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Sebastian Vettel, pilota fragile
19 mag 2020
19 mag 2020
L'esperienza del pilota tedesco in Ferrari è finita tra molte ombre.
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19 min
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Lo scorso 5 settembre, a Monza, Sebastian Vettel e Charles Leclerc si sono concessi per la consueta apparizione in pubblico alla vigilia del Gran Premio di casa Ferrari. Prima di quel momento Vettel aveva avuto sempre un occhio di riguardo da parte del pubblico ferrarista. La padronanza dell’italiano acquisita in 18 mesi di militanza in Toro Rosso, insieme alla sua espressione da bravo ragazzo avevano permesso infatti al pilota tedesco di fare rapidamente breccia nel cuore dei fan del "cavallino rampante". Quando giunge a Monza nel 2019, però, Vettel sente che qualcosa è cambiato. Con qualche mese di ritardo Leclerc è appena riuscito a conquistare la sua prima vittoria in Ferrari, a Spa, e nell'aria si sente un sentimento diverso. Lo si capiva persino dalla mimica del corpo di Vettel, che da solo trasmetteva la consapevolezza di non essere più il vero punto di riferimento in squadra, una malinconia che in un certo senso presagiva il mancato rinnovo oltre il 2020. Quello che è accaduto due giorni dopo in qualifica, con la sua pubblica accusa nei confronti di Leclerc, ha irreversibilmente segnato la loro convivenza in Ferrari.

Forse, nonostante l’amore originario per la semplicità di Vettel, la spaccatura nel tifo Ferrari dipende dal fatto che Leclerc è, tra i piloti contemporanei, quello che più si avvicina all’epoca classica della Rossa: Leclerc non solo parla perfettamente italiano ma è anche di Montecarlo, cosa che da sola gli conferisce un'aura nobile confermata anche dal suo carisma quasi da divo. In più è il prodotto più riuscito della Ferrari Driver Academy e sarà il primo pilota fatto in casa a giocarsi il Mondiale di Formula 1 con la Ferrari. Insomma, era quasi naturale che diventasse un feticcio dei tifosi.

Con Leclerc a Maranello c'è stata una specie di anacronistico ritorno il passato, una direzione più orientata alla produzione interna del campione piuttosto che all’acquisto di quelli già esperti e affermati, anche se da fuori sembra più un caso isolato che una vera e propria policy aziendale. Quello che più interessa ai fini del nostro discorso, però, è che Leclerc è sembrato minacciare il posto a Vettel ancora prima di entrare in Ferrari. Ancora prima, quindi, della scelta di John Elkan di puntare su di lui come pilota di punta (e di affiancarlo a Sainz dopo il rifiuto di Hamilton, secondo alcune ricostruzioni autorevoli). È stata infatti la sua repentina crescita in Formula 1 ad aver eroso lentamente e gradualmente le certezze personali di Vettel, accentuandole.

Leclerc, insomma, sembra essere la rappresentazione vivente di quello che Vettel non è mai riuscito ad essere. E cioè un pilota che, crescendo, è riuscito a superare i suoi limiti originari, messi in mostra nelle formule minori e nei primi anni in Formula 1. Soprattutto, Leclerc da sempre è sembrato mostrare un talento più naturale e poliedrico di Vettel, più abile del tedesco ad adattarsi alle situazioni più scomode. In definitiva, oggi che è ufficiale il suo addio alla Ferrari, la grande macchia sulla carriera di Vettel resterà quella di non essere riuscito a passare a un livello successivo di maturazione e di completezza, come fatto per esempio da Alonso negli anni in Ferrari pur senza vincere titoli. Vettel ha sempre trasmesso una sensazione di fragilità troppo vicina a quella degli anni giovanili.

L’estremo tentativo politico

Per capire cosa non è andato tra Vettel e la Ferrari in questa stagione forse conviene partire proprio da Monza, dove la dominante importanza delle scie ha fatto sì che ogni team organizzasse la disposizione dei propri piloti in qualifica, in modo da concedersi reciprocamente un traino. Così, nel primo tentativo della Q3, Vettel ha stampato il suo giro senza alcuna scia davanti e fornendo anzi la propria a Leclerc, che otterrà la sua pole position provvisoria anche grazie all'aiuto del suo compagno. Il monegasco invece – nella confusione generale dei secondi finali – si era ritrovato a un certo punto in testa al serpentone ma invece di "restituire il favore" aveva deciso di temporeggiare, favorendo l’aborto del secondo tentativo di tutto il gruppo di piloti per limiti di tempo, compreso quindi anche Vettel.

Dopo una rocambolesca vittoria a Singapore per via della non preventivata importanza dell’undercut nella strategia, Vettel è stato nuovamente messo alle strette dal suo compagno di squadra a Sochi. In Russia, Leclerc ha ottenuto la sua quarta pole position consecutiva e ha sconfitto Vettel in qualifica per il nono Gran Premio di fila. Ed è lì che per la prima volta Vettel ha rotto un accordo di squadra. Leclerc, infatti, avrebbe dovuto concedergli la scia e la posizione in partenza per bloccare le Mercedes, in cambio di una successiva immediata restituzione della leadership. Vettel si è messo invece a martellare come un forsennato, sfruttando un assetto più adatto alla gara rispetto a quello di Leclerc, più carico soprattutto al posteriore, e facendo segnare il miglior tempo assoluto in gara ai giri 4, 5, 6, 8, 9, 11, 12, 13, 14 e 16. La Ferrari a quel punto ha deciso di penalizzarlo con la strategia, per favorire quel sorpasso che avrebbe dovuto restituire in pista. Per ironia della sorte, Vettel alla fine è dovuto ritirarsi al giro 27 per un problema alla power unit.

Una situazione costante della prima parte di gara: Leclerc più veloce di Vettel nel primo settore e più lento di almeno 2 decimi ogni giro nel terzo, per via di un assetto più efficace in qualifica. Vettel non aveva utilizzato mappature più spinte della power unit.

Sapendo che in qualche modo avrebbe dovuto restituire la posizione, la progressione di Vettel è avvenuta a scopo puramente dimostrativo. Vettel nella sua carriera aveva manifestato la sua insubordinazione agli ordini del team in modo palese una sola volta, in Malesia nel 2013, con un’azione consapevolmente beffarda sul compagno Mark Webber, sul quale sapeva benissimo di avere la totale supremazia politica nel team. In Russia, Vettel, da sempre grande uomo-squadra in Ferrari, si è invece giocato il suo all in con un obiettivo opposto: quello di provare disperatamente a ribaltare gli ormai irreversibili mutamenti politici all’interno della Scuderia.

Quella del saper leggere le logiche machiavelliche della Formula 1 è una delle qualità più importanti e qualche volta anche più taciute di un pilota, una delle più sottovalutate di Vettel. Non bisogna però commettere l’errore di considerarla una qualità a sé stante, separata dalle dinamiche in pista. È solo attraverso la somma dei due aspetti che si può leggere la manovra di Vettel.

A Sochi l’istinto politico di Vettel lo ha portato a una ribellione che potesse costituire una valida carta da giocare al tavolo dei negoziati, dopo lo smacco dell’ingiustizia subita a Monza e tacitamente sopportata dalla Ferrari per proteggere il nuovo fenomeno, autore di una vittoria immediatamente passata alla leggenda. Una prestazione che ha completamente ribaltato le gerarchie in Ferrari, se si pensa che a marzo il team principal Binotto per la prima volta aveva pubblicamente indicato l’esistenza di un pilota di punta, sostenendo che «nelle situazioni ambigue la preferenza andrà su Sebastian».

Eppure già da settimane Vettel sembrava aver perso definitivamente la certezza di un forte supporto alle spalle, una condizione che sembra imprescindibile per le sue prestazioni in pista. Il suo duello con Leclerc ha messo in mostra alcuni dei lati più oscuri della sua carriera e del suo talento, che risalgono a molto prima della sua esperienza in Ferrari. Per questo, per comprendere a fondo da dove sorgono le sue difficoltà che hanno compromesso il proseguimento della sua storia con il "cavallino rampante" e la sua possibilità di consacrarsi nella leggenda della Formula 1, è necessario riavvolgere il nastro per un’analisi più ampia che ha le sue radici nelle sue prime esperienze in monoposto.

La mancata evoluzione

Vitantonio Liuzzi ha corso con Vettel in Toro Rosso negli ultimi sette Gran Premi della stagione 2007. Il pilota italiano, che ho intervistato per la scrittura di questo articolo, lo definisce così: «Un campione, un ottimo pilota, ma non l’ho mai ritenuto un talento purosangue come altri, tra cui Ricciardo. Sebastian è sempre stato bravo a creare gruppo, a portare tutte le attenzioni del team su di sé. È molto capace a livello mediatico e politico, ha sempre avuto molto supporto e si è sempre giocato bene le proprie carte». Parlando più nello specifico della stagione 2007 Liuzzi dice che «spesso era meno veloce di me, però sapeva trovarsi sempre nella situazione giusta al momento giusto. Ha avuto fortuna ma perché è sempre stato bravo a procurarsela».

La carriera di Vettel, grazie anche alla benedizione di Michael Schumacher, era iniziata sotto l’aura della predestinazione. Al suo sesto Gran Premio, in Toro Rosso, sfiorò il podio al Fuji sotto il diluvio; l’anno successivo, sempre in Toro Rosso, fu autore di una doppietta pole-vittoria sulla pioggia di Monza che tuttora rappresenta una delle più grandi imprese della storia dell’automobilismo. Nelle sue prime prove libere in carriera in Formula 1, le FP2 in Turchia nel 2006 come collaudatore della BMW Sauber, Vettel fu il più veloce: «Il risultato fu tutto genuino», raccontò ad Autosprint a fine 2007, «usavamo un normalissimo friday program, l’assetto tipico delle prove libere, e ho ereditato quello di Kubica che era passato titolare, senza alcun vantaggio. Non mi aspettavo di risultare così veloce».

In macchina con Vettel proprio nelle FP2 di Istanbul 2006. Due annotazioni a margine: la bellezza del circuito turco, uno dei più riusciti “tilkodromi”; il traction control che si sente in uscita di curva.

Vettel non è stato il tipico pilota esordiente che cerca di affermarsi anche autocelebrandosi o cercando di crearsi il suo spazio affrontando magari anche a muso duro i piloti più affermati attraverso i media, come fece il suo maestro Schumacher. «Sebastian è un ragazzo dal carattere introverso, riservato», racconta Liuzzi, «è sempre riuscito a farsi ben volere dalle alte sfere del management del team, e a ottenere il loro supporto pressoché totale, grazie alla sua semplicità e alla sua educazione».

Vettel non ha alzato la voce neanche all’epoca degli invincibili record con la Red Bull. E nonostante questo riuscì comunque a ottenere il supporto di ben due case costruttrici – la BMW, oltre la Red Bull – fin dalle categorie minori, un caso praticamente unico nel motorsport. Una protezione a doppio filo che lo ha senza dubbio aiutato a trovare da subito la giusta serenità nel farsi strada nel Red Bull Junior Team, dove da sempre il carattere eccessivamente esigente di Helmut Marko (ex pilota e figura estremamente influente all'interno della scuderia) imperversa su piloti ancora in fase di formazione, compromettendone spesso le fasi della crescita.

Soltanto nella stagione 2012, finito spesso sotto scacco di Alonso nonostante una vettura generalmente superiore, e nonostante i due titoli mondiali già incamerati, Vettel fece sorgere i primi dubbi sulla effettiva consistenza del suo talento. La cupola estremamente protettiva del mondo Red Bull e la giovane età – tuttora è il più giovane Campione del Mondo di Formula 1 di sempre a 23 anni, 4 mesi e 11 giorni – erano riuscite però a minimizzare, quando non a giustificare, alcuni errori di gioventù che avrebbero dovuto diradarsi col tempo.

Forse è stato proprio il guscio protettivo della Red Bull e il prolungato confronto ad armi impari con Alonso a portare Vettel a volersi affermare a tutti i costi in un contesto differente, provando a giocarsi tutta la sua carriera venendo incontro alle irraggiungibili aspettative della Ferrari. Per Vettel, cultore della storia della Formula 1 come pochi altri, vincere il quinto Mondiale con la Rossa avrebbe dovuto rappresentare il raggiungimento di una posizione finalmente accomunabile a quella dei grandi campioni da lui venerati. «Non è una questione di soldi», ha detto al momento dell’annuncio del suo addio alla Ferrari.

Vettel a tratti è sembrato davvero voler emulare Schumacher e la sua magica esperienza in Ferrari, come molti da fuori avevano già notato. Lo si vedeva ad esempio in pista nella tecnica della parzializzazione dell’acceleratore durante la frenata, o fuori nella capacità di comunicare con il team e nella meticolosità del lavoro. Rispetto a Schumacher, però, si è dimostrato più emotivo, più incline all'errore nei momenti decisivi, lasciando spazio troppo spesso all’impulsività e all’avventatezza. Perfino la minore sfacciataggine, rispetto a quella di Schumacher, nel lungo periodo gli si è ritorta contro.

I momenti che hanno compromesso la sua posizione nella Rossa sono due, ed entrambi perfettamente esemplificativi delle sue due più evidenti lacune, sia tecniche che mentali. A Hockenheim 2018 commette un errore sul bagnato quando è saldamente in testa, non sopportando la pressione a distanza della risalita di Hamilton. Una differenza nel resistere alla pressione che da fuori diventa evidente quando Vettel sbatte i pugni sul volante dopo aver picchiato contro il muro, mentre Hamilton si dirige verso la bandiera a scacchi.

L’errore di Vettel (a destra) per aver ingranato la sesta marcia troppo tardi rispetto al giro precedente (a sinistra) e aver iniziato a frenare troppo tardi e troppo forte su pista umida.

La svolta in negativo nel confronto con Leclerc arriva invece a Le Castellet, proprio nel momento in cui la Ferrari decide di combattere il sottosterzo di inizio 2019 portando costanti ed efficaci aggiornamenti all’alettone anteriore. Le modifiche cambiano l’equilibrio della vettura e lo spostano di più sull’anteriore, alleggerendo il posteriore e togliendo così quelle certezze di solidità del retrotreno di cui Vettel ha sempre avuto imprescindibile bisogno nel suo stile di pilotaggio.

Il suo stile di guida, insomma, si è rivelato invece essere l’opposto di quello di Schumacher, che guidava con un «assetto folle», secondo John Barnard, suo ingegnere in Ferrari nel 1996: «Michael voleva un anteriore con cui buttarsi in curva e ci avrebbe pensato poi lui ad aggiustare il posteriore». Uno stile più simile a quello di Leclerc, teoricamente più adatto alla qualifica e meno alla gara, che ha costituito uno dei punti di partenza della sua supremazia su Vettel sul giro secco.

In questo senso, il più grave difetto che separa Vettel dai grandi campioni si è rivelato essere quello di non riuscire a correggere efficacemente in pista, tramite il fiuto e il talento naturale di guida, un assetto che non fosse perfettamente cucito sulle sue imprescindibili esigenze tecniche.

Vettel in qualifica a Spa lo scorso anno. La vettura non gli calza ed è evidente l’incertezza in molti punti del giro: frena troppo tardi ed entra male sia alla Rivage che in curva 13, ha un pesantissimo sovrasterzo in uscita dalla Stavelot e un bloccaggio alla Bus Stop. Perde di ben 7 decimi il duello con Leclerc.

Quello di non possedere un efficace istinto di guida, nell’accezione più classica del pilota come animale da corsa, è un altro dei fattori che hanno pesantemente condizionato Vettel nel confronto con Leclerc. Se da una parte il monegasco soltanto da Spa 2019 in poi ha trovato una chiave per gestire correttamente le gomme in gara, aggiungendo esperienza al suo talento, dall’altra è stato fin da subito sbalorditivo come Leclerc si sia imposto in qualifica.

Per capirlo basta ad esempio confrontare come Vettel, per ottenere la pole position in Bahrain nel 2018 (nel video sotto), faccia delle modifiche sul display praticamente in ogni curva – tra cui quella del bilanciamento di frenata – mentre, sulla stessa pista, Leclerc lo ha sconfitto nel 2019 ottenendo la pole position guidando con assoluta naturalezza, senza alcuna regolazione nel corso del giro.

In macchina con Vettel per la pole in Bahrain nel 2018. Nel confronto diretto aveva sconfitto il compagno Raikkonen, anche grazie alle costanti modifiche sul volante.

Prima ancora che da Leclerc, tuttavia, Vettel è uscito tremendamente sconfitto da Hamilton nel 2018. Non solo nel diverso modo di adattarsi alle difficoltà, alle situazioni interlocutorie, ma soprattutto per essersi trovato impreparato di fronte ai suoi stessi limiti. È stato proprio il percorso inverso dei due, causato da diverse circostanze anche concomitanti, che ha messo maggiormente a nudo come a Vettel siano mancate in parallelo un’evoluzione sostanziale, una profonda maturazione e una solida reazione ai singoli errori.

Un pilota fortunato?

La capacità di concentrare tutto il team attorno a sé ha quindi costituito negli anni contemporaneamente il principale punto di forza e la primaria e imprescindibile necessità di Vettel. Le vetture che lo hanno visto maggiormente a proprio agio sono tutte quelle dal posteriore robusto e poco soggetto al sovrasterzo: la Red Bull del 2011 e dei famosi scarichi soffianti, la Red Bull di fine 2013 – quella delle 9 vittorie consecutive – che usava solo metà dei cilindri del motore Renault in curva per riprodurre un effetto simile, e la Ferrari del 2017, la sua Rossa preferita.

Vettel ebbe anche al suo esordio la fortuna di ritrovarsi in un team che lo favorì enormemente dal punto di vista tecnico. «In Toro Rosso nel 2007», racconta Liuzzi, «entrambi preferivamo una vettura meno precisa sull’anteriore ma solida al posteriore, e fummo così d’accordo nella direzione da seguire nello sviluppo e negli assetti. La priorità alla stabilità in trazione spiega perché la Toro Rosso nel 2007 e nel 2008 era così forte sul bagnato, e anche perché Sebastian si adattò immediatamente nel 2008 all’abolizione dal regolamento del controllo elettronico di trazione». E quindi, alla luce di queste parole, è lecito chiedersi se con un’altra direzione tecnica, con una Toro Rosso precisa all’avantreno e sovrasterzante come la Ferrari di metà 2019, la carriera vincente di Vettel in Formula 1 sarebbe sbocciata allo stesso modo.

Vettel on board nelle prove libere a Monza 2008, con una vettura stabile al posteriore anche quando sale sui cordoli. Al venerdì sull’asciutto le prestazioni della vettura furono nella norma, ma tutto cambiò con la pioggia dal sabato mattina.

Il bisogno vitale di indirizzare sempre lo sviluppo della monoposto verso obiettivi molto specifici si è rivelato, nel tempo, il limite insuperabile di Vettel. Un pilota così dipendente da alcune caratteristiche della monoposto, con uno scollamento così ampio tra il rendimento mostrato nei momenti di agio e il vortice psicologico negativo nelle situazioni più ostili, più di ogni altro ha provocato un continuo disorientamento dell’opinione pubblica su quale sia effettivamente la sua eredità storica.

Seppur nato da una famiglia in condizioni economiche nella norma e insufficienti a garantirgli da sola la carriera nel motorsport, Vettel ha ricevuto una certa dose di protezioni e di fortuna spesso insoliti. Il suo caso di doppio supporto da due case costruttrici resta tuttora un’enorme eccezione. Il suo rendimento fu altalenante anche in età giovanile: nelle categorie minori fu sbalorditivo solamente in Formula BMW nel 2004, vincendo 18 gare su 20 in un campionato comunque non di altissimo livello – l’unico degno avversario era Sebastien Buemi. Nella Formula 3 Euro Series partecipò in due stagioni consecutive senza mai vincere il titolo, battuto al secondo anno da Paul di Resta. Nelle World Series, pochi mesi prima di debuttare in Formula 1, ha ottenuto solamente 2 pole position e 2 vittorie in 11 gare a cui ha partecipato.

Le durissime condizioni imposte da Helmut Marko sui piloti in Red Bull, specialmente in Toro Rosso, sembrarono addolcite nei confronti di Vettel fin dal 2007. Nonostante il notevole chilometraggio accumulato da tester in BMW Sauber, nelle sue prime qualifiche in Formula 1 Vettel perse il confronto contro Heidfeld di 6 decimi a Indianapolis, e in Toro Rosso contro Liuzzi di 4 decimi in Ungheria, di 6 decimi in Turchia e di pochi millesimi sia in Belgio che in Cina. Ma la dirigenza della Red Bull, grazie a un intervento di Gerhard Berger, fece licenziare Liuzzi a fine anno e spianò la strada a Vettel per un confronto più comodo nel 2008 contro Sebastien Bourdais. Ora però per Vettel non sarà semplice ricostruirsi una reputazione e ricominciare la scalata alle vette della Formula 1. Basti pensare che la McLaren gli ha preferito Ricciardo per sostituire Sainz, diretto alla Ferrari.

Ed è proprio al confronto con Ricciardo, sia diretto che in parallelo a distanza, a cui Vettel sembra aver legato indissolubilmente la propria credibilità. Non solo fu pesantemente sconfitto nella lotta interna in Red Bull nel 2014, ma è sembrato soffrire più intensamente di Ricciardo l’arrivo di un giovane fuoriclasse in squadra – per l’australiano era Verstappen. Liuzzi li ha sfidati tutti e due, quando entrambi erano debuttanti, e sottolinea come, «a parte un paio di situazioni particolari, Daniel fu subito veloce come me nonostante avesse molta meno esperienza di test in Formula 1 alle spalle rispetto a Sebastian, e nonostante debuttò su una vettura molto difficile come la HRT».

È come se i quattro titoli in Red Bull per Vettel si siano rapidamente trasformati da pesante credito sul biglietto da visita a insopportabile zavorra di responsabilità. Come se avesse in qualche modo sottovalutato il peso di voler dimostrare, anzitutto a se stesso, di essere all’altezza delle leggende con cui condivide i record, o avesse sottostimato la profondità del lavoro che avrebbe dovuto compiere su se stesso per sopportare questo fardello.

Una delle fortune di Vettel fu anche la posizione in Ferrari che si aprì subito dopo le sue prime grandi difficoltà con Ricciardo nel 2014, un treno che è servito al tedesco per recuperare immediatamente il comfort di un ambiente favorevole, per di più con l’alibi di una macchina non vincente nelle prime due stagioni. Fino a Silverstone 2018 Vettel riuscì a isolare la macchia del 2014 e in alcuni casi fece addirittura la differenza come manico: fu protagonista di alcuni capolavori come la pole position di Singapore 2017 contro le più forti Red Bull, il sorpasso irreale a Bottas a Barcellona 2017 con la doppia finta e quello rischiosissimo per la vittoria a Silverstone 2018, o la gestione di un interminabile stint con gomme finite per la vittoria in Bahrain nel 2018.

Spagna 2017: il sorpasso del decennio?

Gli avvenimenti degli ultimi anni, però, non devono portarci a sottovalutare eccessivamente il valore di Vettel, che rimane tra i migliori piloti dell'ultimo decennio. La carriera del pilota tedesco, forse più di chiunque altro nella Formula 1 contemporanea, ha però anche confermato come ciò che rende vincente un pilota di Formula 1 vada molto oltre al solo talento di guida fino a sfociare nelle capacità politiche di saper gestire le gerarchie e i rapporti all'interno di una squadra. Lo si può vedere in negativo anche contrapponendo la sua carriera a quella di Alonso - alla sua autoemarginazione dall’ambiente, cioè, per via della fama di uomo che spacca le squadre.

Capire Sebastian Vettel, nel continuo alternarsi tra imprese memorabili e cadute rovinose, per questi motivi rimane difficile. Sebastian Vettel ha lavorato tutta la vita per diventare un campione di raziocinio, di meticolosità e di programmazione. Voleva affermarsi con la solidità granitica del suo mentore Schumacher, coprire con lo studio le pieghe delle sue debolezze originarie. Ma cercando di arrivare a quel grado di perfezione, per paradosso, alla fine si è rivelato il più umano, e quindi il più fragile, di tutti.

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