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Giuseppe Pastore

Storia dei player manager

Quella degli allenatori-giocatori è stata un'importante tradizione del calcio inglese, soprattutto tra gli anni '70…

Cosa porta un regista a decidere di affidare una parte importante di un proprio film – magari addirittura la parte principale – a nient’altri che sé stessi? Woody Allen aveva buon gioco a stare contemporaneamente dietro e davanti la cinepresa, interpretando il cliché dell’intellettuale nevrotico e complessato come nessun altro. Clint Eastwood pretendeva dal suo cast serenità, concentrazione e totale dedizione al lavoro, e dunque per forza di cose il suo attore ideale era quello che incontrava tutte le mattine guardandosi allo specchio. La genialità di Chaplin era talmente complessa e inspiegabile a parole che poteva essere tradotta in sceneggiatura e inquadrature solo da Chaplin medesimo.

 

Ma le storie di cinema, che quasi sempre vedono come protagonisti artisti dall’ego smisurato, afferrano solo in parte la difficoltà – o se vogliamo, addirittura il mistero – di mettersi alla guida di un gruppo di venti-venticinque giocatori e contemporaneamente essere uno di quei giocatori. La schizofrenia e il bipolarismo sono a un passo, ma chi rimane ancorato al suolo può provare l’ebbrezza di diventare altro da sé, braccio e mente, stratega ed esecutore tutto insieme.

 

“Uno dei principali problemi è che come giocatore hai bisogno di lunghi periodi di riposo, ma come allenatore non hai mai tempo di riposare perché può sempre succedere qualcosa, ed è una situazione snervante”, ha acutamente osservato Peter Reid, che quell’ebbrezza la provò al Manchester City dal 1990 al 1993. C’è da diventare matti a fare i player-manager, ed è anche per questo che questa particolare intercapedine della storia del calcio sta ormai irrimediabilmente venendo seppellita dalla polvere.

 

Sopravvivono casi esotici e bizzarri come quello di Nicolas Anelka, che ha tentato la sorte in Cina allo Shanghai Shenhua e in India al Mumbai City, senza passare alla storia; o esperienze di breve durata come le ultime quattro partite della carriera di Ryan Giggs. Ma la complessità del calcio contemporaneo, sempre più selettivo e specializzato, impedisce di concentrare in un uomo solo al comando tutte le competenze tecniche, tattiche, statistiche, mediche, economiche e psicologiche di cui ha bisogno uno staff per fare bene il proprio lavoro. E del resto anche figure all’apparenza dittatoriali come Mourinho o Simeone dipendono da un vasto e qualificato stuolo di collaboratori, analisti e consiglieri; figuriamoci se avanza tempo anche per giocare a pallone!

 

Insomma, il player-manager è una sciccheria da anni Settanta, Ottanta e Novanta, prosperata soprattutto nel calcio inglese dove comunque in molti li guardavano con sospetto. Sono quasi sempre esperienze “al limite”: niente di extra-sensoriale, d’accordo, ma forse non è un caso che i principali esponenti della categoria – Johnny Giles, Vialli, Glenn Hoddle, Kenny Dalglish – hanno tutti smesso di allenare prima dei cinquant’anni (perlomeno ad alti livelli), come prosciugati dall’enorme sforzo fisico e mentale sostenuto per dimostrare di essere all’altezza non di uno, ma di due posti di lavoro contemporaneamente.

 

E non di rado le cose scadevano nel folkloristico: nel 1997, Mark Hateley divenne player-manager dell’Hull City e in qualche modo riuscì a strappare al suo presidente un contatto che prevedeva che percepisse mille sterline ulteriori a ogni presenza. “Così”, ha raccontato a FourFourTwo un suo compagno dell’epoca che ha preferito l’anonimato, “in ogni partita entrava negli ultimi minuti, si voltava verso la tribuna e ringraziava il presidente con ampi gesti delle braccia. Una volta ha anche giocato nonostante si fosse stirato la settimana precedente”.

 

Johnny Giles (1973-1980)

Leggenda del cattivissimo Leeds anni Sessanta e Settanta, interprete insieme a Billy Bremner di una formidabile coppia centrale di centrocampo, l’irlandese Johnny Giles dimostrò di barcamenarsi alla grande nei mari in tempesta del doppio incarico, tanto da essere l’unico caso conosciuto di giocatore-allenatore di due squadre contemporaneamente: sia con il WBA sia con la Nazionale irlandese che guidò da giocatore per sette anni dal 1973 al 1980, pur senza mai raggiungere risultati apprezzabili a livello di qualificazione a Mondiali o Europei, mancando per due punti la qualificazione ad Argentina 1978 nonostante una vittoria a Dublino contro la Francia.

 

Uomo a cui non mancava certo la personalità, tanto da aver voluto sfidare da giocatore la protervia del Manchester United mollando il mitico Matt Busby per ripartire dalla Second Division con il Leeds, alla corte di Don Revie, ebbe il coraggio di prendere anche altre decisioni impopolari: in un decennio di rapporti diplomatici piuttosto delicati tra Irlanda e Inghilterra, Giles impose la convocazione del giovane Chris Hughton, non soltanto irlandese atipico perché nato a Londra, ma anche il primo nero della storia della Nazionale del Trifoglio.

 

Altrettanto tempestoso il suo approdo al West Bromwich Albion, in polemica con il Leeds che, al momento di sostituire il mitico Don Revie passato alla guida della Nazionale inglese, gli aveva preferito lo “straniero” Brian Clough il quale, com’è noto, passò 44 non felicissimi giorni alla guida dello United, velatamente boicottato dallo spogliatoio che aveva caldeggiato all’unanimità l’opzione Giles.

 

Tenne botta un’altra stagione, impreziosita da una storica finale di Coppa Campioni, poi si accasò a Birmingham, non un posto qualunque per un irlandese. Otto mesi prima, la sera del 21 novembre 1974, le bombe dell’IRA erano scoppiate in due pub di Birmingham a dieci minuti di distanza, provocando 21 morti e 182 feriti. Non abbastanza per disturbare il lavoro di Giles, che fruttò una promozione in First Division nel 1976 e un settimo posto la stagione successiva, sempre giocando stabilmente da titolare (75 presenze e 3 gol in due anni).

 

A 45 anni, con addosso già una robusta quantità di delusioni professionali, lasciò a sorpresa il mondo delle panchine e si dedicò a una fortunata carriera da opinionista.

 

Glenn Hoddle (Swindon 1991-1993, Chelsea 1993-1995)

Uno dei più talentuosi centrocampisti della sua generazione, uno dei primi a tentare con successo l’avventura all’estero (al Monaco, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta), insomma una specie di Roberto Mancini albionico, Hoddle trovò naturale il passaggio allo status di player-manager accettando nel 1991 l’offerta dello Swindon, club di Second Division a cui era stata appena revocata la promozione in prima serie per una storiaccia di evasione fiscale e pagamenti in nero. Nonostante fosse al primo impiego, Hoddle si rivelò capace di navigare a meraviglia per i mari procellosi e due anni dopo poté festeggiare la promozione nella neonata Premier League, dopo un rocambolesco spareggio play-off contro il Leicester vinto 4-3 con le marcature aperte proprio da Hoddle, in un pomeriggio da favola per tutti i giocatori che aspirano – qualunque possa essere la ragione – a fare i player/manager.

 

Hoddle è tanto sulla cresta dell’onda che in quell’estate 1993 lo chiama addirittura il Chelsea, per il grande salto in Premier. Ormai non va oltre le venti presenze stagionali e in campionato galleggia mestamente a metà classifica, in un periodo storico in cui Stamford Bridge non ha neanche un decimo dell’appeal attuale, ma si rivela ottimo manager da partita secca: guida il club in finale di FA Cup (strapersa 4-0 contro il Manchester United) e l’anno dopo in semifinale di Coppa delle Coppe, arrendendosi al Real Saragozza, ma ridando lustro internazionale al Chelsea dopo decenni, tanto da attirare l’attenzione e la curiosità di un certo Ruud Gullit, che darà risonanza alla bizzarra figura del giocatore-allenatore anche al di fuori del Regno Unito.

 

 

Ruud Gullit & Gianluca Vialli (Chelsea 1996-2000)

L’arrivo di Gullit dà inizio alla seconda fase della rumorosa campagna d’espansione dei Blues che spendono, spandono, azzardano soluzioni coraggiose e investono massicciamente sul declinante Tulipano Nero portandolo a Londra nell’estate 1995 e schierandolo come libero con licenza di fare un po’ quel che gli pare, come agli inizi di carriera al PSV Eindhoven.

 

Il debordante carisma e la classica arroganza da olandese non sempre vanno a genio al presidente Ken Bates, che pure l’estate successiva decide di puntare su di lui anche come allenatore. È l’estate del Chelsea “italiano” che compra tre assi come Gianluca Vialli, Roberto Di Matteo e (a novembre) Gianfranco Zola, cavalcando ambizioni di titolo che saranno regolarmente frustrate dalla corazzata Manchester United. Ma Gullit diventa il primo allenatore straniero e di colore a vincere un trofeo in Inghilterra: la FA Cup 1997, battendo in finale il Middlesbrough di Ravanelli con un gol dopo 22 secondi di Di Matteo, in una stagione marchiata anche dalla tragica morte del vicepresidente Matthew Harding, morto in un incidente d’elicottero dopo una trasferta di coppa a Bolton.

 

Gullit gioca appena 13 partite in stagione segnando un solo gol, ma sembra ben avviato a una promettente carriera manageriale, quando l’anno successivo viene esonerato a febbraio dopo quattro sconfitte consecutive. Bates rilancia con spregiudicatezza da giocatore di blackjack e lo sostituisce proprio con Vialli, che ormai con Gullit era a un passo dalle carte bollate. Incredibilmente, è un successo su tutta la linea.

 


Con il timbro inconfondibile di Carlo Nesti, la mossa migliore della carriera di Luca Vialli: il gol di Zola allo Stoccarda nella finale di Coppa delle Coppe 1998.

 

In serie A si ha memoria solo di due allenatori-giocatori, entrambi per uno spezzone finale di stagione: nel 1968-69 Armando Picchi non riuscì a evitare la retrocessione del Varese, mentre nel 1946-47 Peppino Meazza si era ulteriormente meritato la venerazione imperitura del tifo interista tirando fuori i nerazzurri da una perigliosa situazione di bassa classifica. Il Vialli allenatore ambisce a volare molto più alto, concludendo la stagione vincendo sei delle rimanenti dieci gare di campionato; mentre il Vialli centravanti segna una doppietta al Crystal Palace e un gol a Tottenham e Bolton.

 

Vince la Coppa di Lega in finale, ancora contro il Middlesbrough, e s’inerpica fino alla finale di Coppa delle Coppe, eliminando il Vicenza in una drammatica semifinale italo-inglese in cui splende fugacemente la stella di Lamberto Zauli. In finale sgomina lo Stoccarda (allenato da Joachim Low!) annullando il temuto attaccante Bobic e prendendosi la coppa con astuzie e fortune da allenatore consumato. Decisiva è la mossa di inserire Zola a metà ripresa, anche oltre le più rosee aspettative: entra e segna dopo neanche 60 secondi il gol-partita. Non solo! Vialli vincerà con lo stesso punteggio anche la Supercoppa Europea, battendo nientemeno che il Real Madrid del futuro allenatore del Chelsea Hiddink con un gol nel finale di Gus Poyet. In campionato, incredibile ma vero, perde solo tre partite: ma è l’anno dello storico treble del Manchester United e Vialli può fare solo da paggetto a sir Alex, arrivando terzo a quattro punti di distacco nonostante i due pareggi con i Red Devils.

 

La sfortuna ci mette del suo, privandolo a novembre dell’ariete acquistato per fare il salto di qualità, Pierluigi Casiraghi, che ad Anfield si sbriciola il ginocchio destro negli stessi minuti in cui a Udine Alex Del Piero si procura lo stesso infortunio al ginocchio sinistro: ma Casiraghi non tornerà più a giocare. E le coppe, specialità della casa? In FA Cup si fanno beffare ai quarti in casa da una doppietta di Yorke, dopo aver pareggiato 0-0 a Old Trafford nella prima partita; in Coppa di Lega si arrendono già a dicembre al Wimbledon (nonostante un gol proprio di Vialli), in Coppa delle Coppe cascano male in semifinale contro il Mallorca di Hector Cuper, fallendo così il rendez-vous a Birmingham contro la Lazio dell’amico Mancini.

 

Dal 1999-2000, Vialli è solo manager di un Chelsea sempre più planetario e cosmopolita, proprio come la Premier League: tra gli undici titolari l’unico inglese è il vecchio Dennis Wise, ma di un altro, un giovane difensore di nome John Terry,  Vialli intuirà le grandi potenzialità. Ancora una volta si esalta nelle coppe: in Champions arriva fino ai quarti da totale underdog e fa passare brutti quarti d’ora al Barcellona di Figo e Rivaldo, cedendo solo ai supplementari. In FA Cup, beh, ovviamente vince ancora, battendo in finale l’Aston Villa con un gol del Re di Coppe Di Matteo. Ma finché c’è Ferguson il titolo è tabù: dopo un avvio frustrante di stagione 2000-2001, Bates lo licenzierà e deciderà saggiamente di sostituirlo con un allenatore a tempo pieno, Claudio Ranieri.

 

Vialli di fatto chiuderà così la sua carriera, piuttosto bruscamente: “È come essere attore e regista dello stesso film, un’esperienza che mi ha prosciugato dal punto di vista fisico e mentale. Devi mantenerti assolutamente obiettivo, la squadra deve sempre vincere. Altrimenti sono guai”.

 

Attilio Lombardo (Crystal Palace 1997-1998)

Negli stessi mesi di Vialli, un altro ex sampdoriano si cimenta nel ruolo. Non l’“allenatore in campo” Roberto Mancini (che player-manager, almeno ufficialmente, non lo è mai stato), bensì l’insospettabile Attilio Lombardo, sulla tolda del derelitto Crystal Palace per gli ultimi mesi della stagione 1997-1998.

 

Curiosamente, l’inizio della sua carriera da allenatore non coincide con la fine di quella da giocatore, tanto che tornerà in Italia e farà in tempo a vincere un altro scudetto, con la Lazio, nel 2000. Il Palace neopromosso non deve neanche svenarsi troppo per portare a Londra un campione d’Italia in carica: vero, è reduce da un grave infortunio al ginocchio, ma la stagione precedente ha pur sempre segnato in semifinale di Champions all’Ajax e in finale di Supercoppa Europea al PSG. Lombardo parte bene, segna all’esordio contro l’Everton ad appena una settimana dalla firma del contratto, ma le cose precipitano ben presto, nonostante l’arrivo a stagione in corso dell’altro ex juventino Michele Padovano.

 

Il cambio di proprietà a febbraio porta all’esonero del vecchio manager Steve Coppell e alla strana coppia Lombardo-Thomas Brolin (QUEL Thomas Brolin) come interregno fino a fine stagione, prima dell’inevitabile ritorno in Championship. Lombardo prende il Palace all’ultimo posto e ultimo lo riconsegna a fine stagione, dando a volte l’impressione di fare un favore alla società, più che crederci per davvero. Pure, segna cinque gol in cinque partite diverse, con la magra consolazione che il Palace non perde nessuna di esse.

 


Il memorabile esordio in Premier – da giocatore – di Attilio Lombardo, The Italian Bald Eagle.

 

Ryan Giggs (Manchester United 2014)

Facciamo un salto avanti di quindici anni per dedicare qualche riga al trascurabile interregno di Ryan Giggs nel Manchester United, degno di nota soprattutto perché è il primo player-manager nella storia dei Red Devils.

 

L’attuale ct della Nazionale gallese sostituisce David Moyes nelle ultime quattro giornate del complicatissimo campionato 2013-2014, il primo dopo l’uscita di scena del monumentale sir Alex. Rimedia un non disprezzabile bottino di sette punti, con un’unica sconfitta contro il Sunderland, e chiude in bellezza mandando in campo sé stesso contro l’Hull City, ultima delle 963 partite ufficiali del Mago Gallese.

 

Pochi giorni dopo sarà nominato assistente di Louis Van Gaal, manager per la stagione successiva, ma quel mese scarso di gestione del club gli è bastato per provare il sapore dolciastro dei grandi poteri e delle grandi responsabilità: “Ho capito quanto si è soli quando si fa un lavoro del genere. Quando chiudi la porta del tuo ufficio mentre tutti gli altri sono già andati a casa, in quel momento sei da solo con te stesso. È un lavoro che porta all’isolamento, tocca a te e solo a te prendere le decisioni”.

 


Nell’ultima partita della carriera Giggs sostituisce il giovane Tom Lawrence: alla nascita di quest’ultimo, nel 1994, Giggs era già nel bel mezzo del suo quinto anno da professionista.

 

Kenny Dalglish (Liverpool 1985-1990)

I due più grandi player-manager della storia del calcio inglese hanno in comune la nazionalità – scozzese – e la squadra che li ha resi grandi, il Liverpool. Le fortune di Graeme Souness sono circoscritte ai Rangers Glasgow (1986-1991), riportati alla gloria e al successo dopo ben nove anni di digiuno, in cui erano stati sopraffatti persino dal rampante Aberdeen di Alex Ferguson: Souness assicura al club una robusta infornata di giocatori inglesi di livello come i nazionali Chris Woods, Terry Butcher e Ray Wilkins, sfida il sentimento popolare riportando in Scozia Mo Johnston, ex Celtic e non particolarmente gradito a Ibrox Park per via della fede cattolica, e soprattutto vince tre titoli nazionali e tre coppe di Scozia. Ma meglio di lui fa il suo compagno di Nazionale e di club Kenny Dalglish, con cui ha condiviso le tre Coppe dei Campioni vinti dai Reds nel 1978, 1981 e 1984.

 

La mattina prima della finale dell’Heysel contro la Juventus, il vecchio Joe Fagan annuncia che quella sarà la sua ultima partita da allenatore del Liverpool. Non può immaginare un epilogo così terribile, ma ormai quel che è fatto è fatto: il 30 maggio 1985 Dalglish riceve la richiesta ufficiale di diventare l’erede di Fagan e inizia subito a fare i conti con la terribile eredità morale di quanto accaduto, nonché con la maxi-squalifica internazionale di sei anni inflitta dall’UEFA per i fatti di Bruxelles.

 

È la prima volta che un top team si affida a una soluzione così coraggiosa: il board del Liverpool gli affianca il vecchio Bob Paisley come consigliere, più altri alti papaveri della storia Reds come le glorie Ronnie Moran e Roy Evans o il saggio Tom Saunders, già consigliere privilegiato di Bill Shankly. Pure, il cambio di prospettiva non è meno traumatico: “Da un momento all’altro fui costretto a prendere le distanze da tutto quel mondo di risse e scherzi da caserma tipici di uno spogliatoio. Un mondo che adoravo”.

 

Con grande pragmatismo, Dalglish inizia la sua avventura smorzando le beghe condominiali all’interno dello spogliatoio. “Il primo problema che mi posi fu come dovevano chiamarmi i giocatori. Alla fine fu deciso che dovevano chiamarmi “boss”. Uno di quelli che la prendono peggio è Phil Neal, l’autore del gol del vantaggio Liverpool nella finale 1984 contro la Roma: si aspettava che l’incarico fosse affidato a lui e così prende per dispetto a chiamare il suo nuovo allenatore, semplicemente, “Kenny”. Dalglish affronta la situazione di peso: “Phil, dovrai chiamarmi boss anche tu”. Dopo pochi mesi Neal fa le valigie e si trasferisce al Bolton, ovviamente da player-manager.

 

Dalglish gioca e allena il Liverpool per cinque stagioni consecutive, un periodo extralarge per un incarico così faticoso, lasciando tracce memorabili sia in panchina che in campo: per esempio, segna a Stamford Bridge il gol decisivo per il sedicesimo titolo della storia Reds, all’ultima giornata del campionato 1985-86, e quell’anno centra il double con l’FA Cup battendo in rimonta i cugini dell’Everton, con Kenny allenatore e capitano contemporaneamente.

 

Nei primi due anni gioca 56 partite di campionato e segna 15 gol, ma dalla terza stagione le sue presenze si diradano notevolmente, limitandosi a cinque in tutto dal 1987 al 1990, l’ultima delle quali lo vede entrare dalla panchina in una partita contro il Derby, il 5 maggio 1990. Senza poter scalare l’Europa come toccato ai suoi predecessori, dà tutto sul fronte interno: vince un altro titolo nel 1988, incassa la tremenda delusione del titolo 1989 perso contro l’Arsenal all’ultimo minuto dell’ultima giornata (quello raccontato in Febbre a 90°) ma si riscatta l’anno successivo, vincendo quello che è tuttora l’ultimo titolo nazionale della storia del Liverpool.

 


Il gol di Kenny Dalglish al Chelsea che vale al Liverpool la vittoria del campionato 1985-86.

 

Il momento spartiacque della sua vita professionale e privata è il massacro di Hillsborough, che lo travolge in prima persona il 15 aprile 1989. In un ambiente già profondamente turbato dall’Heysel, ha la lancinante responsabilità di affrontare in prima persona il giorno in cui i tifosi del Liverpool da carnefici diventano vittime: novantasei ne rimangono senza vita nello stadio di Sheffield. Dalglish ha raccontato più volte a cuore aperto tutti i dettagli di quel pomeriggio, battendosi in prima persona contro le menzogne della giustizia e dei tabloid.

 

La preoccupazione alle prime notizie di ingorghi sulla strade di accesso allo stadio; la sorpresa nel notare che l’anno prima, stessa semifinale, stessa partita e stesso stadio, l’organizzazione aveva funzionato alla perfezione. Il coraggio di parlare ai tifosi sugli spalti; la delusione di non trovare altrettanta solidarietà nel suo illustre collega del Nottingham Forest, Brian Clough. L’ansia della moglie Marina e della figlia Kelly, in tribuna autorità. Il terrore dell’incertezza sulla sorte del figlio Paul, 12 anni, anche lui nella famigerata Leppings Lane insieme al figlio di Roy Evans: lo ritrova camminare in campo, inebetito, dopo mezz’ora. La tragedia lo prostra terribilmente.

 

Il venerdì successivo, di sera, entrerà in un Anfield deserto insieme a Paul e alla sorella Kelly, 13 anni, camminando lentamente verso la Kop. Qualche giorno prima ha legato ai pali della porta i due orsacchiotti peluche di Lauren e Lynsey, le altre due figlie più piccole. Lo spettacolo che si para dinanzi ai loro occhi, una distesa di fiori e sciarpe rosse interrotta solo dai margini della curva, fa scendere le lacrime. Scriverà Dalglish nella sua autobiografia: “È la cosa più bella e più triste che io abbia mai visto”.

 

Magari è merito di quel momento se oggi Paul è l’allenatore della seconda squadra del Miami Football Club, mentre Kelly è diventata una giornalista sportiva e lavora per Sky Sports. “Portarli sotto la Kop fu certamente più facile di dovergli spiegare a parole cos’era successo”. Quando riesci a essere un grande padre e un grande uomo, cosa volete che sia essere contemporaneamente giocatore e allenatore?

 

 

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Giuseppe Pastore fa il giornalista. Appassionato di sport, di cinema, di gente.