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Foto di Streeter Lecka/Getty Images
Classificone Dario Vismara 14 marzo 2016 5'

La peggior prima scelta di sempre?

Come Anthony Bennett è finito fuori dalla NBA in meno di tre anni.

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In quella cosa strana dello sport professionistico americano che è il Draft, una delle parole più abusate in sede di analisi (postuma, of course) è quella di “bust”. Significa fallimento, disastro, in senso lato delusione. E quando un giocatore, specialmente se chiamato con le primissime scelte, fa fatica nelle prime stagioni da professionista, quelle quattro lettere vengono appiccicate a lui come un’etichetta che lo accompagna per il resto della carriera — indipendentemente dai motivi per cui le cose sono andate male.

 

Nella storia recente della NBA, i nomi dei più famosi “bust” chiamati con la prima scelta assoluta sono tutt’ora circondati dalla patina dell’infamia: provate a nominare Michael Olowokandi o Kwame Brown ai tifosi delle squadre che li hanno avuti e riceverete solo sguardi di puro disgusto. Poco importa se abbiano poi comunque costruito le loro decennali carriere (Olowokandi e anche il nostro Andrea Bargnani hanno giocato per 10 anni in NBA, Brown anche di più) o che i ripetuti infortuni abbiano impedito a Oden di far vedere di cosa era capace (perché nelle prime 21 partite del 2009-10 sembrava poter essere davvero un signor giocatore). Un bust, come i diamanti, è per sempre.

 

Sarà anche questo il destino di Anthony Bennett? In questo preciso momento, l’ex prima scelta assoluta del Draft 2013 non è che sta giocando male o sta marcendo sul fondo di una panchina NBA: è proprio fuori dalla lega. E non si capisce nemmeno se ci sarà qualcuno disposto a puntarci, né nel breve né tantomeno nel lungo periodo. Ma come si è arrivati a questo punto? Ecco i cinque passaggi con cui Bennett è diventato un bust.

 

1. Essere scelto dove non dovresti

Il problema fondamentale è che Anthony Bennett, la sera del Draft, non era nemmeno sicuro di andare alla numero 8, figuriamoci alla 1. I Cavs avevano cercato in tutti i modi di fare “trade down”, ovvero cedere la prima scelta assoluta per scendere attorno alla 4 o alla 5 e raccattare qualche altro asset da spendere in futuro, oppure scambiarla con un giocatore “pronto subito” (cercando fortissimamente di arrivare a… Kevin Love). In un altro anno ci sarebbe stata la fila per avere la prima scelta assoluta, ma quello del 2013 era veramente un Draft carogna, visto che dalla 2 alla 6 sono stati scelti buoni giocatori, ma nessun fenomeno (Victor Oladipo, Otto Porter, Cody Zeller, Alex Len, Nerlens Noel). Se quest’ultimo fosse stato sano, probabilmente sarebbe stato preso dai Cavs per aggiungere un po’ di difesa sotto canestro — ma il proprietario Dan Gilbert aveva imposto l’obbligo di puntare ai playoff, e un rookie tecnicamente grezzo con un ginocchio in frantumi non andava esattamente in questa direzione.

 

2. Iniziare (incredibilmente) male

Solo che nemmeno un 19enne sovrappeso con problemi di asma alle prese con una riabilitazione alla spalla e un ruolo non definito era particolarmente d’aiuto, e infatti Bennett ha faticato enormemente a inizio stagione (5 punti complessivi nelle prime sette partite NBA, con 1/21 al tiro). L’impressione era che Bennet non avesse veramente idea di come approcciare quello che gli stava capitando, né in campo (dove non sapeva letteralmente cosa fare, tanto in difesa quanto in attacco) né fuori, visto che era in condizioni fisiche impresentabili. Certo, non è che il resto della squadra lo aiutasse ad emergere: il leader dalla panchina era Jarrett Jack post-contrattone, insieme a Alonzo Gee, C.J. Miles e Andrew Bynum, con in panchina Mike Brown… non esattamente gli Spurs, ecco.

 

Alleghiamo prova visiva

 

3. Dare speranze (e poi disattenderle)

Ok, l’inizio non è stato incoraggiante. Diciamo anche che ci ha messo trentatré partite a raggiungere la doppia cifra, tre volte peggio della peggior altra prima scelta assoluta prima di lui. Ma da fine gennaio a inizio marzo qualcosina si era iniziato a intravedere, andando sei volte in doppia cifra, registrando anche due doppie-doppie in una striscia da 6 vittorie consecutive. In estate, poi, alla Summer League di Las Vegas sembrava poter essere un altro giocatore, tirato a lucido fisicamente (lo chassis, visto da vicino, è assolutamente impressionante) e più o meno produttivo in campo, grazie anche alla presenza della nuova prima scelta assoluta Andrew Wiggins che poteva togliergli un po’ di pressione dalle spalle (nel corso della stagione Bennett si era auto-bannato dai social network, “going ghost for a bit…”). E invece, come sempre, mai fidarsi della Summer League.

 

NUMERO UNO ASSOLUTO QUI AD ALBEROBELLO AND BEYOND pic.twitter.com/br9OHysyTm

— Dario Vismara (@Canigggia) August 18, 2014

E mai fidarsi nemmeno delle jersey che trovate in giro durante l’estate.

 

4. Cambio di scenario (affinché nulla cambi)

Nel corso di quella stessa estate, Bennett e Wiggins erano stati impacchettati e spediti in Minnesota in cambio di Kevin Love — un prezzo considerato alto per i Cavs, perché Bennett era ancora considerato come una prima scelta assoluta, e non come lo spaurito giocatore visto nella sua prima stagione NBA. Invece di migliorare, però, il cambio di scenario ha persino peggiorato la sua situazione: senza neanche la scusa degli infortuni, le prestazioni agghiaccianti in campo (solo una volta a quota 20 punti e solo 7 sopra quota 10, in 52 partite) sono diventate sempre più ingiustificabili, portando addirittura i T’Wolves — una squadra giovane che aveva tutti gli interessi a farlo crescere per tirarne fuori qualcosa — a rinunciare a lui in estate, tagliandolo senza pietà alla fine del suo secondo anno NBA.

 

5. Provarci a casa (senza riuscirci nemmeno lì)

Una discreta estate con la Nazionale canadese nei giochi Pan-Americani aveva convinto i Raptors a dare una chance al prodotto di casa, visto che Bennett è nativo di Toronto e nel ruolo di 4 non erano convintissimi né di Luis Scola né di Patrick Patterson. Risultato? Nemmeno lì ha funzionato, visto che coach Casey solo una volta gli ha concesso 17 minuti (3 punti e 3 rimbalzi contro i New York Knicks) e per 39 volte non lo ha nemmeno fatto scendere in campo per un secondo. La situazione era talmente compromessa che è stato lo stesso Bennett a chiedere di essere mandato a giocare in D-League, ma nelle sei partite disputate non è neanche riuscito a raggiungere la doppia cifra di media. A fine febbraio i Raptors hanno deciso di tagliarlo (nonostante il contratto costasse meno di un milione) e ora Anthony Bennett — ex prima scelta assoluta come Kyrie Irving, Anthony Davis, Andrew Wiggins e Karl-Anthony Towns, giusto per citare gli ultimi prima e dopo di lui — è senza squadra, tanto da tornare ad allenarsi a UNLV.

 

bennet1

 

Il suo obiettivo ora può solo essere quello di ritrovare fiducia nei propri mezzi e minutaggio in campo ricostruendosi una carriera lontano dalla NBA, con l’obiettivo di tornarci una volta ridefinito da capo il proprio gioco — diventando un 4 capace di cambiare sui piccoli in difesa e di aprire il campo in attacco, con dosi massicce di energia e intensità per mascherare le mancanze tecnico-tattiche — e lasciando da parte qualsiasi speranza di mantenere le aspettative della posizione in cui è stato scelto. Non sarà per nulla facile, ma è l’unico modo per evitare che il suo nome venga ricordato per sempre come la peggior prima scelta assoluta di tutti i tempi.

 

 

Tags : Anthony Bennettcleveland cavaliersdraft nbanba

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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