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Federico Aquè

L’anno terribile di Inzaghi

Review tattica della stagione del Milan: molti problemi, poche soluzioni.

 

I primi tempi

Il 31 agosto 2014 Filippo Inzaghi esordisce in Serie A da allenatore battendo 3-1 la Lazio a San Siro. La mossa a sorpresa è Jérémy Ménez schierato centravanti in un tridente offensivo completato da Stephan El Shaarawy e Keisuke Honda. La squadra ha un senso, mostra poche idee semplici e chiare: la combinazione più cercata prevede il movimento incrociato di El Shaarawy e Ménez (quest’ultimo va incontro, il primo scatta alle sue spalle), che arrivano anche a scambiarsi la posizione durante la partita.

 

Ai due esterni d’attacco, El Shaarawy e Honda, viene chiesto di ripiegare sulla linea dei centrocampisti in fase di non possesso; Andrea Poli e Sulley Muntari coprono i fianchi di Nigel de Jong, mascherando la scarsa mobilità dell’olandese: giocano a tutto campo, aggredendo il primo possesso laziale e sostenendo la fase offensiva (Muntari segnerà pure il 2-0).

 

La manovra è poco elaborata ma efficace, soprattutto grazie alla pericolosità in campo aperto di El Shaarawy («Ho scelto il 4-3-3 solo per lui», dirà successivamente Inzaghi). La difficoltà più grande è nella costruzione dell’azione: il Milan fatica a superare la prima linea di pressione della Lazio, spesso lancia lungo anche se i suoi attaccanti sono chiaramente in inferiorità fisica rispetto ai difensori avversari.

 

Esordio incoraggiante.

 

Gli ultimi

Il 30 maggio 2015 Inzaghi chiude la sua esperienza sulla panchina rossonera con un altro 3-1, sull’Atalanta, dal significato molto diverso rispetto a quello della prima giornata contro la Lazio. I buoni propositi iniziali sono stati cancellati dal decimo posto finale e a confrontare le due formazioni iniziali sembra di parlare di due squadre diverse: dell’undici titolare dell’esordio con la Lazio solo in tre, de Jong, Honda ed El Shaarawy, sono presenti dal 1’ anche a Bergamo.

 

Il Milan inizia con il 4-3-3, ma passa presto al 4-2-3-1, c’è un centravanti di ruolo (Giampaolo Pazzini), i due centrocampisti (de Jong e van Ginkel) sono piuttosto statici e si limitano a facilitare la circolazione, giocando quasi sempre in orizzontale, non si vedono movimenti studiati e ripetuti con una certa insistenza e la pericolosità offensiva è legata alla creatività dei tre dietro Pazzini: Honda, Bonaventura ed El Shaarawy. La difficoltà a impostare l’azione in maniera pulita è invece la stessa di inizio anno.

 

Il Milan imposta l’azione con sette giocatori, l’Atalanta pressa con 6. La circolazione rossonera è lenta e, anche se de Jong viene lasciato libero, il pressing dei bergamaschi è efficace e fa tornare i difensori milanisti da Abbiati.

 

Ménez falso (o vero?) nove

Gran parte delle discussioni sul Milan di inizio stagione vertono sul ruolo di falso nove di Ménez. Inzaghi la pensa in maniera diversa: per lui Jérémy è un attaccante a tutti gli effetti . Nel nuovo ruolo, oltretutto, il francese gioca alla grande.

 

In panchina c’è però Fernando Torres, preso in prestito dal Chelsea a fine mercato. Inzaghi lo fa entrare in squadra senza cambiare il 4-3-3 e adattando le sue convinzioni sul ruolo di Ménez. “El Niño” esordisce da titolare alla quarta giornata, a Empoli, con Ménez che viene spostato a sinistra nel tridente offensivo.

 

La prima mezz’ora è allarmante: la squadra di Sarri mette in crisi il Milan con il suo pressing e va in vantaggio di due gol grazie a due calci piazzati. I limiti dei rossoneri nella costruzione dell’azione emergono in tutta la loro evidenza e anche l’ingresso nell’undici titolare di Marco van Ginkel (l’altro esordio importante di quella sera al Castellani) non porta grandi vantaggi. Anzi, è proprio dall’infortunio di van Ginkel e il successivo ingresso di Giacomo Bonaventura, con il Milan che passa al 4-2-3-1, che inizia la rimonta. Il gol di Fernando Torres resterà un unicum nella stagione rossonera, mentre è molto più interessante la sintonia che si crea tra Keisuke Honda e Ignazio Abate, rispettivamente un gol e due assist nel 2-2 finale.

 

I biondi sulla fascia destra

In un Milan in difficoltà fin dalla prima partita nell’impostare l’azione, l’asse Honda-Abate ha rappresentato spesso la via d’uscita dal pressing avversario. Nel corso di questo campionato i due hanno affinato l’intesa nata negli ultimi mesi della stagione scorsa e le loro combinazioni sono state tra le poche nel Milan che hanno funzionato con i tempi giusti.

 

I due si completano bene: il calcio riflessivo e ragionato del giapponese è l’opposto di quello tutto fisico e velocità del biondo terzino, che in questa stagione ha trovato un’inedita precisione una volta arrivato sul fondo. Con 5 assist (i dati sono quelli stagionali forniti da SICS) è stato il migliore della squadra insieme a Ménez.

 

Se Abate è il braccio, Honda è la mente della coppia: è la sua intelligenza nello smarcarsi a creare lo spazio per le discese di Abate, a cui si aggiunge la qualità nel servire con precisione e con il giusto tempismo il compagno. Paradossalmente il giapponese si trova nella strana condizione di essere tra i giocatori più importanti per il Milan e al tempo stesso uno di quelli più presi di mira da critica e tifosi. Forse è l’esotismo a complicargli la vita, al di là dei capelli ossigenati Honda è un giocatore poco appariscente, con un’immaginazione che difficilmente gli impedisce di inventarsi giocate dal nulla, ma una passione molto giapponese per le cose fatte benissimo. Anche il numero di maglia contribuisce al malinteso, ma Honda non è un solista e in una squadra che gira male difficilmente farà la differenza.

 

Tutti i gol di Honda con la maglia del Milan. Peccato sia un video dello scorso ottobre.

 

Nella valutazione della stagione di Honda pesa anche il fatto che non abbia più segnato dopo la settima giornata. Per molti il suo campionato è finito lì, al sesto gol nelle prime sette partite, un exploit che l’ha perseguitato per il resto della stagione, perché ogni considerazione su di lui viene rapportata a quelle prime sette giornate e a quei gol che non è più riuscito a segnare.

 

In realtà bisognerebbe guardare in maniera complessiva all’apporto di Honda al gioco del Milan. Il giapponese è stato spesso l’uomo chiave nella fase critica della manovra rossonera, l’uscita dalla difesa, fornendo a chi impostava una linea di passaggio pulita alle spalle della prima linea di pressione avversaria e facendo guadagnare campo alla squadra. Spesso è stato lui l’organizzatore del gioco del Milan, cosa che ovviamente l’ha allontanato dalla porta e non gli ha consentito di tenere le medie realizzative di inizio campionato.

 

In tutte le partite migliori del Milan (per ultimo il 2-1 alla Roma o il 3-0 al Torino) Honda ha sempre avuto un ruolo importante, se non decisivo. Sarà solo una coincidenza, ma quando Honda è partito per giocare la Coppa d’Asia il Milan era a due punti dal terzo posto, al suo ritorno i punti erano diventati dieci.

 

Gli errori Cerci e Destro

I rossoneri arrivano infatti alla pausa invernale avendo conquistato 25 punti in 16 partite, a due punti dal trio Lazio-Sampdoria-Napoli che segue la Roma seconda. A centrocampo è appena tornato Riccardo Montolivo, l’appiglio al quale si aggrappa Inzaghi per rendere più scorrevole la manovra della sua squadra, mentre in attacco c’è il dilemma centravanti (Torres viene bocciato) e la necessità di sostituire Honda, che si aggrega al Giappone per giocare la Coppa d’Asia. Vengono quindi comprati Mattia Destro e Alessio Cerci, due acquisti avallati dallo stesso Inzaghi, che più di una volta dichiara di «averli voluti lui».

 

Succede però che i due vadano a complicare la situazione e che Inzaghi non riesca a gestire il nuovo reparto offensivo. Il cambio Honda-Cerci non funziona: in una squadra che fatica a portare il pallone in avanti in maniera pulita l’apporto di Cerci è inferiore alle aspettative. Costretto a ricevere molto lontano dalla porta, o comunque in situazioni statiche e con molti avversari di fronte da superare, la sua giocata classica, la conversione da destra verso il centro diventa prevedibile e molto facile da limitare.

 

Allo stesso modo, le difficoltà in fase di possesso hanno reso problematica la presenza di un centravanti come Destro. Inzaghi ha sottolineato il fatto che Destro toccasse lo stesso numero di palloni di quando giocava alla Roma. La continuazione del discorso è la posizione in cui Destro toccava quei palloni, molti di più fuori area piuttosto che negli ultimi 16 metri, la sola zona di campo in cui fa la differenza. Contro la Roma, per esempio, il colpo di testa del 2-0 è stata l’unica palla toccata in area di rigore. La parentesi in rossonero ha mostrato in maniera evidente le difficoltà di Destro a trasformarsi in un attaccante di manovra (gli 8 passaggi chiave e i 5 assist, non vincenti, collezionati in un campionato intero sono una prova schiacciante). Inserito in un contesto poco congeniale alle sue caratteristiche, anche lui, così come Cerci, si è rivelato un acquisto sbagliato.

 

Bonaventura mezzala

Il problema della qualità a centrocampo e le difficoltà nell’impostazione avevano spinto Inzaghi a cambiare ruolo a Giacomo Bonaventura, arretrandolo a giocare da mezzala.

 

Per quanto bravo tecnicamente, Bonaventura non ha le caratteristiche per incidere nella manovra dettandone i tempi o facilitandone lo sviluppo: il meglio di sé lo dà quando può ricevere libero e puntare l’avversario diretto (anche se sono due o tre non fa niente), non a caso all’Atalanta è esploso giocando da esterno sinistro, con la possibilità di tagliare dentro il campo e sfruttare il suo gran tiro (e nel Milan è stato il secondo, dietro a Ménez, per numero di tiri, 47, più della metà, 26, da fuori area).

 

Neanche il suo abbassamento a centrocampo, insomma, ha migliorato in maniera sensibile la fase di possesso del Milan e il suo utilizzo da mezzala ha rappresentato più che altro una soluzione di ripiego, un modo per aumentare la qualità della squadra e far convivere i più bravi. Ma i vantaggi del portare Bonaventura a centrocampo sono di molto inferiori rispetto agli svantaggi di allontanare uno dei migliori giocatori della rosa dagli ultimi 30 metri.

 

Portare Bonaventura a ricevere il pallone dal portiere non poteva essere la soluzione ai problemi del Milan.

 

Gli insostituibili El Sha e Monto

«Il rimpianto è non aver avuto i giocatori. Quando uno come El Shaarawy sta fuori sei/sette mesi è difficile sostituirlo, così come Montolivo». Con queste parole Inzaghi aveva eletto in via ufficiale i propri insostituibili. C’è da dire, però, che El Shaarawy è stato a disposizione per metà campionato e in quei mesi non era un intoccabile.

 

Il “Faraone” ha vissuto un’altra stagione sottotono, non solo per colpa della frattura al metatarso che gli ha fatto perdere la seconda parte del campionato. Partito alla grande con una prestazione da migliore in campo contro la Lazio, El Shaarawy si è via via perso quando è diventato chiaro che quella partita d’esordio, con movimenti offensivi studiati e ripetuti spesso, ha rappresentato un caso isolato.

 

El Shaarawy è un attaccante che gioca meglio senza, piuttosto che con la palla e sarebbe un giocatore decisivo in una fase offensiva organizzata, fatta di meccanismi prestabiliti (sarà interessante, per esempio, vedere se e come lo utilizzerà Antonio Conte in Nazionale). In una fase offensiva piuttosto confusa, legata alla fantasia e all’abilità individuale dei suoi giocatori d’attacco come quella del Milan, le letture e la creatività da giocatore normale hanno finito per mettere in ombra El Shaarawy, incapace di fare il salto di qualità nei mesi in cui è stato a disposizione e di riproporsi ai livelli della prima parte del campionato 2012/13.

 

Si può dire che El Shaarawy sia stato il lato oscuro di Ménez, che invece nel Milan 2014/15 si è esaltato, giocando la migliore stagione della sua carriera. Il francese ha finito il campionato al primo posto in tutte le statistiche offensive (gol, assist, passaggi chiave, tiri e dribbling), a testimoniare quanto sia stato importante per Inzaghi.

 

Il campionato di Riccardo Montolivo è invece iniziato a fine novembre a causa della frattura alla tibia rimediata prima dei Mondiali. Se è vero che non si può non tener conto di un infortunio così grave e dei normali tempi di recupero, c’è da dire che nelle poche partite in cui ha giocato (9, se non si considerano i due minuti contro l’Udinese) la costruzione dell’azione del Milan non è migliorata granché. Se teniamo come riferimento l’Indice di Pericolosità elaborato da SICS, che è un termometro della qualità della manovra offensiva di una squadra, si può notare che l’IPO medio dei rossoneri nell’arco del campionato è stato di 44,7; nelle 9 partite giocate da Montolivo l’IPO medio è stato di 41,1.

 

I problemi, insomma, sono stati ben più profondi della semplice assenza del capitano. In linea generale, l’inizio azione del Milan prevedeva i due centrali di difesa larghi per favorire la discesa del mediano, ma lo sviluppo della manovra passava preferibilmente su una delle due fasce, sfruttando la catena terzino-interno-esterno d’attacco. L’interno dal lato della palla si avvicinava per offrire una linea di passaggio corta, l’altro si alzava alle spalle del centrocampo avversario.

 

La lentezza del giro palla e dei movimenti a smarcarsi hanno però inceppato più volte questo meccanismo, costringendo il Milan a tenere bassi sette giocatori (i quattro difensori più i tre centrocampisti) per iniziare l’azione e rendendo il Milan facile preda del pressing avversario. Spesso, per sbloccare la situazione, sono stati decisivi i movimenti a venire incontro dei tre davanti, in particolare Honda e Ménez, altre volte è toccato ai difensori centrali avanzare per impostare, cercando frequentemente il lancio lungo verso gli attaccanti, una soluzione che però ha portato spesso il Milan a perdere la palla.

 

L’apporto di Montolivo in questo scenario è stato minimo, non essendo certo la sua caratteristica migliore quella di velocizzare il gioco, e nemmeno quando Inzaghi l’ha fatto giocare davanti alla difesa le cose sono migliorate. Anzi, contro la Lazio, Montolivo ha giocato la sua peggior partita stagionale.

 

L’errore sul 2-1 di Klose è la sintesi del discorso appena fatto.

 

Fase difensiva

Anche quando la palla ce l’avevano gli avversari il Milan di Inzaghi è stato tutt’altro che impeccabile. L’impostazione difensiva data dal tecnico prevedeva una squadra compatta nella propria metà campo, stretta al centro per impedire facili verticalizzazioni e indirizzare il gioco avversario sulle fasce, dove i rossoneri si facevano più aggressivi e puntavano al recupero palla cercando la superiorità numerica anche grazie al ripiegamento profondo degli esterni d’attacco.

 

Il primo giocatore incaricato di uscire in pressione era la mezzala dal lato della palla, la cui uscita provocava lo slittamento del mediano e dell’altra mezzala in copertura, a formare una linea a 4.

 

Bonaventura esce in pressione e alle sue spalle il centrocampo si schiera a 4.

 

Il pressing è stato però spesso disorganizzato, per due motivi: la linea di difesa restava bloccata e non accompagnava il movimento del centrocampo, creando così spazio tra le linee (ovviamente il fatto di avere centrali difensivi lenti non ha aiutato, ma la priorità di Inzaghi è sempre stata quella non rischiare e non concedere spazi, non solo alle spalle della difesa, ma anche ai lati); i movimenti degli stessi centrocampisti non sempre erano coordinati e il Milan era facilmente vulnerabile ai lati del mediano.

 

Una delle tante occasioni in questa stagione in cui un giocatore avversario ha potuto ricevere libero tra le linee. La difesa non accorcia, ma nemmeno Poli copre Montolivo, che si è allargato a sinistra per prendere Klose.

 

Questo tipo di problemi spiegano in parte perché Inzaghi abbia impostato una fase di non possesso attendista piuttosto che aggressiva, con il pressing quasi mai portato in zone alte del campo e una strategia di recupero palla che puntava più sull’errore forzato degli avversari che su una riconquista attiva. Guardando i dati complessivi di fine anno, l’altezza media delle palle recuperate è stata di 33,5 metri: solo il Verona (32,5) ha fatto peggio del Milan da questo punto di vista. I rossoneri, poi, sono ultimi per palloni recuperati nella metà campo avversaria (281).

 

A ciò vanno aggiunti gli errori individuali di lettura degli inserimenti dei centrocampisti avversari, una particolare situazione che il Diavolo ha sofferto parecchio quest’anno.

 

Resa dei conti

La prima vera esperienza da allenatore di Inzaghi è finita con un fallimento. Il Milan ha chiuso con 52 punti, il record negativo nei campionati a 20 squadre, con la media di 1,37 punti a partita, dodici sconfitte e 50 gol subiti.

 

Inzaghi ha pagato innanzitutto la mancanza di esperienza, non dimostrandosi abbastanza forte da reggere le pressioni esterne e imporre le proprie idee. Ha rinunciato alla sua intuizione di Ménez centravanti, ha stravolto le sue convinzioni iniziali e in definitiva non ha saputo gestire al meglio la rosa a disposizione.

 

Specie da gennaio in poi è stato difficile seguire il criterio delle sue scelte, in tutti i reparti, con tridenti offensivi cambiati di continuo (si è visto anche Cerci falso nove), il centrocampo e la difesa che non hanno mai trovato un assetto stabile. Nell’arco del campionato Inzaghi ha sperimentato tredici coppie difensive diverse e la più utilizzata (7 volte) si è rivelata quella composta da Paletta e Mexès, un acquisto di gennaio e un giocatore ignorato fino a novembre e poi invece sempre titolare (squalifiche permettendo).

 

Inzaghi ha bruciato la prima chance della carriera, ma sarebbe ingiusto giudicarlo dopo un solo anno, in una squadra difficile da allenare come il Milan, specie in questo particolare periodo storico. Non è detto che non possa costruirsi una propria credibilità ripartendo da piazze meno esigenti e magari tra qualche anno, con un’esperienza e un curriculum diversi, lo ritroveremo ancora sulla panchina della squadra alla quale sono legati i suoi ricordi migliori da giocatore. In attesa di quel momento ai tifosi rossoneri non resta che ricordarlo per quanto fatto quando ancora indossava la maglia numero 9.

 
 

Ringraziamo per i dati SICS (che potete anche seguire su Facebook e Twitter).

 
 

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Federico Aquè ha collaborato con Sprint&Sport, Datasport e Sportmediaset.