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Valerio Coletta

Conan Doyle, il portiere

Al contrario di Sherlock Holmes, lo scrittore britannico amava lo sport, e il calcio in…

Arthur Ignatius Conan Doyle arriva a Portsmouth nel giugno del 1882 e avvia il suo studio medico ad Elm Grove, nel Southsea, a tre miglia dalla città e a due passi dal canale della Manica. Dove tutti vedono salsedine che si mangia le case e le barche, lui vede il profumo del mare che sale le scale degli appartamenti e che muove le betulle bianche. È pieno di energia e di progetti e percepisce il mondo come uno sconfinato campo di possibilità, perfettamente districabile con la volontà e con la ragione.

 

All’età di 23 anni, dunque, si ritrova con una Laurea in Medicina e Chirurgia nel suo primo studio, da solo, con il respiro lontano delle onde che gli solletica il cervello e il ticchettio degli orologi che gli ricorda che non ha un soldo. Chi è che va a curarsi dal giovane medico di Edimburgo? Pochi, nessuno. Decide allora di dedicarsi parallelamente ad un’altra attività che oltre a riempirgli le giornate, un giorno, chissà, potrebbe anche fargli racimolare un po’ di denaro: la scritt… no il calcio.

 

Il Portsmouth Association Football Club è una squadra amatoriale appena nata, fondata da Arthur Edward Cogswell nel 1883. Non sappiamo precisamente come siano andate le cose ma immagino che Doyle, armato di baffi e dei vispi occhi azzurri, fosse andato a chiedere un posto in rosa. Dopo averne saggiato la personalità, l’intraprendenza e le ottime doti fisiche, i compagni, o forse Cogswell stesso, gli avrebbero proposto di interpretare il ruolo più complesso e misterioso dell’epoca: il portiere. Alla fine dell’Ottocento le regole del calcio non sono ancora condivise per cui molti dettagli, come quello che può fare o non fare un portiere, cambiano continuamente. Nel 1883, ad esempio, non può trasportare la palla per più di due passi, perché l’area di rigore ancora non esiste e non è possibile che cominci ad andarsene dove gli pare.

 

Arthur Conan Doyle diventa il primo portiere della squadra amatoriale di Portsmouth (che non è esattamente il club professionistico che conosciamo oggi, ma sicuramente è il nucleo che ne ha ispirato la fondazione nel 1898) e decide di registrarsi con lo pseudonimo di A. C. Smith, forse per non mischiare le troppe attività che lo riguardano.

 

Foto Fox Photos / Stringer

 

Sì, perché non ci crederete ma Arthur è anche uno scrittore. Durante le lunghe giornate che passa nello studio aspettando i rari pazienti butta su carta storie, idee e personaggi. Organizza trame sofisticate e si muove in ambienti immaginari tentando di descriverli nel dettaglio. Le sue prime pubblicazioni vanno su vari periodici quali il Chambers Journal, The London Society, il British Medical Journal (scrive anche brevi trattati di medicina) e The Boy’s Own Paper ma il suo vero obiettivo è farsi pubblicare un romanzo e in quel momento non c’è modo di riuscirci.

 

Me lo immagino ogni sera durante gli allenamenti, piantato tra i pali, che riflette sulle varie cose che non vanno nella sua vita. Soppesa i problemi studiandoli uno alla volta nel dettaglio, come è abituato a fare e come gli ha insegnato il suo maestro Joseph Bell, professore di chirurgia di cui divenne anche assistente prima di laurearsi.

 

Bell era un uomo di enorme carisma, gelido e acuto, che prima di arrivare a qualsiasi conclusione o diagnosi osservava nel dettaglio tutto ciò che lo circondava attraverso un metodo scientifico. L’esperimento in cui coinvolgeva i suoi studenti consisteva nel prendere uno sconosciuto e tentare di individuare la sua professione e le sue recenti occupazioni esclusivamente attraverso l’osservazione. Lo spessore e la fama di Bell, che era membro della Royal Medical Society e che servì come chirurgo personale della regina, gli valse la partecipazione a vere indagini di Scotland Yard (tra cui quella di Jack lo squartatore) come consulente della polizia. In effetti l’elegante professore non avrebbe sfigurato tra le pagine di un romanzo, pensa l’infreddolito portiere mentre si lancia su una palla ormai troppo lontana. Gol.

 

Il calcio non basta ad Arthur Conan Doyle e, oltre alle varie attività mediche e culturali che continua ad abbracciare con padronanza sempre maggiore, comincia giocare a golf, a tennis, a praticare la boxe, si inventa la moda di andare a sciare in Svizzera per lunghi periodi, va in bicicletta, in motocicletta, a cavallo, a caccia, gioca a rugby e soprattutto a cricket. Riguardo quest’ultima disciplina ottiene risultati di grande pregio ma soprattutto ha la possibilità di giocare con compagni che possono capire più profondamente la sua passione per la scrittura.

 

Foto Hulton Archive / Stringer

 

Allahakbarries Cricket Club è il nome di una squadra amatoriale di cricket il cui nome gioca sull’unione tra il famoso motto arabo “Allah akbar” e il nome di “J. M. Barrie”, che ne fu giocatore e fondatore (fa strano pensare che oggi sarebbe problematico presentarsi a un torneo con un nome del genere). Doyle si riunisce spesso con il gruppo e me lo immagino dopo la partita a bere una birra e a discorrere amabilmente con Barrie e A. A. Milne, altro membro appassionato, del gioco e di letteratura. Mentre il primo racconta della sua idea di Peter Pan e il secondo della sua idea di Winnie the Pooh, Doyle presenta il protagonista del suo primo romanzo “Uno studio in rosso”: Sherlock Holmes.

 

Nella sua autobiografia Memories and Adventures lo scrittore riflette sul valore che ha avuto lo sport nella sua vita dedicandogli un capitolo intero. Si descrive come un all-rounder, ovvero un tuttofare, uno che non si è mai specializzato in una sola disciplina ma che ha preteso sempre l’eccellenza sperimentando ogni tipo di attività e di gioco, dai quali ha tratto i momenti più divertenti della sua vita. Lo sport ha anche influenzato la sua narrativa, la quale è stata definita come un insieme di storie maschili di eroismo e avventura in un contesto di guerra, impero ed esplorazione, in linea con la percezione virtuosa dello sport a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

 

Non abbiamo molti dettagli sulla carriera di Doyle portiere ma sappiamo una cosa importante: Sherlock Holmes odia il calcio. Nel racconto The Adventure of the Missing Three-quarter, che tratta della scomparsa di un giocatore di rugby, il celebre detective afferma che non ha simpatia per tali giochi da bambini e che il destino dell’essere umano lo interessa molto di più di una partita di calcio. Scopriamo con soddisfazione che autore e personaggio non erano per niente simili.

 

 

 

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Valerio Coletta è un giocatore di basket e hockey sul prato. A 12 anni ha incontrato Alberto Angela al McDonald. Scrive in giro.