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Marco Gaetani
Quando Luis Enrique naufragò a Roma
22 dic 2022
22 dic 2022
Ricordo dell'anno passato dal tecnico asturiano sulla panchina giallorossa.
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Marco Gaetani
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Paolo Bruno/Getty Images
(foto) Paolo Bruno/Getty Images
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«A tutti noi piace sentirci amati», dice Luis Enrique a Ibai Llanos durante una diretta Twitch torrenziale, in cui racconta senza freni una delle principali delusioni della sua carriera. Lo fa con naturalezza, con un candore che sempre più spesso stiamo accostando alla sua figura. Non so se sia stato il suo modo di affrontare pubblicamente il dolore che lo ha travolto, il peggiore dolore immaginabile, a farcelo sembrare più umano rispetto a quando, da calciatore, incarnava il profilo di chi era in grado di attirare l’odio sportivo, così tenace e aggressivo da risultare quasi fastidioso. Era un universale, uno di quei giocatori che fanno la felicità di ogni allenatore. Duttile, spigoloso, pronto a mettersi alla disposizione dei tecnici che lo hanno incontrato sulla loro strada, con un senso del gioco che avrebbe dovuto farci sospettare dall’inizio che sarebbe stato un allenatore di successo.

Eppure, nel momento in cui si è manifestato al mondo, è stato trattato da molti come un pazzo. Erano gli anni del “guardiolismo”, perché Luis Enrique aveva preso le redini del Barcelona B proprio dalle mani di Pep Guardiola, salito in prima squadra per mostrare al pianeta un modo diverso di giocare a calcio. E allora su Luis Enrique si sprecavano le ironie, le battute, divenute manifeste nel momento in cui, dopo tre anni di apprendistato con il Barça B, aveva deciso di spiccare il volo e lasciare quella Catalogna in cui si era rifugiato quindici anni prima, quando Lorenzo Sanz aveva preferito non rinnovargli il contratto, accettando di fatto la prospettiva che potesse diventare il perfetto traditore con un passaggio diretto dal Real Madrid al Barcellona, il percorso inverso rispetto a quello che avrebbe intrapreso, qualche anno dopo, Luis Figo.

Non è mai stato un tipo da scelte facili, Luis Enrique. E per mettersi alla prova scelse il luogo peggiore in cui farlo. Perché Roma è bella, c’è il sole per dieci mesi all’anno, in alcuni giorni di primavera sembra il paradiso in Terra per il modo in cui la luce scende dolce tra i vicoli all’ora del tramonto. Ma sa anche essere spietata, insostenibile e insopportabile. La conferenza stampa con Luis Enrique lasciò Roma, dopo dodici mesi complessi, da vivere e da raccontare, ci restituì l’immagine di un uomo che, per sua stessa ammissione, avrebbe avuto bisogno di una lunga pausa per ripartire, invecchiato di dieci anni in uno, schifato da una parte dell’ambiente che lo circondava. Ma come si era arrivati fino a quel punto?

Non c’è popolo più creativo degli americani

La lunga e lenta trattativa che porta una cordata statunitense a capo della Roma (Thomas DiBenedetto, Richard D’Amore, Michael Ruane e James Pallotta) si trascina dietro anche una palese voglia di rivoluzione. È per questo motivo che la nuova proprietà decide di non dare continuità alla parentesi di Vincenzo Montella, subentrato in corsa, nella stagione precedente, a Claudio Ranieri. Il primo segnale di rottura arriva con la scelta dei dirigenti. A guidare la rivoluzione tecnica giallorossa vengono infatti scelti due uomini teoricamente in contrasto, due profili molto forti ma con caratteristiche decisamente diverse.

Sono due ritorni in giallorosso, anche se dal sapore differente: Franco Baldini si appresta a vivere la sua seconda parentesi dirigenziale romanista. È un uomo di polso, una figura decisionale, un direttore generale vecchio stampo. Walter Sabatini, invece, ritrova la Roma dopo averla assaporata da calciatore scapestrato. È legato visceralmente al campo, per anni dominerà Trigoria da una terrazza con vista sui terreni d’allenamento come un padre apprensivo che cerca di vedere se il figlio rischia di farsi male correndo sul brecciolino. Sta lavorando sotto traccia per la Roma da mesi. Nella prima conferenza stampa ufficiale, all’inizio di giugno del 2011, spiega di farlo già dal Natale precedente, in attesa del cambio di proprietà. Se fino a questo momento non è mai sembrato un personaggio a suo agio nell’esporsi pubblicamente, durante il suo periodo romanista le sue conferenze stampa infinite, intervallate da sigarette godute e sofferte come un amplesso fugace tra una risposta e l’altra, diventeranno il suo marchio di fabbrica, tra rivendicazioni orgogliose, slanci inaspettati, citazioni letterarie e cahiers de doléances sui colpi progettati e mai andati a segno.

Il primo a esporsi è lui perché, tecnicamente, Baldini ancora non può farlo: diventerà ufficialmente giallorosso solo a ottobre, essendo ancora legato alla Football Association. Sabatini rivela mesi di «attività carbonara», in cui ha lavorato per sé «con la speranza che questo lavoro fosse per la Roma». È la conferenza in cui consegna ai posteri una delle definizioni più iconiche della carriera di Francesco Totti: «Francesco è come la luce sui tetti di Roma, dilaga, non va mai via». Ed è anche la conferenza in cui annuncia quella che, per la Roma, vuole essere una «rivoluzione culturale»: Luis Enrique batte la concorrenza di nomi ben più altisonanti (i più gettonati, nel periodo a cavallo tra metà e fine maggio, erano stati quelli di André Villas Boas e Didier Deschamps) e Sabatini non ha paura di fare altri nomi. «Abbiamo trattato Klopp, Garcia, Pioli e anche Giampaolo. Luis Enrique fortunatamente ha accettato, non è inferiore a Villas Boas, per noi rappresenta una prima scelta. Rappresenta la discontinuità, un’idea di calcio che vogliamo perseguire. È giovane, esuberante, sfiderà questa avventura: gioca un calcio arrogante. Oggi, attraverso la Spagna e il Barcellona, si impone un calcio barocco ma non frivolo. È una scelta coraggiosa che rifarei sempre, anche se questo all’inizio potrebbe portare a qualche contraddizione».

Una delle domande fatte a Sabatini riguarda la presenza di una possibile clausola di uscita nel contratto di Luis Enrique: si batte con insistenza sul tasto che quello dell’asturiano possa essere un anno, o un biennio di apprendistato, in attesa che Pep Guardiola gli lasci la panchina del Barcellona. Il biglietto da visita, appoggiato da Sabatini sul tavolo ancora prima della presentazione di Luis Enrique, è quanto di più sabatiniano possa esistere su questo pianeta: il ds chiude la trattativa per portare in Italia Erik Lamela. Intanto, il tecnico attraversa quel momento che caratterizza tutti gli allenatori che arrivano in Italia dall’estero: quello dei profili sui giornali, come se fosse sbarcato da Marte. C’è chi lo chiama Iron Man ricostruendo le tappe della sua principale passione fuori dal campo: i sei mesi vissuti in Australia per andare a fare surf; la maratona di New York nel 2005; la Quebrantahuesos nel 2006, una delle granfondo di ciclismo più famose di Spagna; la Marathon de Sables nel deserto, il mezzo Ironman di Lisbona e l’intero di Francoforte nel 2007, anno in cui scende anche sotto le tre ore nella maratona di Firenze. Lui non parla, inizia a lavorare con la squadra a metà luglio e i profili dell’atleta si trasformano presto in peana vaghi e frettolosi. Che la nuova Roma voglia controllare il possesso del pallone è così scontato da non fare notizia. Meglio parlare della decisione di unire i tavoli per il pranzo o dell’arrivo dei tablet durante gli allenamenti.

Nei primi giorni del ritiro di Riscone la vera novità è che il pallone è subito al centro di tutto. Ma mentre Luis Enrique lavora, da Londra una dichiarazione di Franco Baldini scuote il famigerato ambiente romano, romanista, in questo caso: «Totti ha davanti ancora 4-5 anni di carriera se saprà guardare solo al calcio e non farsi carico di altro. Ma deve liberarsi della sua pigrizia e di chi usa il suo nome, anche a sua insaputa». Intanto fa discutere la scelta di Luis Enrique di avere nel suo staff Ivan de la Pena, meteora laziale un decennio prima. L’ex piccolo Buddha è uno dei collaboratori più attivi durante il ritiro e i giornalisti accolgono con sacro stupore la decisione di Luis Enrique di dedicare alcune sedute di allenamento ai singoli reparti: che bestialità è questa, football americano?

Il precampionato è faticoso e il primo impegno ufficiale arriva presto, un preliminare di Europa League teoricamente senza troppi fastidi, visto che l’urna riserva alla Roma il modesto Slovan Bratislava. La formazione che va in campo è quasi una selezione sperimentale, un undici lisergico: il nuovo acquisto Stekelenburg in porta, Cicinho e José Angel terzini, Cassetti-Burdisso coppia centrale, il giovane Viviani davanti alla difesa, Brighi e Fabio Simplicio mezze ali, tridente con Bojan Krkic, Okaka e Caprari. Partono in panchina Totti e Borriello, gettati nella mischia una manciata di minuti prima del vantaggio siglato da Dobrotka. Alla luce delle scelte, questo 1-0 non preoccupa più di tanto e sembra ribaltabile all’Olimpico. Ma Totti in panchina è una notizia che può sconquassare Trigoria. Il capitano è scontento e criptico, appare a Trigoria con una maglia con su scritto “Basta!”, ha un colloquio sia con il tecnico, sia con Sabatini. In conferenza stampa Luis Enrique dichiara: «Una squadra non è composta da un solo giocatore, ma è un gruppo formato da tante individualità. Come decido chi gioca? Basta guardare come si allenano. La formazione la sapranno per primi i miei giocatori, nella riunione tecnica: se qualcuno vuole telefonare a un giornalista e dire che può giocare questo o quello è libero di farlo. Io, che ho giocato nel Real Madrid e nel Barcellona, non l’ho mai fatto». Si capisce subito che sta per scatenarsi un putiferio. Intanto Luis Enrique è già nella bufera per la decisione di prendere casa all’Olgiata, così lontana da Trigoria da essere in realtà punto di riferimento per i calciatori della Lazio, a due passi dal centro sportivo biancoceleste di Formello. Ma la scelta, secondo i maligni ispirata proprio da de la Pena, è stata presa per consentire ai figli di non fare troppa fila in auto per andare in una nota scuola internazionale della zona.

Totti stavolta parte titolare nel tridente con Bojan e Caprari, Perrotta apre le marcature dopo dieci minuti e sembra tutto apparecchiato per la rimonta. Ma si rimane sull’1-0, la partita non si schioda. Al 74’, Luis Enrique richiama in panchina Totti per Okaka: il pubblico non gradisce, figurarsi il capitano. A sette minuti dalla fine, Stepanovsky trova l’1-1 che elimina i giallorossi. I voti sui giornali, per Luis Enrique, oscillano tra il 3 e il 4. «Non devo giustificare le mie decisioni: capisco l’interesse per Totti e le sostituzioni, ma sarò sempre io a prendere le decisioni per la squadra. Tutti parlano della sostituzione di Totti, sembra che a nessuno interessi che in campo c’erano tanti giovani». Interessa sicuramente uno dei tifosi entrati nella mitologia romanista: quello che, fuori dall’Olimpico dopo l’eliminazione, si produce in questa riflessione.

I 26 euro pe vede’ Verre sono rimasti nella storia. Dieci anni dopo, Caprari («Me dovrebbero paga’ a me pe vede’ Caprari») è reduce dalla migliore stagione della sua carriera. E, soprattutto, si è verificata la profezia dell’uomo misterioso: «Se dovemo fa’ dieci anni così, so’ dieci anni de sta portata». Dieci anni dopo, la Roma è tornata a vincere un trofeo.

Nel rush finale di mercato, Sabatini porta a Roma Pablo Daniel Osvaldo, Simon Kjaer e Miralem Pjanic, che si aggiungono agli altri rinforzi: Stekelenburg, Heinze, José Angel, Gago, Lamela, Bojan, Borini e il riscatto di Borriello. Si arriva al debutto in campionato dopo una pace siglata tra Totti e Sabatini e un appello pubblico del capitano all’unità. Per un’ora, all’Olimpico contro il Cagliari, sembra funzionare tutto. Il tridente Osvaldo-Totti-Bojan non punge ma si muove bene, la squadra pare in controllo, José Angel è a tratti incontenibile sulla fascia sinistra. Poi, su un cross innocuo da sinistra a metà secondo tempo, il terzino spagnolo non riesce a liberare di testa e consegna a Daniele Conti il pallone del vantaggio, con il solito gol del figlio di Bruno contro la Roma, ricorrenza ai limiti del paranormale. Due minuti dopo, lo spagnolo si fa buttare fuori per un fallo di reazione nell’area del Cagliari. Vincono i sardi 2-1, nubi dense affollano i pensieri di Luis Enrique quando si presenta ai microfoni di Sky per una pagina leggendaria di televisione nella quale si limita a fare da comparsa.

Ascesa e caduta

A questo punto lo schema tipico del giornalismo italiano nei confronti dell’allenatore straniero prevede un passaggio fondamentale: dopo due sconfitte e un pareggio, la richiesta è quella di italianizzarsi, qualunque cosa voglia dire. Generalmente, per l’opinione pubblica, se un tecnico straniero inizia a fare risultati solo dopo qualche settimana, è soltanto perché si è italianizzato. Grande è la meraviglia sotto il cielo di San Siro quando Luis Enrique si presenta al cospetto della disastrata Inter di Gasperini con Simone Perrotta e Rodrigo Taddei terzini: è la partita in cui una zampata di Lucio manda Stekelenburg in ospedale, finisce 0-0, restano i dubbi, alimentati dall’1-1 interno con il Siena. Poi la Roma vince a Parma e batte l’Atalanta: due vittorie che scatenano il refrain spiegato poco fa, alimentato dal fatto che contro "la Dea" i giallorossi hanno tenuto il pallone soltanto per il 50% del tempo. Anche sui giornali c’è chi inizia a chiamarlo «Luis Enrico», parallelamente a quanto avviene praticamente dall’inizio della stagione su una pagina Facebook chiamata «Kansas City 1927» che lo ha ribattezzato, stavolta affettuosamente, Luigi Enrico: accompagnerà avventure e disavventure della Roma per un paio d’anni ed è portata avanti con genio e ironia da Diego Bianchi e Simone Conte, anche se in quel momento lo sanno in pochi.

Poi si arriva al derby, l’appuntamento cerchiato in rosso sul calendario da tutti i tifosi di Roma e Lazio. E la Roma, sullo slancio delle ultime prestazioni, segna subito con Osvaldo (che mostra la maglietta «Vi ho purgato anch’io») e sembra decisamente più sul pezzo rispetto agli avversari. Poi, a inizio ripresa, una lieve trattenuta di Kjaer (che in giallorosso vive una stagione tormentata, a essere generosi) su Brocchi cambia il match. Rigore ed espulsione, Hernanes trasforma, la Lazio inizia a prendere a pallonate la porta della Roma che capitola al 93’ per mano di Klose. È un risultato che fa ripiombare i giallorossi in un tunnel di risultati altalenanti, vittorie sofferte e sconfitte eclatanti. A Udine, in una fredda sera di novembre, la Roma perde la partita e la testa. Osvaldo manda a quel paese Lamela per un pallone non passato, i due discutono anche negli spogliatoi. Il quotidiano catalano «El Confidencial» riporta i dettagli dello scontro. «Sono più grande di te, qui non siamo al River, quando ti parlo mi devi rispondere», avrebbe detto Osvaldo, sentendosi dire in risposta «Falla finita, non sei mica Maradona». A quel punto Osvaldo avrebbe colpito al volto Lamela.

È uno dei momenti che definiscono la gestione di Luis Enrique e il primo anno di nuova gestione societaria, perché la Roma non decide di far passare sotto traccia la vicenda ma la rende pubblica, sospendendo Osvaldo per dieci giorni. «In seguito al comportamento irrispettoso tenuto a Udine, il calciatore Pablo Daniel Osvaldo sarà multato dalla società, su input dell’allenatore, con l’importo massimo consentito dai regolamenti della Lega Calcio. Contemporaneamente, l’allenatore ha disposto per il calciatore l’esclusione dalle convocazioni per la prossima trasferta di Firenze. Infine, anche per specifica richiesta dei compagni di squadra, l’allenatore ha deciso che il calciatore potrà allenarsi regolarmente con il resto del gruppo», comunica il club. La Roma perde male anche a Firenze, finisce in otto (espulsi Juan, Gago e Bojan). Poi, di colpo, si ritrova.

Fa 1-1 con la Juventus, sbanca Napoli con una prestazione all’insegna di gioco e personalità. E arriva, tre giorni più tardi, a quello che è riconosciuto universalmente come l’apice della Roma di Luis Enrique. «La partita di Bologna» è un gioiello incastonato in un anno a tratti devastante. Bologna-Roma doveva essere la prima giornata del campionato 2011, slittata a fine dicembre per uno sciopero dell’Assocalciatori. La squadra di Pioli viene portata a scuola da quella di Luis Enrique. La Roma potrebbe segnare sei, sette gol, senza fare fatica. Sono serviti alcuni mesi ma finalmente tutto sembra al suo posto. E il soprannome che inizia a circolare intorno all’asturiano (Zichichi, come il fisico italiano) per una volta non sembra una presa in giro, ma un omaggio sincero.

Una partita praticamente perfetta.

All’inizio del nuovo anno, Totti interrompe il digiuno di gol con due rigori contro il Chievo e la maglietta «Scusate il ritardo». Inizia un’alternanza quasi scientifica: una buona prestazione, un mezzo disastro. Ai cinque gol al Cesena si contrappongono i quattro presi dal Cagliari; ai quattro rifilati all’Inter con la neve spalata sulla pista d’atletica e Claudio Ranieri tramortito alla guida dei nerazzurri segue la sconfitta con il Siena. È in questa fase della stagione che trova spazio anche un momento «Crazy Luis Enrique», dopo la netta sconfitta in Coppa Italia in casa della Juventus.

A una settimana dal derby, la Roma è di scena a Bergamo. Daniele De Rossi fa tardi alla riunione tecnica, Luis Enrique ha regole chiare e inflessibili: il centrocampista viene escluso da una partita che l’Atalanta domina e vince 4-1. La società continua a difendere il tecnico a spada tratta, portando effettivamente avanti quella voglia di discontinuità e di rigore imposta dal nuovo ciclo dell’asturiano. A creare un po’ di confusione, forse, è la scelta di Luis Enrique di tenersi sulla difensiva nelle interviste a caldo post partita, senza mai voler entrare nel dettaglio dell’accaduto, che sarà poi ufficializzato qualche ora più tardi da Franco Baldini. E lo stesso De Rossi, nei mesi e negli anni a venire, ricorderà l’importanza di Luis Enrique nel suo percorso: «Mi sono innamorato di Luis Enrique per quello che proponeva in campo e per come si comportava con noi a livello umano. Quando si parte con un progetto, a Roma non puoi dargli solo dieci mesi. Però è voluto andare via lui, non glielo perdonerò mai. Ha ricevuto tante critiche ma ha fatto un grande lavoro, ci è entrato dentro. Il primo giorno ci ha dato un pallone dicendoci: “Giocate”. Inizialmente lo abbiamo preso per matto, ma ha cambiato il nostro modo di giocare». Ed è vero anche a livello tattico, per De Rossi, che sempre più spesso si trova ad agire tra i due centrali difensivi in fase di costruzione del gioco: è l’utilizzo della celebre salida lavolpiana.

Si arriva al derby in un clima avvelenato e la stracittadina inizia come peggio non potrebbe per la Roma: Klose mette un piede diabolico tra il pallone e Stekelenburg, che lo travolge. Calcio di rigore per la Lazio e subito espulso il portiere olandese. Come all’andata, Hernanes trasforma e stavolta manca una partita intera. Borini trova il pareggio, nella ripresa Mauri riporta avanti i biancocelesti e la Lazio potrebbe esondare, sprecando però le occasioni che avrebbero chiuso il match e lasciando un frammento di speranza al colpo di testa di Totti nel finale. A fine partita, Luis Enrique sbotta: «Certi errori a questi livelli e con questa intensità si pagano, ma cosa ho fatto per meritare tutta questa merda? Ai miei giocatori non posso rimproverare nulla per dedizione. Mi piacerebbe giocare un derby in undici». Il tracollo che forse condensa l’intera stagione è quello di Lecce. La Roma prende quattro gol in meno di un’ora in un pomeriggio in cui un giovanissimo Muriel pare davvero la reincarnazione di Ronaldo. I toni con cui vengono raccontate le sconfitte dei giallorossi assumono contorni neanche troppo velatamente sadici. C’è la tendenza a voler continuare a picchiare un uomo inerme, che non ha la minima intenzione di andare allo scontro. È un comportamento a tratti disgustoso, che Luis Enrique annota silenziosamente. Ne farà benzina per il futuro.

Un esempio del trattamento subito da Luis Enrique.

Luis Enrique ha un altro anno di contratto ma decide di lasciarlo sul tavolo a fine stagione. Nel momento in cui comunica alla stampa la sua decisione di andarsene, in conferenza stampa sono presenti non soltanto Baldini e Sabatini, ma trova posto anche Francesco Totti, con cui i rapporti, dopo un inizio difficile, sono ottimi. L’inizio della conferenza è un piccolo e sentito monologo in cui Luis Enrique si sfoga dopo mesi di fiele. «Questo è un bel posto, ma è un posto in cui c’è bisogno di un po’ più di aiuto. E lo dico per chi verrà dopo di me. Per me è stato un grandissimo piacere essere allenatore di questa squadra, mai mi sono pentito di venire qui. La mia famiglia è stata felice di essere qui. Sono stato io a dover convincere loro ad andare via, erano convinti che sarei rimasto. Io ho avuto il rispetto di tutti i tifosi per la strada. Me ne vado perché sono molto stanco. So che non mi basterà l’estate per recuperare, il prossimo anno non allenerò sicuro. […] Sicuramente dei tifosi non hanno capito quel che faccio, ma penso di essere onesto con me stesso per primo, poi con società giocatori e tifosi. […] Questo tifo, che si è comportato in modo fedelissimo, è importante per squadra e società. Auguro che marcino insieme, auguro un cammino pieno di successi, auguro che diventi una squadra davvero. Non ho nessun rimprovero da fare a nessuno. Se ho fatto qualche sbaglio, chiedo scusa».

Negli anni successivi, Luis Enrique tornerà spesso a dedicare pensieri affettuosi ai tifosi della Roma. Lo farà anche dopo il momento più bello della sua carriera da allenatore, la vittoria della Champions League, in finale contro la Juventus. Un saluto all’amico Claudio, vale a dire Claudio Bisceglia, il traduttore che per mesi lo aveva accompagnato alla scoperta dell’italiano, la sponda cui appoggiarsi nei momenti in cui in conferenza gli mancava la parola giusta per affrontare uno stuolo di giornalisti. E poi un altro a tutti i tifosi romanisti, i tanti che lo hanno apprezzato a prescindere dai risultati e anche quei pochi che avevano preferito irriderlo, mostrando un due aste con su scritto «Luis vattene da Roma, s’è liberato er posto ar Barcellona». Una presa in giro rispuntata proprio dopo i successi dell’asturiano alla guida dei catalani.

Alla vigilia del Mondiale 2022, Luis Enrique si era detto sereno, convinto di poter portare "la Roja" fino in fondo. «Non posso dubitare, sono il migliore allenatore sulla faccia della terra. Non c’è allenatore migliore di me nella storia del calcio mondiale. Non è vero, ma ci credo: come faccio a convincere i miei giocatori se mi vedono dubitare», aveva detto in una dichiarazione che in Italia ha dato adito ai soliti titoli a metà, quelli in cui veniva fatto passare solamente per uno sbruffone, ignorando il senso profondo della dichiarazione del tecnico pur di fare quattro click.

Chissà, forse memore della sua esperienza italiana, durante i Mondiali ha preferito togliere il filtro tra sé e i tifosi: lunghissime dirette Twitch in cui ha interagito direttamente con i sostenitori della Nazionale, e qualche storia su Instagram, compresa quella che ci ha strappato il cuore dal petto in cui, nel giorno del suo compleanno, salutava la piccola Xana, che ha lasciato questa Terra troppo presto per un osteosarcoma. L’esperimento di Twitch lo ha divertito ma sin da subito ha annunciato che sarebbe stato strettamente legato all’esperienza in Qatar. Che è finita male, per questione di centimetri: se Sarabia non avesse sbagliato sotto porta all’ultimo istante della sfida con il Marocco, forse staremmo parlando d’altro. E proprio a Sarabia ha dedicato parole al miele, nonostante tutto. Nessuno, come Luis Enrique, sa quanto è importante sentirsi amati.

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