senza scompensi la propensione di Mancini e Ibañez ad uscire in modo aggressivo in anticipo.

Questa soluzione ha permesso al tecnico di accentrare Zaniolo. Il calciatore italiano infatti si sfiancava sulla fascia nei tentativi (non riusciti) di tornare indietro per aiutare il centrocampo. In posizione centrale invece i suoi compiti difensivi erano ridotti e Mourinho poteva sfruttarne meglio la propensione al gioco verticale in coppia con Tammy Abraham, all’interno di un contesto organizzato su transizioni anche lunghe. In alcuni momenti, quando cioè Zaniolo e Abraham erano in giornata (si pensi ad esempio alla sfida di Bergamo contro l’Atalanta) le cose hanno funzionato molto bene. Fa impressione, da questo punto di vista, che oggi i giallorossi risultino essere la penultima formazione della massima serie per attacchi diretti (19), secondo quanto raccolto da Opta, ed è interessante perché denota una certa difficoltà dell’allenatore portoghese ad adattare i propri principi ai giocatori su cui voleva costruire la Roma in questi ultimi due anni. La vittoria della Conference è infatti arrivata anche grazie allo sfiancante gioco di transizioni di Zaniolo, e al genio realizzativo in area di Abraham, ma con Dybala prima e Lukaku poi Mourinho non è sembrato altrettanto pronto a ricamare il suo gioco sui giocatori che schierava in campo.

C'è da dire che anche il primo anno non sempre questo gioco funzionava per via del rapporto altalenante dell’inglese con il gol e dell’italiano con il decision making (Zaniolo spesso sbagliava l’ultima scelta nei trenta metri finali di campo, forse anche sfinito da un gioco così dispendioso). In quella stagione, l'allenatore portoghese era stato abile a sostituire la mancata produzione offensiva dei suoi avanti utilizzando quell’attaccante di scorta rappresentato dalle palle inattive (esclusi i rigori): con 17 reti segnate la Roma 2021-22 è stata la miglior squadra della Serie A (alla pari con l’Udinese) per gol nati da queste situazioni. Nel corso delle stagioni successive, però, la Roma ha perso la sua letalità in contropiede, che invece aveva contraddistinto soprattutto la prima versione della squadra di Mourinho.

La stagione successiva (2022-23) Mourinho si è trovato con una rosa modificata dalle partenze di alcuni elementi chiave, come Henrikh Mkhitaryan (svincolato) e Jordan Veretout (Marsiglia). Senza più l’armeno e il francese, Mourinho ha dovuto cambiare centrocampo, affidandosi alla coppia formata da Nemanja Matić e da Cristante. Il serbo e l’italiano si sono trovati spesso in difficoltà perché atleticamente non in grado di coprire porzioni troppo ampie di campo. La squadra si è trovata in molte occasioni come spezzata in due, per di più avendo molti problemi nella fase di gestione palla, con difensori inadatti a costruire dal basso con palle verticali funzionali al superamento della prima linea di pressione avversaria. Di conseguenza, la Roma cercava di risalire il campo sfruttando le corsie esterne, soprattutto sul lato di Spinazzola. L’esterno giallorosso però non è stato in grado di ripetere le prestazioni mostrate durante gli Europei del 2021, forse piegato dal grave infortunio al tendine d'Achille. La Roma è rimasta così senza risorse, se si esclude la ciambella di salvataggio della palla lunga per Abraham, non certo a suo agio in questo tipo di situazioni.

In avanti poi la squadra continuava a non riuscire a tramutare in rete gli Expected Goals prodotti, un difetto storico della Roma. I giocatori offensivi (Abraham, Pellegrini, Zaniolo e Belotti) hanno realizzato in quella stagione appena 11 reti (escludendo i rigori) a partire da 20,84 xG.

In assenza di armi offensive, Mourinho ha deciso di lavorare sulla solidità della fase difensiva, abbassando la squadra e allungando il campo in cui attaccare. Un'arma che ha pagato molto negli scontri diretti europei, in cui anche la spinta dell'Olimpico ha aiutato la Roma a trovare sempre le risorse per superare l'avversario, molto meno in campionato, dove il gioco giallorosso ha continuato ad appassirsi. Senza più Zaniolo, ceduto a gennaio dopo una trattativa di rinnovo contrattuale finita male, la Roma ha perso l'unico giocatore che riusciva per lo meno a trascinarla fisicamente nella metà campo avversaria.

Mourinho ha continuato ad avere difficoltà ad adattarsi ai cambiamenti della rosa anche in questa stagione. La scommessa fatta con l’arrivo di Romelu Lukaku per esempio è stata vinta solo in parte. Certo, l'attaccante belga ha segnato molto, ma è sembrato isolarsi dalla squadra mano a mano che il gioco della Roma si deteriorava anziché mettersela sulle spalle nei momenti di difficoltà.

Il tecnico portoghese ha cercato di inserire l’ex attaccante dell’Inter in un sistema poco consono alle sue caratteristiche. Di fatto la fase offensiva della Roma (soprattutto contro avversari che avevano imparato a difendersi bassi) era demandata esclusivamente alle invenzioni dell’argentino con la palla, e solo in un secondo momento alla fisicità di Lukaku, sul quale poi la squadra si poggiava spesso con passaggi lunghi per andare alla ricerca della seconda palla. La Roma è riuscita a funzionare quando ha messo in connessione loro due ma, mano a mano che si è andati avanti con la stagione, ha gradualmente abbassato il baricentro, non riuscendo più ad accompagnarlo adeguatamente con il resto della squadra. Quando poi la squadra di Mourinho ha cominciato a servirlo direttamente dalla difesa le cose si sono messe male, perché il belga non è mai stato un fenomeno sui palloni aerei. Specialmente in queste ultime partite Lukaku è apparso isolato e spento, praticamente l'ombra del giocatore che avevamo visto nella prima metà di stagione. Quando poi Dybala era fuori per problemi fisici (e questo purtroppo è accaduto spesso) la manovra romanista è apparsa ancor più ingessata e priva di idee, condizionata da una struttura rigida che finiva per non produrre quasi nulla a livello offensivo.

Che le idee scarseggiassero lo dimostra anche l’insistenza di Mourinho verso l’utilizzo della difesa a tre. Dopo aver provato anche altri sistemi all’inizio della sua avventura romanista infatti il portoghese si è fossilizzato su uno statico 3-5-2 che ha finito per immalinconire la squadra prosciugandone le risorse offensive. Se è vero che alcuni giocatori difensivamente sono migliorati - si pensi per esempio a Gianluca Mancini o a Roger Ibañez, nonostante gli errori nei derby - è vero anche però che con l’assenza prolungata di Smalling la Roma è diventata molto più attaccabile. In questa stagione la squadra di Mourinho ha subito 1.20 gol a partita, con uno scarto notevole rispetto agli xG subiti (0.78 a partita) che non possono essere solo frutto della sfortuna.

A pesare non è stata però soltanto la prolungata assenza dell’inglese o l'evidente calo di Rui Patrício. Da tenere in considerazione infatti c’è anche l’eccessiva passività di una squadra poco aggressiva sul portatore. A questo si aggiunga la partenza di Matić. Il serbo, infatti, al netto delle difficoltà a difendere in spazi ampi, era uno scudo importante davanti alla difesa nelle fasi (molte) in cui la Roma difendeva bassa. Con Matić la solidità difensiva della Roma aumentava e i giallorossi riuscivano a impermeabilizzare la propria area di rigore, finendo per concedere più tiri da fuori che dall’interno degli ultimi sedici metri. Senza più l’ex Manchester United a protezione, e con un giocatore che fa grande fatica quando il campo si allarga come Paredes, le zone centrali del campo sono spesso rimaste in balia degli avversari, come accaduto nella recente sfida col Milan. Tutto questo ha finito per indebolire una fase difensiva che invece era stata fondamentale nelle due stagioni precedenti, sia soprattutto nelle grandi campagne europee.

L’insistenza su un unico modulo base è stata deleteria per tutto il gioco della Roma. La sfida persa contro la Juve valga da esempio. In quella occasione, con la Roma sotto di un gol e con i bianconeri bassi a difesa del vantaggio, Mou non ha comunque rinunciato ai tre difensori, perdendo un giocatore nell’altra metà campo. Solo nel derby di coppa Italia con la Lazio il portoghese ha abbandonato la struttura difensiva a tre nella ripresa per provare a recuperare. Al solito però lo ha fatto inserendo via via tutti i giocatori offensivi a disposizione in panchina, senza un costrutto tattico a sorreggerli.

Anche le prestazioni dei singoli sono significative. I giovani più interessanti che sono usciti sotto la sua gestione (Bove e Zalewski) devono la loro esplosione agli infortuni dei compagni, che hanno forzato Mourinho a metterli in campo. Gli altri giocatori cardine, invece, sembrano essersi appassiti nel corso del tempo. Certo, i problemi fisici hanno avuto un ruolo, ma forse nessun esempio è più calzante da questo punto di vista di Lorenzo Pellegrini. Cresciuto esponenzialmente nella prima stagione con Mourinho grazie a un gioco di transizione che ne esaltava l’istintivo talento verticale, il capitano della Roma è sembrato sempre più a disagio in un gioco in cui doveva condividere le responsabilità creative con un’altra stella e in cui la palla finiva spesso per rallentare.

Senza più risorse in campo, la Roma ha iniziato a fare affidamento solo sulla propria forza nervosa, che spesso è diventata un'arma a doppio taglio. Mourinho e i suoi giocatori sono diventati il riflesso di un unico nodo di nervi, come dimostrano le numerose volte in cui, durante questi due anni e mezzo in giallorosso, è stato allontanato dal campo con un cartellino rosso.

Come giocherà la nuova Roma di De Rossi?

Al posto di Mourinho spazio dunque ad un ex bandiera del club come Daniele De Rossi. La scelta dei Friedkin è stata guidata da una certa dose di senso per lo spettacolo, sapendo che era forse l’unico nome in grado di far digerire alla piazza l’esonero di Mourinho. Davanti a una tifoseria delusa, impossibilitati a fare mercato liberamente a causa dei paletti finanziari imposti dal settlement agreement firmato a settembre 2022, i Friedkin sono ancora una volta ricorsi ad una guida tecnica che possa in qualche modo compattare l’ambiente romanista e risollevare il morale alla piazza. Se poi la scelta di DDR si rivelerà efficace, solo il campo ce lo dirà.

Del De Rossi allenatore conosciamo poco. La sua unica esperienza precedente risale infatti al periodo trascorso nella scorsa stagione alla guida della Spal. Chiamato dal suo amico e proprietario del club estense, Joe Tacopina, in una situazione difficile, De Rossi è rimasto in carica appena 16 partite, con uno score di sole tre vittorie conquistate. Certo, non era semplice, ma l’ex centrocampista giallorosso ereditò una Spal quattordicesima in classifica e la riconsegnò in diciottesima posizione.

È un po' poco per giudicare un tecnico alle prime esperienze, di cui comunque conosciamo qualcosa di più delle idee, grazie alle varie interviste rilasciate dal momento in cui ha lasciato il calcio. Forse, quindi, bisognerà aspettarsi una Roma maggiormente propositiva in entrambe le fasi di gioco. In quella difensiva probabilmente il nuovo allenatore chiederà ai suoi di attuare una pressione forte in avanti. Bisognerà vedere come risponderà la squadra a questa richiesta, tenuto conto del fatto che si dovrà sperimentare l’attitudine dei difensori attualmente in rosa a difendere con tanto campo alle proprie spalle. Se De Rossi ci riuscisse, questo consentirebbe alla Roma di conquistare più palloni nella metà campo offensiva, restringendo il campo d'attacco e facilitando la riaggressione della palla persa. Ad oggi, secondo StatsBomb, la Roma è appena sopra la media della Serie A per PPDA ed è addirittura quartultima per azioni di pressione nella metà campo avversaria.

Sempre a proposito di difesa, uno degli interrogativi è se De Rossi passerà alla difesa a quattro, se non immediatamente almeno nel breve periodo. A Ferrara, in realtà, De Rossi ha utilizzato una linea arretrata a tre e quindi è probabile che almeno inizialmente non si muoverà troppo da quanto costruito in questo periodo da José Mourinho. Certamente cambierà qualcosa a livello di impostazione, qualcosa a cui De Rossi sembra tenere molto. Per questo un giocatore come il neoarrivato Huijsen, abile nei passaggi taglia linee, potrebbe trovare spazio, così come sembrano adatti al suo modello sia Diego Llorente che Evan N'Dicka, entrambi abili con la palla fra i piedi.

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I principi del calcio di DDR sono quelli del gioco di posizione. Come il suo ex compagno di nazionale Andrea Pirlo, De Rossi è dunque uno dei tecnici della nouvelle vague italiana che si ispirano a Guardiola. Non potrebbe dunque esserci un cambio più radicale rispetto a quanto professato in questi anni da Mourinho. In mediana a De Rossi servirà un play in grado di dirigere il traffico e, all’occorrenza, replicare quella salida lavolpiana che DDR imparò in prima persona quando venne allenato da Luis Enrique. Uno fra Bryan Cristante e Leandro Paredes dovrebbe essere il prescelto per svolgere questa funzione.

Sarà poi interessante vedere come De Rossi utilizzerà Lorenzo Pellegrini. Il numero 7 giallorosso dovrebbe essere impiegato in una posizione ibrida da mezzala/trequartista, giostrando in zone di campo dove possa toccare molti palloni. In pratica si tratterebbe di ripetere quanto provato da De Rossi a Ferrara con l’ex laziale Fabio Maistro, a cui chiedeva di contribuire come interno di centrocampo alla fase di sviluppo dell’azione e di andare poi a cucire il gioco sulla trequarti da numero 10 in fase di rifinitura.

Il vero banco di prova di De Rossi sarà però in avanti. Il nuovo allenatore dovrà creare una manovra offensiva che non dipenda solo dalla presenza in campo e dalla buona giornata di Dybala, e che riesca a sfruttare meglio Lukaku. Sarà questa la sfida più ardua che De Rossi dovrà affrontare nei prossimi mesi. Non sarà facile visto il pochissimo tempo a disposizione e l'enorme pressione che si ritroverà ad affrontare, ma insomma, la sua carriera da calciatore sembra dirci che De Rossi non è uno che trema davanti a una sfida del genere.

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