Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Federico Principi
La vittoria della Coppa Davis viene da lontano
27 nov 2023
27 nov 2023
Un trionfo dovuto non solo al grande talento di Sinner.
(di)
Federico Principi
(foto)
IMAGO / Shutterstock
(foto) IMAGO / Shutterstock
Dark mode
(ON)

Non appena conclusa la sfida tra Jannik Sinner e Alex de Minaur, che ha consegnato la seconda Coppa Davis della sua storia all'Italia, è stato naturale per molti ripercorrere la storia precedente al recente rinascimento del tennis maschile italiano, tra fallimenti clamorosi e promesse disattese. Si è trattato di un'operazione quasi dantesca per non dimenticare la portata del percorso che è stato fatto da tutto il nostro movimento tennistico maschile, da troppo tempo bloccato nei ricordi della generazione di fenomeni degli anni Settanta e quasi rassegnato all'irripetibilità di quello storico exploit.

Per chi, come me, è abbastanza giovane da aver semplicemente studiato quell'epoca d'oro sui libri di storia, ma abbastanza vecchio da aver vissuto la sconfitta in Zimbabwe e la retrocessione in Serie C, aver visto annate intere senza un italiano nella seconda settimana negli Slam, la Coppa Davis è sempre parsa un mondo di sogni utopici, di invidia verso quei Paesi che avevano avuto la fortuna di pescare il talento giusto, la generazione d'oro, la capacità di sfruttare correttamente una tradizione tennistica consolidata per più di un secolo.

C'è sempre stato un muro oltre il quale i nostri tennisti, sfavoriti oltretutto dalla vecchia formula a cinque incontri, non avrebbero potuto sporgersi. Pian piano ci siamo tirati fuori dal purgatorio del World Group I (il secondo livello, cioè sostanzialmente la Serie B) ma di lì a poco ci siamo scontrati sugli ostacoli più diversi. Nel 2013 siamo andati a sbattere contro il Canada di Raonic e Pospisil ai quarti, in semifinale nel 2014 contro la Svizzera con Federer e Wawrinka, di nuovo ai quarti contro l'Argentina nel 2016, contro il Belgio nel 2017, contro la Francia nel 2018.

Se parallelamente il settore femminile conosceva la sua epoca d'oro, nel maschile aleggiava un'aura di ineluttabilità, di rassegnazione al fatto che per vari motivi i nostri tennisti non fossero abbastanza forti mentalmente, tecnicamente, al passo con i tempi. Di tantissimi tennisti italiani uomini negli ultimi 40 anni sono state raccontate gesta estemporanee, come se fossero incursioni solamente effimere in territori che normalmente non potessero appartenere loro con continuità: le vittorie di Gaudenzi e Volandri contro Federer; quella di Santopadre contro Norman e quella di Borroni contro Kafelnikov a Roma; i quarti di finale di Sanguinetti a Wimbledon nel 1998; l'impresa sfiorata di Camporese contro Becker nell'Australian Open 1991; lo scalpo di Canè su Wilander in Davis nel 1990.

La narrazione che per troppi anni ha caratterizzato il nostro tennis maschile è stata quella delle occasioni mancate, quella delle potenzialità inespresse, dell'incompiutezza anche dei nostri migliori. Se Volandri e Seppi avessero avuto un buon servizio, se Bolelli con quel braccio avesse avuto i piedi veloci come Federer, se Fognini avesse avuto la testa... C'è voluto tantissimo tempo per riorganizzare internamente la federazione, cambiare abitudini e narrazioni prevalenti all'interno delle nostre scuole tennis. Insomma, per rendere di nuovo potentemente credibile il nostro movimento, farlo tornare al passo con i tempi e non più ancorato a tradizioni ormai anacronistiche.

[@portabletext/react] Unknown block type "imageExternal", specify a component for it in the `components.types` prop

Questo articolo è stato realizzato grazie al sostegno degli abbonati. Sostienici regalando o regalandoti un abbonamento a Ultimo Uomo.

«Questa vittoria è un percorso partito da molto lontano», ha detto il capitano Filippo Volandri ai microfoni Rai pochi istanti prima della premiazione. Negli ultimi tempi, però, sembrava maturo il tempo che il nostro tennis, rinvigorito dalle giovani leve e dai colpi di coda dei nostri tennisti più esperti di seconda fascia, aprisse un nuovo ciclo, in grado non solo di produrre tennisti di altissimo livello ma anche una quantità industriale di top 50 e di top 100, forse il vero termometro sullo stato di salute più generale di un movimento.

La crescita del nostro movimento

Del resto, prima di quest'ultima finale vinta contro l'Australia, l'Italia aveva raggiunto una sola finale di Coppa Davis nelle ultime 41 edizioni. La drammatica sconfitta in casa contro la Svezia nel 1998, con Andrea Gaudenzi dolorante per il problema al tendine della spalla nel quinto set del primo match - già decisivo - contro Magnus Norman, aveva rappresentato il punto massimo di un movimento che, pur essendo in un periodo di relativa salute all'epoca, fu anche favorito da una serie di circostanze favorevoli. Su tutte, ovviamente, il tabellone che ci oppose all'India agli ottavi e allo Zimbabwe ai quarti, oltre che in semifinale agli Stati Uniti sprovvisti di Sampras e Agassi.

Nel lungo periodo, insomma, i nostri risultati di Davis avevano sempre rispecchiato quelli dei nostri giocatori nel circuito ATP. E intere generazioni di appassionati hanno cominciato a concepire come normale quest'astinenza da successi di alto livello in uno sport nel quale invece, al pari di Paesi come Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti e Australia, abbiamo una tradizione ben più radicata nel tempo rispetto a Paesi emersi con più forza solo in un secondo momento come Svezia, Spagna, Argentina e poi ancora Serbia, Canada, Croazia.

La più grande impresa dopo la conquista della finale 1998: Fognini che batte Murray sulla terra di Napoli nei quarti di finale 2014, regalando la semifinale agli azzurri.

La vittoria dell'Italia in Coppa Davis, ieri, è quindi innanzitutto la vittoria di un movimento intero, e non soltanto di uno o due fenomeni usciti fuori quasi per caso. D'altra parte, gli azzurri hanno dovuto fare a meno del loro secondo giocatore più forte - Matteo Berrettini - per tutto l'anno, e nella finalissima hanno dovuto fare a meno per infortunio anche di Lorenzo Musetti, cioè del suo terzo tennista più forte, almeno sulla carta. Non è stato, insomma, il trionfo estemporaneo di singoli campioni emersi in mezzo al sostanziale deserto del proprio Paese, come nei casi della Gran Bretagna di Murray nel 2015, della Svizzera di Federer e Wawrinka nel 2014, fino a risalire alla Germania di Becker nel 1989 e di Stich nel 1993, oltre alla Svezia di Borg nel 1975.

Da molto tempo anche noi su Ultimo Uomo abbiamo provato a ragionare (qui per esempio più di quattro anni fa) sulle cause che avevano provocato questa escalation di risultati, di dinamiche nuove del nostro tennis. Su tutte: il decentramento geografico dei centri federali nelle fasce di età più basse che rende meno traumatico il distacco da casa; l'aumento dell'utilizzo di campi veloci; il progetto Over 18, del quale hanno beneficiato anche Berrettini e Sonego, e che ha permesso loro di esplodere inaspettatamente, all'improvviso, senza essere delle grandi promesse da ragazzini; mettiamoci anche il canale monotematico SuperTennis, nato nel 2008.

Raramente era successo, infatti, che tennisti italiani fossero così precoci come Sinner e Musetti, e ancora più unico era il caso di quest'ultimo che aveva subito mantenuto le promesse di una carriera da juniores di altissimo livello, a differenza di chi invece - Quinzi, Baldi, Trevisan - non ce l'aveva fatta. Nessuno, in Italia, aveva mai mostrato un servizio così efficace come quello di Berrettini; nessuno un tennis così solido e completo come quello di Sinner. E analizzando ancora più a fondo, è incredibilmente alto per i nostri standard il numero di italiani ad oggi nelle prime 30 posizioni del ranking mondiale Under 21: Musetti, Cobolli, Nardi, Darderi, Gigante e Maestrelli, tutti pronti a rinforzare la nazionale in futuro, insieme anche agli altri 2001 Zeppieri e Passaro.

L'eroe inatteso di Davis

Il trionfo dell'Italia, però, è anche la grande vittoria dei gregari, nell'accezione più nobile del termine: non solo della grande combattività e della saggezza tattica di Lorenzo Sonego nei due doppi decisivi vinti contro Olanda e Serbia, ma soprattutto di Matteo Arnaldi e della sua capacità di affrontare faccia a faccia tutti i grandi demoni della Davis, della crudeltà di una competizione che ti mette addosso all'improvviso la massima responsabilità di fronte a un Paese intero anche se non sei pronto a prendertela.

Arnaldi ha portato a casa il punto decisivo di questa finale, se contiamo che sulla carta Sinner partiva abbastanza favorito contro de Minaur ma che il doppio australiano, composto da Ebden e Purcell - nel 2022 vincitori di Wimbledon e finalisti all'Australian Open - a sua volta avrebbe potuto plausibilmente sconfiggere Sinner e Sonego abbastanza stanchi. Certamente Arnaldi sapeva quanto l'esito di un risultato così storico per tutta l'Italia dipendesse soprattutto dalle sue mani, e questo lo ha costretto a giocare una partita dentro la quale si sono sviluppate altre partite, un incontro che ha rappresentato per lui un vero e proprio romanzo di formazione.

Arnaldi, con il suo successo su Alexei Popyrin, iscrive così oggi il suo nome nel glorioso elenco di tutti quei tennisti non ancora affermati (e spesso mai affermati) che solo la mistica di questa competizione, oltre ovviamente alla sua formula, ha reso eroi immortali. Un elenco che prevede giocatori comunque di alto livello come Troicki (2010), Stepanek (2012 e 2013), Youzhny (2002), Pouille (2017) in tempi recenti, per non dimenticare Carl-Uwe Steeb che accompagnò al successo la Germania Ovest insieme a Becker nel 1988, battendo Wilander. Tutti i nomi che ho appena citato sono stati anche solo per un momento top 15, mentre Arnaldi non è ancora mai entrato nelle prime 40 posizioni.

C'è insomma la possibilità che Arnaldi abbia già vissuto la giornata più bella della sua carriera, che possa addirittura essere ricordato in futuro come il giocatore meno conosciuto a fare da ago della bilancia in una finale di Davis. Del resto, se non lo fosse stato lui, lo sarebbe stato il suo avversario, a sua volta con un best ranking in carriera raggiunto quest'anno da 39 del mondo. Quella tra Arnaldi e Popyrin è stata una partita tra due giocatori che fino a poco fa mai avrebbero pensato - e forse in questo momento delle loro carriere mai lo avrebbero neanche voluto - di essere chiamati dal loro Paese a riportare "l'insalatiera" (come viene sarcasticamente chiamata la Coppa Davis per via della sua forma) a casa dopo tanto tempo.

E difatti si è trattata di una partita a tratti surreale, perfino da Challenger, almeno nei primi due set. Ma che cosa rappresenta la Davis se non il fascino dell'insolito, dell'assistere a sportivi che solcano un terreno a loro totalmente sconosciuto? Come la finale dello US Open 2020 tra Thiem e Zverev, il match tra Arnaldi e Popyrin è parso a tutti gli effetti una seduta psicanalitica a cielo aperto, la prova suprema che ha messo due giovani uomini di fronte alle loro paure.

Fin dai primi game era evidente come Popyrin, già di suo piuttosto legnoso negli spostamenti laterali, fosse ancor più rigido del solito in virtù della comprensibile tensione. Eppure è stato doloroso vedere come Arnaldi non riuscisse ad avere un equilibrio tattico che gli consentisse di approfittarne, di manovrare limitando gli errori, facendo spostare spesso Popyrin da una parte all'altra e facendolo rischiare con colpi in corsa. Arnaldi ha portato a casa il primo set per 7-5 ma lo ha fatto dando l'impressione di esserci riuscito con pochissima consapevolezza tattica, più per aver azzeccato soluzioni estemporanee nei momenti decisivi.

Già nel primo set Arnaldi aveva compiuto più errori non forzati di Popyrin (15 a 8): nei primi due set, sostanzialmente, l'italiano ha fatto la partita che avrebbe dovuto fare il suo avversario, più dotato al servizio e molto meno dal punto di vista atletico. Arnaldi non aggrediva la palla per un rischio calcolato, ma perché aveva paura di sbagliare. Del resto ci sono stati momenti in cui ha provato ad abbassare la velocità, ad aumentare la continuità e lo spin sulla palla per far correre e sbagliare Popyrin, ma in quei casi ha spesso finito per rallentare fin troppo, colpendo la rete e dando la sensazione di una certa mancanza di controllo sulla partita.

Nel terzo set, a partire da qui, si vede come Arnaldi sia riuscito finalmente a ritrovare un equilibrio tattico, a spingere e a muovere Popyrin nella giusta misura, senza esagerare.

A 22 anni un'eventuale sconfitta in un incontro così importante, e a uno stadio così prematuro della sua carriera, avrebbe potuto segnare per sempre la carriera di Arnaldi, come successe ad esempio a Paul-Henri Mathieu nel 2002 contro Youzhny. Una ritrovata lucidità nel terzo set, accompagnata a un provvidenziale incremento di prime di servizio in campo (44% e 41% nei primi due parziali, 59% nel terzo) hanno invece condotto il tennista ligure a un successo decisivo, che resterà nella storia dello sport italiano.

Il frontman del gruppo

In un complesso musicale qualsiasi componente è fondamentale per la riuscita artistica dei brani. Eppure, di fatto, c'è sempre l'elemento più creativo, o semplicemente quello più riconosciuto, insomma il frontman, che nel nostro caso è ovviamente Jannik Sinner. Non c'è molto da dire sulla sua autoritaria sfida contro Alex de Minaur in finale, molto di più si può dire delle vittorie del giorno prima contro la Serbia - e in effetti lo abbiamo già fatto. Questo grande successo, incastonato tra le straordinarie ATP Finals, resterà come la prima grande affermazione del tennista italiano, che sembra avere un grande futuro davanti a sé.

Nel trionfo del 1976 il quartetto da recitare a memoria - Panatta/Barazzutti/Bertolucci/Zugarelli - poteva contare sul primo, campione del Roland Garros nello stesso anno, come volto-copertina, come spot promozionale vivente di una disciplina sportiva intera al pari di quanto sta già facendo l'altoatesino. Panatta e Sinner hanno personalità molto diverse, ma se il primo bucava lo schermo con l'eleganza e la fantasia del suo gioco, di Sinner è assolutamente magnetico il modo esplosivo e robotico di porsi al tennis. Non avrà la completezza del repertorio di Alcaraz, ma la sua capacità di stare sul campo bombardando costantemente e in modo asfissiante il suo avversario ricorda in parte la classe glaciale di Pete Sampras.

Sinner ha stradominato de Minaur nonostante si vedeva che fosse un po' stanco e meno brillante rispetto ai match contro la Serbia del giorno prima (inevitabilmente).

Va detto, per completezza, che negli ultimi successi di Sinner vanno anche presi in considerazione i campi duri indoor dove si è giocato, i più adatti per esprimere il suo tennis lineare di anticipo. Eppure non possono non balzare all'occhio i suoi notevoli progressi al servizio, nelle transizioni a rete in controtempo, nella capacità di fronteggiare le variazioni di ritmo. Elena Pero in telecronaca su Sky sottolineava come Sinner, con il suo coach Simone Vagnozzi, provasse spesso in allenamento le accelerazioni con tutti i colpi, e verso tutte le direzioni, in seguito al back dell'avversario: uno dei suoi punti deboli in passato, sul quale ha lavorato molto in questi anni. Tutti elementi che saranno determinanti per la sua crescita di risultati anche quando si tornerà a giocare all'aperto.

Sinner è già adesso un tennista che può fare da traino a tantissimi ragazzini, spingendoli ad appassionarsi e a intraprendere questa disciplina. E questo nonostante sia cresciuto con Riccardo Piatti a Bordighera, sostanzialmente svincolato dalle dinamiche federali. Sinner, insomma, per paradosso non è il tennista che rappresenta di più il circolo virtuoso intrapreso ormai da qualche anno dal nostro movimento.

La Coppa Davis 2023 dell'Italia resterà una pietra miliare nella storia del nostro sport, un caso scuola di come la programmazione pluriennale possa davvero trasformare i risultati agonistici di un Paese nonostante una tradizione consolidata. Questo trofeo è già contemporaneamente un punto d'arrivo e un punto di partenza: la giovane età e le potenzialità ancora inespresse di moltissimi nostri tennisti ci impone ogni anno di puntare a difendere il titolo almeno una volta. Al di là dei trofei, comunque, sarà soprattutto importante cambiare la percezione: la vittoria della Coppa Davis, adesso, può smettere di essere un'eccezione e diventare una possibilità.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura