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Gianni Montieri
Aurelio De Laurentiis e la napoletanità
16 mag 2024
16 mag 2024
Un rapporto complicato.
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Gianni Montieri
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IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
(foto) IMAGO / Gribaudi/ImagePhoto
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Chi ci ricorda? Così recita il titolo di una nota rubrica della Settimana Enigmistica, ecco, io per anni, ogni volta che ho provato a ragionare sul Presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis mi domandavo, come se mi trovassi davanti lo storico settimanale, chi mi ricorda? Ero sicuro che il suo atteggiamento - alcune sfumature bizzarre del carattere, i suoi eccessi, sia rispetto alle decisioni da prendere, sia quelli lessicali - mi dovesse far saltare fuori dal cassetto della memoria qualcuno, ma chi?

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Poi l’anno scorso, ovvero nel periodo più tranquillo di ADL, quello in cui ha parlato di meno, coincidente non a caso con lo scudetto, si sono aperti i cassetti e sono emerse due figure a me familiari, due persone che non ci sono più, che devo raccontare un minimo perché i fatti sono solo fatti, la narrativa ci aiuta a disporli in modo che siano raccontabili e credibili. De Laurentiis è più vicino alla letteratura che alla realtà, d’altra parte nulla spiega la realtà quanto la letteratura, senza l’elemento di finzione – che non è bugia ma tecnica messa al servizio della fantasia – nessuna verità può essere scritta o detta.

Vi parlerò di zio Peppino, un uomo metà parente metà personaggio delle fiabe, che tra le sue singolarità aveva quella di essere poco sincero. Mentiva su tutto, ma non erano mai grosse menzogne, era un ricamare su piccole cose, ingigantire racconti di vicende quotidiane e così via. Zio Peppino era noto per imbrogliare mentre faceva il solitario con le carte, solo per dirsi e dire a noi che era riuscito. Era quello delle trasgressioni, le mamme ci dicevano di non giocare a pallone, lui le assecondava, poi di nascosto lo tirava fuori e ce lo lanciava. Zio Peppino era complice, mai del tutto affidabile, avrebbe negato se noi – come giustificazione – avessimo detto che il pallone ce lo aveva dato lui. Zio Peppino una volta mi svegliò alle quattro di mattina per chiedermi se volessi un bicchiere di orzata. Avevo la febbre, dissi di sì. Aveva dei momenti De Laurentiis, decretava un divieto, l’istante dopo lo cancellava per concessione.

Zio Peppino sarebbe stato quello che attaccava gli ultras, definendoli il male di Napoli, oppure le istituzioni, oppure la città; e l’attimo dopo sarebbe diventato quello che si faceva ritrarre con loro, che andava sottobraccio con il sindaco, o visto come capopopolo in città, senza distinzione di quartieri. Il momento De Laurentiis di zio Peppino avveniva a maggio durante la festa di Pentecoste. Era il custode di una scuola, dove viveva con mia zia, e in quella scuola andavano a cambiarsi – usando le aule come camerini - i cantanti invitati alla festa di piazza. Si radunava un’enorme folla fuori dal portone, e parliamo non degli U2 ma di Toto Cutugno, Pupo, Marcella Bella. Zio Peppino apriva la porticina e diceva cose come: «Ragazzi, non posso farvi entrare, ne va del mio lavoro, poi rischio». Passati cinque minuti, apriva il portone ed esclamava: «Uagliù trasite», prendendoli sottobraccio, veniva quasi portato in trionfo. Zio Peppino è esattamente tutte le contraddizioni di Aurelio De Laurentiis, un uomo che – pur avendo affermato più volte di essere lontano dalla napoletanità – sintetizza bene ogni stereotipo su Napoli. De Laurentiis è il potere ed è contro il potere, è imprenditore ma è bottegaio, predica riservatezza ed è un pettegolo, afferma che la pizza fa schifo e poi, chissà, magari, la mangia, sporcandosi la barba, tutte le sere.

E devo dirvi poi dell’altra figura familiare, lo chiamerò R. Ho lavorato per lui per qualche anno, era un tipo strano, generoso e arrogante, gentile e maleducato, tutto mescolato. Era capace del guizzo geniale e dell’ingenuità più totale, era molto scaltro nel far soldi, era altrettanto capace nello sprecarli. Molto attento a ogni fase del lavoro – era un imprenditore edile – ma pronto a farsi fregare dal primo idraulico simpatico, dal capocantiere che sapeva prenderlo dal verso giusto. Il momento De Laurentiis di R., il momento in cui dal coccolare la squadra passava al mandarla in ritiro, si concretizzava certe mattine, poco dopo l’alba.

Per esempio, arrivava in cantiere il lunedì, aspettava l’arrivo degli operai, ci parlava, stringeva mani, faceva complimenti. «Quella parete è venuta benissimo», per dire. Oppure: «State tenendo un buon ritmo, state lavorando bene». Prometteva gratifiche, portava i cornetti per la colazione a tutti. Questo, il lunedì. Il martedì R. si ripresentava in cantiere furibondo. Parcheggiava sgommando, scendeva dall’auto sbattendo lo sportello, cominciava a urlare ai macchinari, agli edifici, alle persone. Nulla andava bene: «Voi lavorate male, arrivate troppo tardi in cantiere, non siete precisi, mi rubate il materiale e ve lo rivendete». Dalle cose più amorevoli alle più ignobili, nel giro di qualche ora. L’imprenditore lasciava il passo alla sua vera anima, quella di padre padrone. R. avrebbe cacciato il capocantiere, dicendo che anche un ragazzino avrebbe fatto meglio di lui. Tipo: Kvara non l’ha scoperto Giuntoli ma lo hanno segnalato a mio figlio con un SMS. Operai non valete niente, ora tutti in ritiro in un cantiere minore, periferico, dove costruirete box umidi e di terz’ordine. «Sono calciatori straordinari» - «Tutti in ritiro», nel giro di poche ore. Spalletti, allenatore del cuore, è l’uomo giusto per continuare, ma lo sfinisci, non gli parli, non lo coinvolgi sul modo in cui intendi programmare la prossima stagione, poi invii una PEC.

De Laurentiis, ho sempre pensato racchiudesse in sé molte caratteristiche del racconto che si fa da secoli di Napoli e dei napoletani, pur essendo lui nato a Roma. L’ho pensato da subito, anche quando lui si professava diverso e qualche volta deve averci anche creduto. L’uomo che lotta contro le storture della città, che tiene la squadra ad allenarsi in provincia di Caserta, che sbraita contro l’illegalità, contro la pubblica amministrazione, che un giorno predica ridimensionamento, che vanta (e questo sembra vero) conti in ordine e perde calciatori a parametro zero. Tira fuori dal cilindro interessanti strategie di marketing e l’attimo successivo si dimostra incapace di comunicare (i comunicati stampa o i social del Napoli – che rispecchiano la volubilità del presidente – spesso sono stati ridicoli, ai limiti della decenza).

De Laurentiis è un uomo straordinario o comico? Probabilmente è stato, è, entrambe le cose. Diciamo che negli ultimi dieci mesi è emerso maggiormente l’aspetto comico della sua personalità. Visivamente, il momento di maggior distacco lo abbiamo provato quando è intervenuto durante una conferenza di Mazzarri, il modo arrogante, presuntuoso con cui si rivolgeva ai giornalisti, parlando di trattative di mercato o semplicemente dei risultati della squadra, erano ai miei occhi e alle mie orecchie insopportabili. Non fa niente per nascondere il fatto che si tratti di una di quelle persone che si credono migliori delle altre, che pensano di essere sempre nel giusto. Ne va piuttosto fiero, anzi. Anche quando ammette di aver sbagliato – come con Garcia – non sembra davvero convinto.

È potente, gli piace esserlo, ma allo stesso tempo si dichiara una specie di Masaniello, contro il potere più grande, oggi è la Juventus, domani è la Lega, il giorno dopo è la Figc, la Regione Campania, la Fifa. L’universo, il luogo in cui sono validi i suoi contratti, che ormai fanno parte di una sotto narrazione. A sentire chi li ha letti sono dei veri e propri romanzi, con il campo note che eguaglia (quando non supera) quello di Infinite Jest di David Foster Wallace.

De Laurentiis è esattamente la sua riproduzione fatta dagli artigiani di San Gregorio Armeno. La statuina quasi sempre caricaturale che ritrae il personaggio noto: calciatore, cantante, attore, politico. Nel momento in cui ti si rappresenta in quel modo, laggiù, fissato per sempre nel cuore di Napoli, non puoi far altro che ergerti a mandolino umano, a pizza fritta perenne, a furbo più degli altri, a cantante neomelodico, a disoccupato scaltro, a quello che si arrangia – e che nel farlo è naturalmente geniale -, a quello che da povero supplica i santi.

E qui non possiamo andare col ricordo alla precisione della scrittura su Napoli e napoletani di Giuseppe Marotta così ritratti in San Gennaro non dice mai no (Polidoro editore): "Lasciatemi dire che a Napoli i Santi, dal supremo e volubile San Gennaro al distratto San Giuseppe, da Sant'Antonio che protegge Posillipo a San Pasquale che sorveglia attentamente Chiaia, non sono che autorevoli congiunti del popolo. Il napoletano ha San Luigi, Sant'Espedito e ogni altro Santo come a certi poveracci dei vicoli capita di essere imparentati con un insigne professore residente a via dei Mille. Questi poveracci descrivono orgogliosamente l'attività e i successi dell'eccezionale consanguineo, dicono: 'E quello il commendatore ci è stretto cugino', solo per qualche consiglio o raccomandazione si permettono di disturbarlo, la verità è che si leverebbero il pane di bocca per accrescere il suo benessere. Così, o quasi, stanno le cose a Napoli tra il popolino e i Santi; ma sempre fede è, sempre amore".

E poi andiamo a quello che da ricco martella i poveri, li tratta male, quando può, esercita un dominio totale. De Laurentiis, come ogni napoletano assurto a leggenda nel tempo, non esita a rivolgersi ai santi all’occorrenza, ma appena può sottolinea che il santo è lui, e quando si parla del Napoli calcio, lui è Dio.

Storicamente noi napoletani abbiamo subito il fascino del potere, lo abbiamo usato, ci siamo fatti dominare in maniera perpetua, ma da quel dominio abbiamo preso, imparato, edopo lo abbiamo usato e rivenduto a nostro piacimento. Abbiamo detto grazie al Re e poi siamo diventati Masaniello, e poi abbiamo invertito di nuovo la rotta. Napoli è molte cose, ma dal racconto che se ne fa emergono sempre le stesse, come se non esistesse la normalità. Errore storico, ma la colpa è nostra.

Lo scudetto del Napoli dell’anno scorso è frutto del lavoro, di una buona e lunga gestione, quello che successo dopo è caos, è Napoli nelle leggende, è De Laurentiis che ha fatto di tutto per dimostrare che fosse un approssimativo, decretando che tutto fosse stato merito suo, non della squadra, non di Spalletti, non di Giuntoli, non dei tifosi, non della città. È ritornato nel giro di tre frasi a essere quello che affermava: «Quando sono arrivato io non avevate nemmeno i palloni», cosa tra l’altro vera.

Il rapporto con il potere, e con il racconto che se ne fa, di Partenope è complicato, ADL lo riassume perfettamente. Non è napoletano, ma è pieno di difetti napoletani che ora sono esplosi tra le sue mani e non sa come gestirli, non sa come tornare indietro e questo ai tifosi del Napoli mette paura, mette ansia. In molti stanno finalmente superando la sbornia e hanno capito che ADL non era l’insopportabile ma pieno di intuito di prima, e non è il comico ma altrettanto insopportabile di adesso. Era tutte queste cose insieme dall’inizio, da sempre. È come Napoli che si offende se ci dimentichiamo di chiamarla Dea, Santa, Regina ma poi non sa mai come tenersi il Paradiso, l’aureola, lo scettro. Il Regno.

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