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Giulio D'Antona

Guida ufficiosa al Sei Nazioni

Dopo due partite del torneo più importante del rugby continentale, delineiamo un profilo della nostra…

Se esistesse un sacchetto abbastanza grande da contenerli e si potessero insacchettare e mischiare tutti i giocatori impegnati nel Sei Nazioni, sbatterli per un buon quarto d’ora, centrifugarli e infine versarli in sei contenitori—uno per squadra—in maniera casuale, probabilmente i rapporti di forza che otterremmo sarebbero esattamente identici a quelli che ogni anno troviamo sul piatto a metà torneo. Diversi a ogni giro, ma in qualche modo in equilibrio tra loro lungo una linea di miglioramento graduale che tutte le squadre rispettano in maniera esponenziale senza eguagliarsi mai.

Parlare dell’Italia al Sei Nazioni prima dell’inizio del torneo, senza cioè averla mai vista veramente in campo nella sua formazione completa, basandosi sui pezzi messi assieme dai risultati delle due squadre che giocano nei tornei internazionali, è difficile. Ma con due partite alle spalle, con tutte le carte allineate, le posizioni determinate e collaudate, si può facilmente delineare un profilo della Nazionale e supporre quale sarà il suo destino per le tre partite rimanenti.

Non c’è modo migliore di farlo se non analizzando il rapporto con gli avversari che—alla fine dei conti—sono l’unica variabile determinante nell’andamento del torneo.

 

 

ITALIA

L’Italia di quest’anno è piuttosto inedita. Brunel si è deciso a mettere da parte le vecchie glorie che ormai mangiano il campo con la lentezza di chi è già completamente sazio e ha perso la voracità delle prime portate. Al netto dei nomi che ancora galleggiano sul carisma, naturalmente. Quello che ne è uscito è una specie di plotone di fuoco che la stampa ha battezzato Ragazzi del ’90—in uno slancio di lirismo bellico che almeno all’inizio ha fatto tremare i superstiziosi. Però i Ragazzi del ’90 stanno dando prova che l’assioma della molla caricata funziona: se si lasciano crescere le aspettative, si reprime la necessità di scendere in campo per un periodo sufficientemente lungo—ma non tanto da affievolire le forze—e poi si molla di colpo la presa, si finisce per scatenare una potenza inaspettata. Così Michele Campagnaro, che debutta nel torneo con soli tre caps alle spalle, finisce per rivelarsi per quello che è: un animale esplosivo in grado di infilare due mete al Galles nella prima gara.

In prima linea, se da una parte Castrogiovanni fornisce un apporto di immagine più che di gioco—è ormai appurato, quanto naturale, che dia tutto quello che ha nei primi dieci minuti e poi si ritrovi a ciondolare per il campo senza troppa incisività—De Marchi (che è del ’86), Cittadini e Rizzo (di corso leggermente più lungo) sembrano essere ottimi rincalzi più o meno in ogni momento ci sia bisogno di loro. Ghilardini, con 56 caps, non è più materia di analisi e per ora Giazzon non sembra fare grande differenza al tallonaggio. In seconda linea ci sono Geldenhuys, che personalmente non mi è mai piaciuto ma su cui Brunel e la FIR puntano moltissimo, Pavanello, che invece mi piace molto e che fornisce un lavoro tecnico quasi sempre impeccabile, e un redivivo Marco Bortolami, ripescato—con tutto l’onore che merita—più per fargli appuntare sul petto il centesimo cap che per una reale necessità tattica.

La terza linea merita decisamente un paragrafo a sé. Quando ho visto che la formazione di debutto prevedeva la presenza di Mauro Bergamasco, ammetto di aver storto il naso. Anzi, mi devo essere lasciato andare in qualche commento ben più antipatico, perché c’è chi me lo rinfaccia ancora. Però a distanza di due partite devo dire che l’operazione di recupero del fratello più vecchio—ora arricchito di un bel paio di baffi a scomparsa—sta assumendo un senso, e il senso è quello di valorizzare le nuove terze lasciando sfogare a Mauro gli ultimi ruggiti, per lo meno sul fronte difensivo. Barbieri, Derbyshire e Minto sono volti, e soprattutto gambe e spalle, già noti, ma che in qualche modo erano rimasti incastrati tra gli ingranaggi delle convocazioni e l’attenzione della critica sportiva, sempre più orientata su chi segna le mete di tuffo più che su chi fa il lavoro sporco nelle retrovie. Le nostre terze linee, di stampo canadese, toscano e veneto, sono abituate al buio dei ruck quanto i minatori sono abituati all’umidità delle viscere della terra. Al numero otto c’è il solito Sergio Parisse—che ha dimostrato meglio di chiunque altro quanto sia inutile parlare di chi si trova già al massimo della forma, fisica e mentale—poi Zanni e finalmente una delle rivelazioni più interessanti di questi ultimi tempi: Joshua Furno. Va e viene dalla Nazionale dal 2011 e ha collezionato 15 caps, ma il suo debutto ufficiale è segnato contro la Scozia nel 2012, una bella vittoria che oltretutto lo ha incoronato portafortuna. Furno ha iniziato il Sei Nazioni in maniera grandiosa—in seconda linea a vantaggio del capitano—facendo un lavoro di pulizia dei raggruppamenti degno di una squadra di spurgo industriale e guadagnando ogni volta diversi metri di palle talmente pulite da luccicare negli occhi degli spettatori.

 

La mediana italiana, va detto, ha sempre qualche problema e quest’anno non fa eccezione. Né Gori, né Botes mi hanno mai convinto fino in fondo. Il primo sembra essere troppo attratto dai raggruppamenti e poco preciso sull’apertura, ma è forse un problema che fa parte della difficoltà di avere palloni veramente di qualità da un gioco che, volenti o nolenti, è quasi sempre di arretramento. Il secondo arriva di rincalzo di solito quando la partita è decisa, e quindi non ha mai il tempo materiale per mettere il proprio marchio sul risultato. All’apertura, Luciano Orquera ha dato moltissimo negli ultimi tempi, ma si trova in una posizione difficile e presa forse un po’ troppo tardi in carriera. A parte i calci—che hanno una quadra che noi non abbiamo più trovato dai tempi di Diego Dominguez—Orquera fa il possibile per fornire ai trequarti una trasmissione convincente ma, di nuovo per un problema difensivo, raramente ci riesce. C’è da dire che l’astuzia di Brunel ha voluto che all’apertura partisse sempre Tommaso Allan, assicurando una maggiore velocità di esecuzione e garantendo un ottimo dialogo—se non altro generazionale—con le retrovie. Allan è frutto di una contesa, e la porta tutta sulle spalle. Di padre scozzese e madre italiana, ha militato fino all’Under 20 nella Scozia, salvo poi far valere il doppio passaporto e cambiare bandiera alla vigilia degli scorsi test match di autunno. È giovane e altalenante, anche se può facilmente essere assimilato al nuovo e positivo corso, e per ora non ha azzeccato un granché in fatto di calci. Però ha saputo inventare bene il gioco alla mano e sembra cominciare a prendere confidenza con gli schemi elaborati e costruiti sull’accrescimento dei fondamentali.

C’è una specie di malocchio che grava sulla nostra Nazionale dai tempi del primo Sei Nazioni, quello del 2000: si chiama gioco di mischia e non riusciamo a farci una ragione del fatto che, pur avendo funzionato in più occasioni, il nuovo rugby richiede un adeguamento delle competenze. La fortuna che fin ora abbiamo avuto è quella di trovarci di fronte squadre incapaci di staccarsi dalla vecchia scuola europea ma quest’anno, quando anche l’Irlanda e il Galles sembrano essersi fatti forti di una buona forza esplosiva, ci troviamo svantaggiati dalla nostra passione per il gioco di posizionamento. Dall’altra parte, Brunel—che comincio a credere abbia le idee più chiare di quanto avessi mai pensato—ha messo in asse una linea trequarti migliore di qualsiasi altra si sia vista nei tornei passati. Al centro Benvenuti, Sgarbi e García fanno da cassa di risonanza al già citato Campagnaro che porta la bandiera dei Ragazzi del ’90, scatenati sulle ali con Esposito, Iannone e all’occorrenza Sarto. La forza del dualismo centri/ali sta in parte nel fatto che lo spirito di iniziativa dei più giovani sta determinando un deciso cambio di fronte rispetto alla solita spinta di mischia, che comunque non funziona più, e in parte nel fatto che il gioco è determinato solo al 50% dalle scelte della propria squadra. Il resto del lavoro lo fa la squadra avversaria e questo è l’anno del calciare e correre.

In fondo, in posizione di estremo, sta Luke McLean—e Palazzano, che però non ha ancora esordito. È un giocatore che non ho ben afferrato, ha dei momenti di grandiosa iniziativa in cui è capace di impostare il passo e portarsi fino ai 22 avversari in un’unica mossa cominciata sulla propria linea di meta, che però alterna a momenti di confusione disordinata e scellerata pazzia. Cose che in un gioco ordinato e regolato come il rugby non possono che portare guai.

 

 

GALLES

Se avessimo giocato più tardi nel torneo la nostra partita col Galles, avremmo probabilmente vinto. Il Galles di quest’anno è una squadra che si è presentata con il dichiarato intento di intascare il quarto trofeo, magari con un Grande Slam tanto ambizioso quanto improbabile. E il Galles che si è trovato contro l’Italia nella prima giornata era una squadra che ancora viveva e vibrava di queste premesse.

Quello che sono stati in grado di fare i gallesi sotto la guida di Gatland, è stato valorizzare il gioco dei trequarti, in grado di partorire almeno tre ali tra le più forti del mondo—Gavin Henson, Shane Williams e George North—e un estremo che potrebbe fondare una franchigia per conto suo: Leigh Halfpenny. La quadra riuscita nei tornei precedenti, quella del Grande Slam del 2008 e del 2012, è che questo reparto arretrato non è mai entrato in conflitto con la preponderanza della mischia, merito anche di giocatori di lungo corso ed enorme prestanza come il capitano Alun Wyn Jones, in seconda linea. La palla usciva pulita dai raggruppamenti, faceva tutta la strada possibile verso la fascia aperta e l’ala sgroppava come un purosangue al Kentucky Derby.

Ora qualcosa ha smesso di funzionare. Quello che si è visto soprattutto contro l’Irlanda, ma anche contro l’Italia, e che sono pronto a scommettere ci sarà nelle prossime partite, è che né Halfpenny, né North riescono più a farsi strada. La sensazione è che troppe cose vengano date per scontate e che conti più l’orgoglio dei dragoni che il gioco sul campo. Se l’Italia avesse avuto il fiato per farlo, avrebbe potuto sfruttare la défaillance della partita di apertura per infliggere subito l’ottima lezione a cui ha pensato poi un’Irlanda in stato di grazia. Ma come i gallesi non si aspettavano di trovarsi contro una squadra azzurra così ben organizzata, noi non siamo ancora pronti per cogliere le occasioni al volo—ed esorcizzare la sfortuna—contro le stime e le previsioni che il Galles portava con sé.

 

 

 

FRANCIA

La Francia presenta, per l’Italia, il problema diametralmente opposto rispetto al Galles. L’errore che ha portato alla rovinosa sconfitta nella seconda partita è stato di nuovo di valutazione, ma se contro i gallesi non siamo stati in grado di finire una bestia ferita e disorientata, contro i francesi siamo arrivati pensando di avere la pelle dell’orso già sulle spalle. Il fatto di aver portato a casa il Trofeo Garibaldi una volta non può bastare a fomentare la convinzione di poterlo mettere sotto chiave. Anzi, dovrebbe stimolare a difenderlo con quanta più forza possibile, sempre considerato che nel rugby generalmente la squadra più forte vince.

La Francia di quest’anno è una squadra che ha avuto il lampo di iniziativa di rendere all’Inghilterra quello che aveva subito per settanta minuti, negli ultimi cinque della partita di apertura. La Francia dello scorso anno era una Francia che viveva dei propri ricordi, aveva cambiato il 70% della rosa e mandato in pensione le proprie colonne portanti solo poche settimane prima dell’inizio del torneo. Sarebbe stato logico pensare che sarebbero venuti per rifarsi e non per ripetersi. Abbiamo preferito pensare che andata bene una volta, sarebbe andata bene sempre, e abbiamo provato sui denti quella che nello sport è conosciuta come rivincita, ma nella vita è conosciuta come vendetta.

I giocatori francesi poi, sono un caso a parte e per loro natura portati a gestire da soli la palla, senza troppo puntare sui quattordici di sostegno. Chi ha dato e darà problemi in questo Sei Nazioni è già noto ai più: tanto per cominciare Yoann Huget, relativamente pochi caps con la Nazionale (23) e il fisico di una terza linea che per qualche ragione è finita all’estremo. È decisamente l’uomo chiave della Francia che, senza troppi misteri, punta alla vittoria più completa che può strappare. Poi risalendo, Mathieu Bastareaud. 1,83 per 120kg—stando alle fonti ufficiali, quindi facilmente sottostimati di una decina. Come mettere un armadio a motore al centro e incollargli il pallone addosso, per fortuna con molta esplosività e poco fiato. E infine Wesley Fofana, che oltre alla prestanza ha la velocità, l’inventiva e la mobilità di un pupazzo snodabile.

 

 

 

SCOZIA

Ecco, la Scozia è una squadra che risente talmente tanto delle fortune stagionali da essere l’unico tassello veramente imprevedibile del torneo. Fortunatamente—per noi, ma non per loro—quest’anno ha già messo tutta la testa contro Irlanda e Inghilterra. Tornando entrambe le volte a casa a pensarci sopra, come avrebbe dovuto fare l’orgoglioso Re Edward dell’inno, ma che ora sta probabilmente accarezzando la Calcutta Cup, ottenuta con uno sforzo minimo e dovuto più a un terreno insidioso che all’insidia scozzese.

Noi ce la vedremo con la Scozia a Roma. Altro punto a favore, perché se c’è una cosa di cui risentono i crociati è la pressione di un pubblico ostile. Imparassimo anche a farglielo pesare dagli spalti saremmo a posto. Di preoccupante ci sono Sean Lamont e il solito Laidlaw, poi una serie di giovani piuttosto imprevedibili ma che per ora non hanno aggiunto molto al gioco di posizionamento tipico dell’unica squadra legata ancora così strettamente al rugby all’europea. Forse mettendo il piede sull’acceleratore e mettendo la testa sul gioco di calci, che la Scozia ha sempre padroneggiato abbastanza bene, potremo avere la meglio. Sempre considerando che la combattività è qualcosa a cui loro sono abituati e noi dobbiamo ancora considerare come parte integrante del nostro gioco, ma—per rubare un’analogia a quel genio di Vittorio Munari—«come si fa a mandare avanti quelli con le cornamuse quando gli altri hanno la cavalleria pesante?»

 

 

 

IRLANDA

C’è una cosa che mi ricordo dell’Irlanda degli anni passati e che è sempre stato il punto carente, l’anello debole su cui scaricare tutta l’artiglieria: la disciplina. Per sua natura l’Irlanda è una squadra indisciplinata, buttata in mezzo al campo per prendere quello che viene senza troppo mettere la testa sul quadro generale. Punto dopo punto, da qualsiasi parte possa arrivare. Poi il fatto di mettere al centro della squadra gli indubbi talenti naturali passeggeri—leggi alla voce Ronan O’Gara o Peter Stringer—serviva in qualche modo a togliere dalle spalle dei compagni la responsabilità della vittoria o della sconfitta. Tutto questo non esiste più, o quasi.

Al centro della formazione c’è un marinaio di lunghissimo corso, Brian “God” O’Driscoll, che contrariamente a quello che succede di solito ha ancora lo sguardo determinato e—permettete—le palle per portare avanti una compagine che ha messo tutte le proprie energie nello sforzo di trovare un obiettivo comune. Ritagliarselo, prenderselo e non mollarlo più. Allora forse adesso è il caso di pensare all’Irlanda come a una squadra di punta del torneo, e non solo perché nel silenzio stupefatto dell’Aviva Stadium di Dublino è arrivata a un soffio dal portare via la stagione perfetta da sotto i piedi degli All Blacks—e non ci è riuscita per casualità più che per mancanza. È il caso di riposizionarla perché, con una lucidità che poche altre squadre nella stessa condizione hanno avuto, è stata in grado di sottolineare uno per uno i difetti della favorita—il Galles—e sfruttarli a suo vantaggio, davanti allo stesso Aviva Stadium di cui sopra. Non stupefatto, convinto e unito.

Per quanto non sia mai stato nella mia rosa dei preferiti per l’atteggiamento, Jonathan Sexton è un fenomeno. Perfettamente calato nella parte dell’apertura dal passaggio teso e preciso, calciando centrerebbe un secchio sulle gradinate e non starebbe nemmeno a guardare se è entrata—l’atteggiamento appunto. Contando che il primo centro, appena dietro di lui, è proprio quello che chiamano Dio, e che la mediana italiana non è certo la migliore e più veloce sulla piazza, potremmo trovarci piuttosto nei guai. Allo stesso tempo la prima linea irlandese è fatta di personaggi sinistri, su tutti una bestia da 67 caps come Rory Best al tallonaggio, e potrebbe offrire la giusta dose di finestre e di occasioni per calciare e rifiatare necessarie a crearsi un margine di sfiancamento. Se solo sapremo sfruttarle, anche considerato che questa Irlanda può andare a caccia dello Slam, dopo la Triple Crown.

 

 

 

INGHILTERRA

I detti popolari non mi sono mai piaciuti, ma ce n’è uno che dice «non svegliare il can che dorme». C’è un cane piuttosto grosso, brutto e bavoso che ha dormito per un po’, poi si è svegliato ma non era molto in sé. Poi ha fatto un periodo dentro e fuori da stati di sonno leggero, per cui se lo si prendeva nel momento buono era docile e pacioso, se lo si prendeva nel momento sbagliato mordeva come un bastardo. Ecco, il detto sul fatto di non andare a toccarlo se dorme si adatta perfettamente alla situazione dell’Inghilterra, che adesso sembra essersi svegliata del tutto ed essere ben determinata a mordere. O per lo meno a inzaccherare tutto di bava viscida.

Nel 2011 sembrava tutto a posto, il bulldog scorrazzava di qui e di là per il campo a caccia di palloni. Poi aveva dietro un cecchino maledetto che avrebbe centrato i pali da un piper in volo e senza colpo ferire si sono portati a casa il torneo. Poi qualcuno ha deciso di cambiare tutto, a partire dall’allenatore, il cecchino—leggi Johnny Wilkinson—si è ritirato e sono comparsi un sacco di giovanotti con poca testa e tante gambe, ma non molto in grado di gestire le situazioni di pressione. E allora per un paio di giri il cagnaccio si è riaddormentato. Anzi sembrava fosse andato in coma. Quest’anno quei giovanotti hanno trovato l’unità e si sono messi di buzzo buono per dare rotondità a un gioco che è costretto a cambiare per adattarsi alle nuove tendenze internazionali. Basta fasi di rallentamento, fare girare il pallone, farlo correre alle ali e mettere i centri in posizione di penetrazione come se avessero i razzi sulle chiappe.

Il numero medio di caps si è ridotto considerevolmente rispetto all’ultimo torneo vinto, ma ora molti dei giocatori hanno raggiunto le due cifre. Quello con più esperienza in Nazionale rimane Dylan Hartley, e sono “solamente” 52, però tra i meno navigati ci sono degli ottimi teorici del “prendi la palla e portala in meta”. I fratelli Vunipola, ad esempio, che malgrado giochino ai due estremi opposti della mischia, sembrano facilmente intercambiabili e ugualmente pericolosi, ma anche Mike Brown, all’estremo. Quello che è stato in grado di fare l’Inghilterra è prendere una condizione pericolosa e pericolante e rigirarla a proprio vantaggio. Si cambia tutto? E allora cambiamo tutto, adeguiamo il gioco a quello del sud del mondo prima che lo facciano tutti gli altri. E se prima era una questione di metri mangiati via passo dopo passo, ora si tratta di volare lungo le fasce e mandare a vuoto quanti più placcaggi possibile. Questo è il cane che non conveniva svegliare. Come si mette per noi? Male, è inutile mentire. Con l’Inghilterra lo scorso anno abbiamo rischiato di spuntarla e l’anno prima ci è andata anche meglio. Ma il cane era ancora un po’ disorientato, ora è completamente sveglio. E morde.

 

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Giulio D'Antona. Milano, 1984. Giornalista culturale in senso ampio. Ha fondato Cadillac Magazine, scritto documentari e parlato in radio. Adesso cura la pagina culturale de Linkiesta e scrive sceneggiature per Topolino.