Se gli Indiana Pacers non avessero accettato quell’offerta da parte degli Oklahoma City Thunder, probabilmente ora ci troveremmo in una nuova fase del mercato NBA — quella in cui i Boston Celtics, una volta assicuratisi definitivamente Gordon Hayward, finalmente avrebbero messo sul tavolo le scelte serie e i contratti giusti per arrivare a Paul George e chiudere il loro mercato creando una nuova contender. Forse.
O forse i Boston Celtics non erano poi davvero così interessati a prendersi George in prestito per un anno, con il rischio che tra dodici mesi se ne andasse — offesa delle offese — ai Los Angeles Lakers per crearsi la sua contender. Con ogni probabilità, non lo sapremo mai. Quello che sappiamo è che ora l’ultima tessera veramente grossa del domino è finalmente caduta, con i vice-campioni della Eastern Conference che hanno spedito Avery Bradley a Detroit in cambio di Marcus Morris, liberando lo spazio salariale per far rientrare il contratto di Hayward sotto al cap.
Alla fine dei conti, tutta quest’estate è girata attorno a ciò che avrebbero fatto i Celtics: con la loro collezione di asset, contratti e spazio salariale, Danny Ainge aveva per le mani tutte le carte migliori del mazzo e ogni offerta, reale o immaginaria che fosse, doveva tenere in considerazione ciò che loro potevano mettere sul tavolo. Nella grande partita a briscola che è stato il mercato 2017, i Boston Celtics avevano per le mani tutti i carichi più pesanti per andare “sopra” agli avversari.
Danny Ainge si trovava in una posizione molto spinosa e complicata da decifrare: innanzitutto le proiezioni del cap molto al ribasso rispetto a quanto preventivato — si pensava che si sarebbe arrivati fino a un massimo di 108 milioni, poi si è scesi a 102 e alla fine, complici i cappotti di Golden State e Cleveland rifilati alle avversarie ai playoff, si è scesi a 99 — si è ritrovato con meno spazio salariale con cui poter lavorare. Inoltre, con la distanza dai Cleveland Cavaliers ancora sostanziosa, come testimoniato sopratutto dalle prime due partite al TD Garden di finali di conference in cui LeBron James e soci hanno scherzato con i Celtics. Infine, con diversi giocatori chiave — Isaiah Thomas, Avery Bradley e Marcus Smart — attesi a un grosso aumento di stipendio nella prossima estate, questa era l’ultima reale occasione di creare lo spazio per aggiungere un giocatore da massimo salariale, ma allo stesso tempo bisognava stare attenti a non accollarsi troppi contratti da rinnovare e vedere il monte salari decollare verso vette che solo i Golden State Warriors, gli unici ad avere la certezza assoluta di avere una squadra da titolo anno dopo anno, possono permettersi in un mercato come quello della Baia.
Alla fine, i Celtics hanno di fatto privilegiato la visione a lungo termine invece di scegliere la strada veloce con il rischio di ritrovarsi con l’acqua alla gola già dal prossimo anno: invece di chiamare Markelle Fultz con la 1 al Draft, sono scesi di due posizioni prendendo Jayson Tatum e aggiungendo un asset di assoluto valore nella scelta 2018 dei Lakers (o la Philadelphia/Sacramento nel 2019) al loro tesoretto; invece di utilizzare quelle scelte per arrivare a Jimmy Butler o Paul George con il rischio che se ne andassero nel giro di una o due stagioni, hanno scelto la sicurezza di otto o nove anni con Jaylen Brown e Tatum, oltre ad arrivare a Hayward; invece di puntare a vincere subito tenendo Avery Bradley, un fit tecnico migliore con i loro giocatori più forti, hanno preferito la gioventù di Marcus Smart (free agent tra un anno come AB, ma restricted e con 3 anni in meno sulla carta d’identità, oltre che meno costoso) e il contratto eccellente di Jae Crowder (che li copre anche in un reparto lunghi non affidabilissimo e gli permette di avere un titolare al costo di una riserva di basso rango), di fatto legandosi anima e corpo ad Isaiah Thomas — pur con la speranza di non dovergli dare un massimo salariale da cinque anni tra dodici mesi.
Se lette nell’ottica di competere sul serio per il titolo nel giro di due o tre anni piuttosto che ora, queste scelte alla fine hanno tutte un loro senso logico. Eppure è inevitabile che rimanga qualcosa di incompiuto nell’estate dei Celtics, che sarebbero potuti uscire da Draft, scambi e free agent con Fultz / Butler o George / Hayward, e invece si ritrovano con un solo sicuro titolare per la prossima stagione, senza colmare del tutto il gap con chi li precede. E non si può avere davvero la certezza che tutti i giovani a disposizione, da Brown e Tatum fino alle scelte che arriveranno nei prossimi anni, li portino davvero a competere per il titolo. Il rischio che Danny Ainge perda la partita pur avendo tutti i carichi in mano rimane comunque alto — ma se avrà ragione o avrà torto lo si potrà capire solo nel giro di due o tre anni, anche perché i movimenti potrebbero essere tutt’altro che finiti. Specialmente considerando la situazione di Anthony Davis a New Orleans.
L’All-Star feticcio di Brad Stevens
Detto questo, bisogna spendere almeno qualche riga per parlare di quanto sia perfetto il fit di Gordon Hayward nei Boston Celtics, perché difficilmente si potrebbe immaginare un giocatore migliore per quello che coach Brad Stevens fa nella metà campo offensiva. Nel continuo movimento di palla da un lato all’altro del campo passando per un vortice di passaggi consegnati, blocchi e tagli, Hayward si inserisce in maniera perfetta, sfruttando l’eccellente completezza del suo gioco per nascondersi in piena vista e fungere da perfetta spalla per Isaiah Thomas, che nella scorsa — irreale — stagione troppe volte era costretto a “fare tutto da solo” per tenere in piedi l’attacco dei Celtics.
Grazie alla sua eccellente varietà di soluzioni — dal palleggio, in taglio, in uscita dai blocchi, gestendo il pick and roll, sugli scarichi: Hayward è sempre nell’80° percentile della lega — l’ex Jazz è un giocatore buono per tutte le occasioni: magari non sarà la super-mega star che crea attacco per tutti e spacca le difese andando da zero a cento in qualche frazione di secondo à la Russell Westbrook, ma per attaccare con intelligenza una difesa già mossa è uno dei migliori della pista, senza avere l’ego spropositato per richiedere tutti i possessi decisivi. Se lo scorso anno l’attacco di Boston ha chiuso all’ottavo posto per rating offensivo, è facile immaginare che l’arrivo di Hayward li porti in zona top-5.
Oltretutto, Hayward è anche un difensore estremamente versatile, potendo svariare tra le posizioni di 2 e di 3 e inserendosi perfettamente in uno schema che prevederà i cambi sistematici sui blocchi, data anche la mancanza di protettori del ferro di alto livello. La possibilità di dividere le responsabilità offensive con Thomas poi gli permetterà di metterci ancora più energia nella metà campo, senza però avere la necessità di marcare l’avversario perimetrale più pericoloso, il quale — in attesa che Jaylen Brown diventi il two-way player che tutti si aspettano a Boston — verrà preso da Jae Crowder tra le ali e da Marcus Smart tra le guardie.
Proprio da questi ultimi due nomi ci si dovrà aspettare una stagione ancora migliore rispetto al passato: l’addio a Avery Bradley, spedito a Detroit in cambio del contratto favorevolissimo di Marcus Morris (10 milioni combinati nelle prossime due stagioni), affida loro ulteriori responsabilità. Crowder sarà chiamato a giocare tanto da 4 con Horford da 5, visto che nella posizione di centro il rookie Ante Zizic non offre le garanzie immediate che ci si poteva aspettare; Smart, invece, dovrà portare le sue percentuali da 3 punti quantomeno alla rispettabilità per non essere troppo battezzabile in attacco, compromettendo le spaziature dell’intera squadra (e in difesa dovrà coprire le mancanze di Isaiah Thomas, marcando le point guard invece che gli esterni come faceva quando c’era Bradley).
Il roster messo assieme da Danny Ainge offre una varietà di soluzioni intrigantissima per Brad Stevens: basti pensare che i Celtics possono schierare un quintetto super-futuristico formato solo da ali versatili, con Hayward a gestire il pallone, le young gunz Brown e Tatum sugli esterni e Morris-Crowder come coppia di lunghi ultra-atipica (oltre ad avere un giocatore come la seconda scelta Semi Ojeleje perfetto per questo stile di gioco, ma senza il minutaggio o anche solo il posto a roster per poterlo sviluppare). Un quintetto del genere è potenzialmente in grado di cambiare su qualsiasi blocco in difesa e di produrre accoppiamenti favorevoli in quantità industriale, potendo mandare in post basso Brown, Tatum e Morris contro giocatori più piccoli (oltre ovviamente a lasciare il centro del palcoscenico a Hayward).
Strutturazioni di questo tipo e schemi difensivi aggressivi saranno necessari a tratti per minimizzare il grosso tallone d’Achille di questo roster, vale a dire la presenza in area — tanto a livello di protezione del ferro (chi è il miglior stoppatore del roster oltre a Horford… Jaylen Brown?) quanto soprattuto a rimbalzo (l’aspetto tattico sotto il quale i Cleveland Cavaliers mantengono un grosso vantaggio su questi Celtics, oltre alla possibilità di coinvolgere difensivamente Thomas in tutti i giochi a due). Per chiudere del tutto il mercato, i Celtics hanno firmato Aron Baynes con la room mid-level da 4.3 milioni: l’australiano aggiunge stazza, ma forse un lungo atletico come Dewayne Dedmon avrebbe potuto dare quella presenza sopra il ferro che manca a questo roster.
La situazione per gli Utah Jazz
Se a Boston si stappa lo champagne buono, è inevitabile che a Salt Lake City si mastichi amaro. Hayward è stato il gioiello di un progetto durato quattro anni, quelli trascorsi tra l’ultimo breve passaggio ai playoff e il ritorno in grande stile della stagione appena conclusa. In questo lasso di tempo i Jazz hanno azzeccato quasi tutto quello che si poteva azzeccare, creando un roster che aveva il pregio di non avere difetti: hanno sviluppato per bene Hayward e Rudy Gobert fino a farli diventare giocatori da All-NBA; hanno pescato bene al Draft specialmente con Rodney Hood, Trey Lyles e Dante Exum (pur con tutti i problemi di infortuni che hanno avuto); hanno colto il momento giusto per andare a prendere George Hill, un fit perfetto per il loro modo di giocare; si sono mossi in modo oculato sul mercato dei free agent prendendo giocatori con esperienza come Joe Johnson e Boris Diaw e tirando fuori un giocatore di ruolo utilissimo come Joe Ingles.
Come per tutte le squadre, ci sono state molte cose che non hanno funzionato, a partire dagli infortuni che hanno fatto deragliare le carriere di Alec Burks e Derrick Favors, o scelte sbagliate in Lottery come Trey Burke, oppure il non aver offerto a Hayward il massimo salariale da 5 anni nel 2014, lasciando che andasse sul mercato a prendere un 3+1 da Charlotte. Un errore di valutazione che è tornato ora a tormentarli in maniera feroce e per il quale si staranno maledicendo, perché l’addio di Hayward li ricaccia verso la metà bassa della Western Conference dalla quale si erano risollevati con tanto lavoro e pazienza.
Il roster comunque rimane profondo e adatto a mettere in campo di nuovo una difesa da top-5, ma senza la propria punta di diamante c’è un limite bello grosso a quello che possono fare in attacco — e questa squadra farà una fatica enorme a produrre attacco nei momenti più difficili, un difetto che li caratterizzava già quando c’era Hayward, figuriamoci senza. In un tentativo disperato di convincerlo a restare, i Jazz avevano sacrificato una prima scelta per poter prendere Ricky Rubio a gestire lo show, rifirmando anche Joe Ingles con un contratto da 50 milioni in 4 anni per ridare a Hayward uno dei suoi migliori amici in squadra. Dopo il suo addio, le speranze per poter essere di nuovo una squadra da playoff si appoggiano sulle spalle di Rudy Gobert (il miglior centro della lega nella scorsa stagione, visto che il posto nel primo quintetto All-NBA è stato preso da Anthony Davis, che con Cousins gioca da 4) ma soprattutto su quanto riusciranno a dimostrare Dante Exum e l’intrigante Donovan Mitchell, la scelta numero 13 dello scorso Draft per cui è stata spesa la 24 e sacrificato Lyles, finito in disgrazia dopo un’eccellente annata da rookie.
Con un roster del genere i Jazz sarebbero sostanzialmente certi di poter arrivare ai playoff nella Eastern Conference (e sarebbe interessante sapere cosa avrebbe scelto Hayward se i Jazz fossero stati a Est invece che a Ovest…), ma nella Western nulla viene perdonato. Facendo un rapido calcolo: i primi quattro posti sono già presi da una combinazione (l’ordine sceglietelo voi) di Warriors, Spurs, Rockets e Thunder; dietro di loro rimangono quattro posti per un sacco di squadre, a partire dai Jazz ma anche squadre che si sono mosse tanto come Clippers, Nuggets e T’Wolves, oppure squadre da playoff nella scorsa stagione come Blazers e Grizzlies, o franchigie che vogliono tornarci come Pelicans e Mavericks. Perfino i Sacramento Kings sono andati a prendere tre free agent come George Hill, Zach Randolph e Vince Carter per provare a competere subito, oltre a dare degli esempi da seguire per tutti i loro giovani. La disparità tra le due conference è un argomento molto complesso, e torneremo a trattarlo in maniera più approfondita nella newsletter Stili di Gioco.