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Dario Vismara
La mina vagante della Eastern Conference
23 mar 2017
23 mar 2017
Nessuno vuole incontrare i Miami Heat di Erik Spoelstra ai playoff.
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Dario Vismara
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Se i Miami Heat avessero deciso di “dare su” questa stagione, nessuno avrebbe potuto fargliene una colpa.

 

All’Anno I Post Dwyane Wade, avendo perso Chris Bosh prima ancora di iniziare il training camp, con un record di 11-30 nella prima metà di stagione e il giocatore più futuribile del roster (Justise Winslow) fuori per il resto della stagione, gli Heat avrebbero potuto benissimo dire: sapete che c’è? Cediamo i giocatori che interessano a qualcuno da qui alla deadline e ci prepariamo per il tanking, visto che la scelta 2017 — in un Draft che si preannuncia

— è totalmente sotto il nostro controllo, cosa che invece non si può dire di quelle 2018 (protetta 1-7, altrimenti a Phoenix), 2019 (a Phoenix senza protezioni nel caso in cui non sia stata spedita l’anno precedente) e 2021 (anche questa a Phoenix senza protezioni grazie alla trade per Goran Dragic).

 

E invece i Miami Heat dal 17 gennaio, rientrando da un terribile tour a Ovest da cinque sconfitte in sei gare, hanno inanellato una impronosticabile striscia di 13 vittorie consecutive diventate poi 24 nelle ultime 30, raccogliendo gli scalpi eccellenti di Golden State, Cleveland (due volte), Houston (due volte), Toronto e Atlanta (due volte). In poco più di due mesi gli Heat hanno trasformato le loro chance di playoff dallo 0,03% di metà gennaio all’attuale 76% (secondo

), guadagnandosi addirittura il 2% di possibilità di vincere il titolo. Prima di arrivare alla boa di metà stagione gli Heat erano 24esimi per Net Rating (-4.4 punti di differenziale tra segnati e subiti su 100 possessi) per colpa soprattutto del secondo peggior attacco della NBA (100.6, dietro solo agli inarrivabili Brooklyn Nets), visto che la difesa era comunque dignitosamente al 12° posto con 105 punti concessi su 100 possessi.

 

Nelle ultime 30 gare invece gli Heat sono secondi per Net Rating (+8.5) alle spalle solamente dei Golden State Warriors, sempre potendo contare su un’eccellente difesa (102.8, terza) ma soprattutto il 5° miglior attacco della lega a 111.3 di rating offensivo. Questo significa che siano la seconda miglior squadra della NBA e che ci sia una nuova

in città? No, ovviamente. Ma sono numeri che fanno abbastanza paura a tutte le squadre con fattore campo ai playoff, visto che l’accoppiamento con gli uomini di Erik Spoelstra appare come il più complicato fra tutti quelli dell’eventuale primo turno della Eastern Conference.

 

 



 

Proprio di Erik Spoelstra bisogna parlare per comprendere al meglio l’evoluzione dei Miami Heat in questa stagione. Il due volte campione NBA in questa stagione ha semplicemente dipinto la Cappella Sistina della sua carriera da capo-allenatore, prendendo una squadra piena di seconde scelte, gente non chiamata al Draft,

che non avevano mai trovato un senso nella lega e giocatori con contratti annuali in cerca di una chance e trasformandola in un gruppo di Bad Motherfuckers che rendono la vita impossibile agli avversari per 48 minuti. Un gruppo di

che sembrano essere stati investiti da un temporale, anche se qui non c’è nessun superpotere come nella serie TV: c’è cultura del lavoro, abnegazione, esecuzione, dedizione alla causa e altruismo. Tutti gli elementi che una squadra con poco talento

necessariamente avere se vuole darsi una possibilità di vittoria nella NBA.

 

Affrontare gli Heat è una sfida tanto fisica quanto mentale: le squadre avversarie — forse partendo dall’etichetta sbagliata che la squadra sfiduciata di inizio anno si è ritrovata addosso o per la sinistra tendenza a guardare solo il record “sub .500” quando si affronta l’ennesima partita dell’estenuante regular season da 82 partite — non sono abituate ad affrontare un gruppo di giocatori che non molla veramente

. Gli Heat di Spoelstra sono sempre in movimento, sempre pronti, sempre concentrati, non si lasciano “morire” sui blocchi (anzi, danno battaglia e cercano sempre di passare sopra), usano tantissimo le mani ed eseguono uno spartito mandato a memoria, perfettamente consci del loro ruolo nello spartito generale della squadra e di quello che viene loro richiesto.



 

 





Gli Heat riescono in tutto questo grazie a una condizione fisico-atletica spaventosa: da sempre Spoelstra e soprattutto Pat Riley sono ossessivi sulla forma che

i loro giocatori devono avere, spingendoli a dimezzare la propria massa grassa (Wade e James ai tempi facevano a gara a chi ne aveva di meno…) e a essere sempre e comunque al top della propria condizione. In questo

del

, il giornalista Manny Navarro si è fatto raccontare da James Johnson come la sua stagione (e in generale la sua carriera, ma ci arriviamo dopo) abbia svoltato dopo aver perso più di 18 chili da quando è arrivato a Miami, sbloccando quelle abilità che tutti hanno sempre intravisto nel suo gioco ma che nessuno era riuscito a fargli mettere assieme in questa maniera.


 

 

Pur avendo perso peso, James Johnson ora ha la prestanza fisica e la reattività atletica per poter fare a sportellate contro DeMarcus Freakin’ Cousins che cerca di prendere posizione sotto canestro.




In questa

Mike Prada di

mostra possesso dopo possesso come la superiore prestanza fisico-atletica degli Heat si trasformi in un vantaggio competitivo sui due lati del campo, perché anche in attacco permette loro di essere più veloci, di tagliare più forte, di prendere decisioni più rapidamente e di creare o non perdere i vantaggi creati da un sistema di gioco che rimane sempre lo stesso pur riuscendo continuamente ad innovarsi. Soprattutto, arrivati all’ultimo quarto sono ancora atleticamente brillanti mentre gli avversari vengono strangolati dalla loro difesa, la migliore della NBA (100.2 di rating difensivo) nell’ultimo periodo delle gare.



 

 



 

 



 

Spoelstra è sempre stato creativo con i suoi set offensivi, pur mettendoci un po’ di tempo nel corso della stagione per tirare fuori dalla sua officina la giusta combinazione per sbloccare il potenziale della squadra. Dopo vari tentativi ed esperimenti — anche complice l’infortunio di Winslow e il ritorno di Dion Waiters dopo aver saltato le prime 20 partite — il coaching staff ha trovato il giusto equilibrio sfruttando un quintetto base con due

primari che non si fanno problemi a cedere i compiti di creazione al compagno (Goran Dragic e lo stesso Waiters), due giocatori deputati a giocare negli spazi o stazionare sul perimetro come Rodney McGruder (una delle mille pesche miracolose dalla D-League degli Heat) e Luke Babbit (nel posto di “stretch 4” che avrebbe dovuto essere di Josh McRoberts, ma senza le sue doti di passatore) e in mezzo nel ruolo di “centro-boa” Hassan Whiteside, destinatario dei palloni dei compagni e àncora difensiva a centro area.

 

È quando scende in campo la panchina però che comincia il vero divertimento, ovverosia quando entrano Tyler Johnson e Josh Richardson (due guardie intercambiabili che sono al loro meglio lontano dalla palla e danno battaglia su ogni-singolo-dannato-blocco e contestano ogni-singolo-dannato-tiro), il tiratore instancabile Wayne Ellington (42% da tre nelle ultime 30 gare su 7 tentativi a partita, scomodando addirittura set offensivi pensati

), un lungo di sostanza come Willie Reed e soprattutto James Johnson come portatore di palla. L’esperienza di “JJ” come leader della

e come 4-buono-per-tutte-le-occasioni insieme ai titolari è una delle cose più esaltanti e divertenti che si siano viste in questa stagione: arrivato a Miami praticamente da scappato di casa (sei squadre in otto anni di NBA) pur essendo un mini-giocatore di culto per gli appassionati del genere “Ala Atletica Senza Tiro Ma Con Palleggio e Visioni”, Johnson ha meravigliosamente messo assieme tutto il suo repertorio e si è trasformato in un più che serio candidato al premio di Sesto Uomo dell’Anno, inserendosi alla perfezione nel sistema di Spoelstra tanto lontano dalla palla quanto soprattutto quando è lui a orchestrare l’attacco e far felici i compagni.

 


 

 

Pick and roll in semi-transizione con Dragic da bloccante e palla alzata per Whiteside: check. La capacità di Dragic di rendersi disponibile anche a giocate del genere denota il suo ruolo sempre più centrale negli schemi degli Heat anche quando non ha la palla




 



 

Gli Heat possiedono l’eccellente capacità di tirare un alto numero di triple (erano 26.6 su 100 possessi prima di metà febbraio, sono diventate 29.5 dopo sfiorando il 40%, miglior percentuale in NBA) e allo stesso tempo di concederne poche in difesa (22.4 a partita, nessuno meglio di loro), giocando quel tipo di pallacanestro formata da continui penetrazione-e-scarica che rende tantissimo nel corso della regular season, quando le difese sono più rilassate e hanno meno tempo per prepararsi e togliere le migliori situazioni offensive agli avversari.

 

I dubbi sulle loro reali possibilità si manifestano proprio quando si prova a immaginare come il loro gioco possa traslarsi ai playoff, quando il pallone tende a muoversi sempre di meno (specie con l’avanzare della serie, quando le squadre non hanno più segreti le une per le altre) e c’è bisogno delle superstar che creano vantaggi per il solo fatto di essere in campo o che sono in grado di caricarsi la squadra sulle spalle quando l’attacco organizzato non ha portato da nessuna parte. Gli Heat, sotto questo aspetto, possono affidarsi solamente alle doti di

di Goran Dragic e Dion Waiters, che per motivi diversi stanno attraversando una delle loro migliori stagioni della carriera (lo sloveno è diabolico con la sua capacità di prendere le decisioni giuste anche al massimo della velocità) ma che devono ancora dimostrare di poter essere quei tipi di giocatori anche ai playoff.

 

La recente sconfitta contro i Portland Trail Blazers, poi, ha esposto un difetto strutturale — anche questo

— che può rivelarsi fatale in primavera: la pigrizia di Hassan Whiteside nei pick and roll alti, la situazione di gioco in assoluto più utilizzata durante i playoff. È pur vero che Damian Lillard ha trovato una serata a dir poco straordinaria da tre punti (9/12 per 49 punti alla fine), punendo ripetutamente dalla lunga distanza anche con un solo palleggio per mettersi in ritmo e le tremende guardie degli Heat a fargli sentire il fiato sul collo, ma Whiteside ha sulla coscienza il suo essere entrato “on fire” rimanendo ancorato coi piedi ben lontani dalla linea da tre punti.


 

 

E quando ha provato a uscire non è che le cose siano andate meglio.




Un difetto che si era già notato

e che equivale a morte certa quando si incontrano gli Irving, Thomas, Beal e Lowry delle prime quattro della Eastern Conference. Sulla carta Spoelstra ha per le mani gli atleti necessari per schierare un quintetto in grado di cambiare su tutti i blocchi con Dragic, Waiters, Richardson (o Ellington), Tyler e James Johnson, così come aveva già fatto lo scorso anno schierando Winslow praticamente da centro con le

, ma una strutturazione del genere rimane comunque un azzardo sul lungo periodo vista la mancanza di protezione del ferro e di copertura a rimbalzo difensivo.

 

Ma queste sono tutte questioni per i playoff — ancora tutti da conquistare: il vantaggio su Detroit nona in classifica è solo di una partita e Waiters è alle prese con una caviglia malconcia — e siamo sicuri che tutti i tifosi degli Heat non avrebbero mai neanche immaginato di ritrovarsi a questo punto della stagione a pensare alla post-season invece che alla Lottery di maggio. E se un cinico potrebbe commentare dicendo che sul lungo periodo forse prendere un giocatore da questo Draft così profondo sarebbe potuto essere lo scenario più auspicabile per Miami — invece che una probabile uscita al primo, o anche che in estate James Johnson e Dion Waiters potrebbero richiedere gran parte dello spazio salariale liberato dalla

—, la realtà ci ha regalato una delle storie più improbabili e allo stesso tempo più straordinarie di questa stagione NBA, nonché un lavoro di

che certifica il posto di Erik Spoelstra nella Hall of Fame di Springfield quando la sua carriera sarà finita.

 

 

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