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Non dimenticatevi dei Memphis Grizzlies
01 apr 2020
01 apr 2020
La squadra di Morant, Jackson e Clarke è un esempio virtuoso di ricostruzione.
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Foto di Joe Murphy/NBAE via Getty Images
(copertina) Foto di Joe Murphy/NBAE via Getty Images
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In una stagione NBA che ognuno di noi ricorderà per sempre per motivi che non hanno niente a che fare con il basket, non dimenticarsi delle storie che sono state in grado di sorprenderci piacevolmente diventa ancora più importante - e nessuno ha saputo sorprendere un po’ tutti come i Memphis Grizzlies. Guidati dal più che probabile rookie dell’anno Ja Morant, dal talento camaleontico di Jaren Jackson Jr. e dalla mente di Taylor Jenkins – che alla prima stagione da capo allenatore in carriera ha già saputo farsi apprezzare per organizzazione e idee –, i Grizzlies hanno mostrato tutto il potenziale del loro giovanissimo roster, minimizzando quelli che erano i difetti strutturali e riuscendo a competere sera dopo sera nonostante l’assenza di veterani in grado di fare la differenza.

Se la regular season dovesse essersi già conclusa, Memphis sarebbe qualificata per i playoff dopo aver chiuso la stagione con un record di 32 vinte e 33 perse. Un risultato impressionante che non solo permetterebbe di liberarsi del vincolo sulla prossima prima scelta (che a queste condizioni andrebbe ai Boston Celtics) nel modo più indolore possibile, ma che darebbe anche un’enorme iniezione di fiducia a una franchigia che negli ultimi anni aveva stentato a ripartire dopo i fasti del Grit & Grind.

Negli ultimi dodici mesi i Grizzlies hanno operato cambiamenti radicali in quasi tutti i rami dell’organizzazione. Cedere i veteranissimi Marc Gasol e Mike Conley per lasciare spazio ai ventenni Jackson Jr. e Morant, per quanto simbolo potente del passaggio di consegne, è solo la punta di un iceberg che ha visto la franchigia effettuare un vero e proprio reset di ogni paradigma preesistente, affidandosi a personalità nuove, giovani e talentuose per tracciare un nuovo percorso.

Analizzare la riorganizzazione funzionale messa in piedi dai Grizzlies può servire a creare un manifesto ideologico, una sorta di guida sul come fare a ricostruire una franchigia in cinque semplici mosse.

Fase 1: Strutturare le fondamenta

Se per diventare proprietari NBA occorre essere miliardari, per diventare un buon proprietario NBA serve soprattutto altro. Potrebbe sembrare una frase da biscotti della fortuna, ma è una verità tanto ovvia quanto spesso sottovalutata. Il salary cap garantisce un limite di spesa consentito per i giocatori uguale per tutti, ma lo stesso non vale per la struttura societaria, e poter contare su persone estremamente competenti dovrebbe essere alla base di ogni progetto. Proprietario dei Memphis Grizzlies dal 2012, Robert Pera non è sempre stato impeccabile, con quattro allenatori cacciati (Lionel Hollins, Dave Joerger, David Fizdale e B.J. Bickerstaff) dopo controversie con giocatori e dirigenza; ma sul finire della scorsa stagione anche lui sembra aver capito che andava operata una rivoluzione all’interno del front office.

https://twitter.com/wojespn/status/1118652644598456320?s=20

Oltre agli arrivi di due personalità di spicco come Cho e Grunwald, l’ex storico General Manager, Chris Wallace, è stato retrocesso a capo scout.

Jason Wexler è divenuto il nuovo President of Basketball Operations, rimpiazzando John Hollinger (tornato a scrivere per The Athletic) mentre il giovanissimo Zach Kleiman è stato promosso a Vicepresidente Esecutivo, diventando di fatto il nuovo General Manager. Nonostante i 31 anni d’età e il fatto che fino a due anni fa fosse un semplice consulente della franchigia, Kleiman è colui che ha dato la vera svolta. È stato lui a prendere le decisioni più significative degli ultimi mesi, dal cedere Conley (alcuni sostengono che sia stato molto ascoltato anche in occasione della cessione di Gasol), allo scegliere Morant e Brandon Clarke al Draft fino ad assumere Jenkins come nuovo allenatore.

Durante la conferenza stampa di presentazione di Jenkins dello scorso giugno, Kleiman aveva ripetuto più volte l’importanza di trovare un allenatore che fosse suo partner e non un sottoposto, e questo concetto della collaborazione è stato ripreso più volte anche dallo stesso Jenkins nel corso della stagione. «Per noi è importante confrontarsi con il dipartimento statistico» ha detto Jenkins, «di modo da poter creare quintetti che ci permettano di massimizzare il talento dei nostri ragazzi». Chiaro riferimento, per esempio, a come Memphis ria riuscita ad alternare molto bene quintetti con un centro più pesante come Jonas Valanciunas contro avversari più piccoli e quintetti più mobili con altre tipologie di giocatori.

La capacità di Jackson Jr. di assumere ogni volta la funzione che serve alla sua squadra (playmaker, bloccante, realizzatore primario o spaziare il campo per gli altri) è una componente fondamentale della multifunzionalità offensiva dei Grizzlies di questa stagione.

Il permettere ai vari dipartimenti di interagire tra loro, potendo così influenzare l’uno il lavoro dell’altro, è una componente fondamentale di ogni struttura solida. In un clinic durante gli Europei del 2015 a Berlino, Gregg Popovich raccontava di come negli uffici degli Spurs non esistano porte chiuse e come questo permettesse a tutti di fare meglio il proprio lavoro: il coaching staff deve capire la visione della franchigia, il front office deve poter capire quale sia il giocatore che serve per migliorare l’area tecnica, e così via.

Fase 2: Allineamento

«Negli ultimi due anni abbiamo mantenuto un atteggiamento reattivo invece che proattivo» ha detto Wexler lo scorso aprile, riferendosi a come per Memphis fosse giunto il momento di scegliere una strada e seguirla con coerenza. Una volta trovato il personale di bordo, era diventato necessario dare all’imbarcazione una direzione precisa, ma scegliere che tono dare a un progetto ancora in fase embrionale non è facile come può sembrare. Tanti fattori possono spostare la bussola altrove: interessi economici, di mercato, sponsorizzazioni, dirigenti preoccupati di perdere il proprio posto di lavoro. Stando a quanto detto dall’attuale General Manager degli Houston Rockets Daryl Morey in uno degli ultimi episodi del podcast di Zach Lowe, servono in media otto anni per poter tornare competitivi, se si decide di premere il bottone rosso, ed è per questo che tanti preferiscono galleggiare nella mediocrità di un decimo posto in attesa di tempi migliori invece che smantellare completamente.

Allinearsi ideologicamente, un concetto molto discusso nella NBA da qualche anno, è fondamentale per non correre il rischio di dover ricominciare tutto daccapo dopo pochi mesi. Sempre nel corso della presentazione di Jenkins, Kleiman aveva detto che «per la franchigia sono finiti i tempi in cui privilegiare il guadagno immediato rispetto a quello sul lungo periodo, indipendentemente dagli ostacoli o dalle sconfitte di una singola stagione». E anche se spesso le promesse sono più facili da pronunciare che da mantenere, i Grizzlies in questa stagione sono sembrati davvero allineati in modo impeccabile, sia per quanto riguarda le decisioni di tipo organico – vedi la trade con Miami della scorsa trade deadline – sia quelle di natura ideologica, come per esempio la salvaguardia fisica dei giocatori.

In 59 partite Morant ha tentato quasi 400 conclusioni al ferro, numeri in prospettiva più alti di quasi tutte le stagioni da rookie dei migliori ball-handler della lega, da Russell Westbrook a LeBron James. Qui potete ammirare una delle sue 58 schiacciate – oltre all’incredibile capacità di Jackson Jr. di mettere palla per terra andando a sinistra.

Ja Morant è stato l’unico a superare i 30 minuti a partita di utilizzo in tutto il roster, e nonostante la sua straordinaria campagna da rookie, Jenkins non ha mai esitato a toglierlo dal campo – spesso anche nel quarto periodo con la partita in equilibrio – preferendo guardare la big picture invece che i poster che avrebbe stampato in faccia agli avversari restando ancora di più sul terreno di gioco. «I giovani come Ja non hanno mai giocato 82 partite in una stagione, dobbiamo dargli il tempo di abituarsi» aveva detto Jenkins dopo la sconfitta contro i Suns dello scorso novembre, arrivata in volata e molto probabilmente decisa proprio da quella decisione. Lo stesso si potrebbe dire della decisione di rifirmare Valanciunas, opzione che ha permesso di non logorare eccessivamente Jaren Jackson Jr. contro i colossi avversari, nonostante quest’ultimo si trovi più a suo agio nel giocare da centro.

Essendo cresciuto all’interno degli Spurs, Jenkins ha fatto del load management un punto saldo della sua filosofia; ma far riposare i giocatori non serve a niente se non si costruiscono delle abitudini vincenti, una cultura del lavoro nella quale unire struttura e visione nel miglior modo possibile.

Fase 3: Cultura

Già prima di diventare il secondo più giovane capo allenatore della lega, Jenkins aveva dimostrato di possedere grandi qualità umane. Ancora alle superiori era capitano sia della squadra di basket che di quella di baseball, partecipava attivamente nella comunità, scriveva sul giornalino della scuola, faceva parte del consiglio studentesco; al college allenava part-time una squadra semisconosciuta nella zona di West Philadelphia. «Non ho mai visto nessuno più organizzato di lui» ricorda Mike Budenholzer – che lo ha voluto fortemente con sé nelle esperienze di Atlanta e Milwaukee – sottolineando come la miglior qualità di Jenkins sia la facilità con cui riesce a costruire relazioni con staff e giocatori, cosa che gli permette di organizzare il lavoro di tutti nel modo più efficiente possibile.

Allenamenti, trasferte in aereo, partite o la vita privata: ogni dettaglio fa la differenza all’interno di una caotica regular season NBA. La cultura di una franchigia sono le persone che la compongono e tutti lavorano meglio quando si riesce a costruire l’atmosfera giusta.

Essere competitivi è la chiave di tutto, un modo per avvicinarsi ideologicamente anche alla comunità di Memphis – dove giocatori come Tony Allen sono rimasti nel cuore della gente proprio per la loro tenacia. Jenkins vuole che i suoi siano estremamente competitivi anche nelle partitelle di kickball e dodgeball organizzate al posto degli allenamenti, un modo per variare la proposta di allenamento e non sovraccaricare le teste dei giocatori.

Il modo di Morant di descrivere il loro rapporto («Padre figlio, allenatore-giocatore, ma anche fratello-fratello») racchiude al meglio la volontà del giovane coach di trovare un equilibrio tra le sue idee tecnico-tattiche e le caratteristiche umane e tecniche dei suoi giocatori. Costruire un sistema di gioco che massimizzi i pregi di ognuno e al tempo stesso permetta al coaching staff di lavorare sui difetti del gruppo è fondamentale richiede tempo – e Memphis sembra ben contenta di darglielo, visti soprattutto i risultati di questa stagione – ma rischia di non produrre gli effetti desiderati se prima non si riesce a mettere insieme un gruppo di giocatori in grado di combaciare con l’idea con cui si vuol giocare.

Fase 4: Costruzione

Per costruire una squadra vincente, si sa, occorre anche una sana dose di fortuna e anche Memphis non fa eccezioni, grazie al quel 6.3% di possibilità di aggiudicarsi la seconda scelta assoluta nella scorsa lottery. Ovviamente avere una buonissima pick non è di per sé sufficiente, come possono confermare proprio i Grizzlies, che nel 2009 preferirono investire la loro seconda scelta su Hasheem Thabeet invece che su James Harden o Steph Curry. Non sempre è tutto chiaro dall’inizio, insomma, ma gli innesti operati da Kleiman nella scorsa estate restituiscono l’idea su cui vuole appoggiare la ricostruzione dei Grizzlies.

Il roster è stato infarcito di giocatori multidimensionali, capaci di svolgere diverse funzioni ancora prima che ricoprire più ruoli. Kleiman e Jenkins non sembrano credere nella staticità del “ruolo”, piuttosto nell’importanza di avere giocatori intelligenti, capaci di leggere il gioco e dotati di strumenti atletici portentosi; giocatori la cui collocazione è imprecisata ma che siano capaci di garantire da subito impatto fisico, atletismo e voglia di sporcarsi le mani in difesa. Memphis sembra avere una predilezione soprattutto per quei giocatori che vantano grandi numeri nelle rubate/stoppate su cento possessi, come per esempio De’Anthony Melton, Justise Winslow e Brandon Clarke. L’esempio di Clarke è forse il migliore per spiegare il nuovo corso dei Grizzlies, e non soltanto per la sua capacità di saltare un metro da fermo.

Grazie al 74.4% nel pitturato, il 54% da due e un chirurgico 13/20 nei floater, Clarke è letale da dentro l’area, sia in transizione (91° percentile) che nel rollare verso il ferro (94° percentile). Il suo 67% di percentuale reale lo rende il rookie più efficace in attacco da quando la NBA ha iniziato a tenere i numeri.

Nonostante sia stato snobbato durante lo scorso Draft finendo fino alla 21^ posizione, in pochi hanno mai avuto dubbi che potesse essere da subito un giocatore prezioso. «Sapevo che con le sua capacità di finire attorno al ferro e le sue innate doti atletiche, [Clarke] avrebbe potuto un impatto fin da subito» dice Riccardo Fois, suo ex assistente-allenatore a Gonzaga dove nella passata stagione era stato uno dei migliori giocatori della nazione.

Clarke è un giocatore che riesce sempre ad avere un impatto positivo quando è in campo e la sua straordinaria efficienza offensiva – già dimostrata nell’ultimo anno al college – nasce da una capacità superiore di conoscere se stesso e migliorarsi. «Possiede un’etica del lavoro fuori dal comune, non ha paura di fallire o provare cose nuove» continua Fois. «Già nel suo anno di inattività prima di arrivare a Gonzaga aveva iniziato a ristrutturare il suo tiro insieme a Brian Michealson e col tempo i risultati stanno iniziando ad arrivare». Lo dimostrano anche i numeri, visto che in tre anni è passato dal 56% al 77% ai liberi e dal 16% al 40% al tiro da tre.

Fase 5: organizzazione tecnico-tattica

Continuando a parlare di lui, Fois aggiunge due cose molto importanti. La prima è che «essendo passato da Gonzaga, uno dei pochissimi atenei che mette i lunghi al centro del progetto tecnico, [Clarke] ha avuto la possibilità di lavorare sul riconoscere le coperture difensive, essere creativi sui pick and roll, modificare i propri angoli di blocco e implementare letture più sofisticate», doti che lo rendono partner ideale sia di un lungo mobile come Jaren Jackson Jr. che uno più vecchio stile come Valanciunas. La seconda è che «aver avuto la fortuna di essere scelto dai Grizzlies, che gli danno la possibilità di sfruttare i suoi slip sul pick and roll con Morant, lo ha aiutato ad ambientarsi alla svelta». In questa seconda affermazione risiede la bontà del progetto di Kleiman e del lavoro di Jenkins.

Nelle prossime stagioni è lecito aspettarsi sempre più azioni di questo tipo, magari anche un maggior utilizzo dello Spain pick and roll, dove unire la visione di gioco e la capacità di penetrare di Morant, la gravità verticale di Clarke attorno al ferro e la versatilità di JJJ, tiratore da 38.6% nelle prime due stagioni in NBA.

Per quanto complementari tra loro, il talento di Morant, JJJ e Clarke non può bastare per avere la meglio sera dopo sera - specie in questa fase delle rispettive carriere, con i primi due che devono ancora compiere 21 anni. Ed è per questo che occorre implementare un sistema di gioco funzionale, organizzato e che metta ogni giocatore nelle condizioni migliori.

I Grizzlies sono sempre stati una franchigia con un’identità tattica maggiormente rivolta alla metà campo difensiva e lo stesso Jenkins – dopo aver contribuito a creare una delle difese più efficienti di sempre – sembra pensarla allo stesso modo. L’ex assistente allenatore dei Bucks ha iniziato a implementare alcuni dei suoi concetti: concedere più tiri fuori dal semicerchio (15 contro gli 11 della passata stagione), più triple (27 contro 24) e anche più triple aperte (sesti in assoluto, dopo il tredicesimo posto di un anno fa) e cercare in ogni modo di non regalare falli inutili. «Per difendere servono atletismo, dinamismo e mobilità di piedi» ricorda spesso Jenkins, preoccupato di inculcare ai suoi giocatori l’importanza di essere una squadra attiva e non passiva.

Difendere bene permette a Memphis di giocare maggiormente in transizione e soprattutto di alzare il ritmo. In un anno Memphis è passata dall’essere la squadra più “lenta” della lega (97 possessi a partita) alla settima che corre di più – forse il dato che più di tutti si dissocia con il passato –, potendo sfruttare l’atletismo supersonico di Morant e dei lunghi (tutti e tre oltre il 75° percentile in transizione) per aprire le difese avversarie. Perfino Gorgui Dieng ha visto la sua efficienza in transizione schizzare in alto nelle 12 partite disputate con la canotta dei Grizzlies.

Non solo i lunghi di Memphis sono efficaci in transizione ma sono anche tra quelli che perdono meno palloni in assoluto. Tra i giocatori di almeno 208 centimetri, JJJ e Valanciunas sono rispettivamente sesto e dodicesimo per minor percentuale di palle perse.

Come ama ripetere spesso Jenkins, i Grizzlies non vogliono giocare «un basket di strada» bensì essere organizzati. Questo non significa disegnare schemi su schemi alla lavagna, piuttosto costruire un ecosistema all’interno del quale ogni giocatore possa sentirsi libero di esprimersi. La presenza di Morant ha permesso di mettere maggiormente sotto pressione il centro area avversaria e anche le penetrazioni sono aumentate (da 41 a 47 a partita) mentre il flusso organico del movimento – di uomini e pallone – è stato semplificato. Memphis effettua meno passaggi (da 332 a 303 a partita) ma molto più efficaci, salendo fino al secondo posto nella classifica degli assist (l’anno scorso chiusero al 27° posto) e migliorando la selezione di tiro, arrivata a toccare il 56% reale. Il numero di possessi giocati in situazioni di post-up non è mai stato così basso da sei anni a questa parte, mentre al contrario il numero di passaggi consegnati e pick and roll è cresciuto esponenzialmente (dal 13% al 18% dei possessi totali).

L’aver dato delle linee guida fluide da applicare ha permesso a Memphis anche di sviluppare una second unit sempre efficiente. Avere una panchina capace di giocare sul livello dei titolari è uno dei segreti di Pulcinella della franchigia che ha cresciuto Jenkins ideologicamente, e l’ex assistente dei Bucks ha svolto un lavoro eccezionale. Basti pensare a come il quintetto composto da Jones, Konchar, Tolliver, Jackson Jr. e Dieng (ottavo per utilizzo con 50 minuti) abbia chiuso la stagione con un Net Rating positivo di oltre venti punti (!) per avere la riprova della bontà del sistema dei Grizzlies.

Crescere per consacrarsi

Adesso per Memphis arriva la parte più difficile, quella in cui cementificare il proprio status e, al tempo stesso, continuare a crescere come collettivo e singolarmente. Se – come tutti speriamo – la stagione dovesse ripartire presto, i Grizzlies vedrebbero la bontà del loro lavoro premiata da un giro di giostra alla post-season – e considerando le particolari, uniche condizioni in cui si giocherà (dopo due mesi di interruzione, molto probabilmente senza pubblico) potrebbero persino sognare un colpo clamoroso.

Una compilation dei migliori canestri di Morant, da guardare comodamente sul divano nell’attesa di quando ripartirà.

Nella prossima stagione la Western Conference potrebbe contare 15 squadre che, legittimamente, posso almeno fare un pensiero ai playoff. Confermarsi ad alto livello, soprattutto ad Ovest, è un’impresa faticosa – specie se le due stelle della squadra non possiedono ancora l’età minima consentita per bere in un locale – e per quanto i Grizzlies sembrano aver messo insieme tutte e cinque le fondamenta necessarie per un rebuilding con i fiocchi, le cose possono sempre cambiare in un attimo. Essendo cresciuto nell’area di Chicago, Zach Kleiman è un grande tifoso dei Chicago Cubs di baseball e sogna di poter seguire le orme del 28enne Theo Epstein, il più giovane General Manager di sempre a vincere un anello da professionista.

La strada è ancora lunga, tutto potrebbe ancora andare storto. Ma per una franchigia che solamente un anno fa non sembrava possedere una direzione guardare al bicchiere mezzo pieno è sempre la cosa più giusta da fare. I Memphis Grizzlies sembrano essere sulla strada giusta per tornare a far parlare di sé: non permettete a questa maledetta pandemia di ricordarvi della loro grande stagione e del loro radioso futuro.

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