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Il coronavirus ha fermato anche la NBA
12 mar 2020
12 mar 2020
Come la positività di Rudy Gobert al COVID-19 ha cambiato e cambierà lo sport americano.
(articolo)
7 min
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Era solo questione di tempo prima che il coronavirus arrivasse a fermare anche la pallacanestro NBA. Già da giorni, per non dire settimane, la lega aveva pianificato cosa fare nel caso in cui fosse successo quello che è successo stanotte, ovverosia che un giocatore NBA — Rudy Gobert degli Utah Jazz — è risultato positivo al COVID-19. E, a differenza di altri campionati in giro per il mondo che hanno provato a giocare a porte chiuse, non ha potuto esimersi dal sospendere immediatamente la regular season a tempo indeterminato, l’unica decisione giusta da prendere nel momento in cui un giocatore viene trovato positivo.

Dovrebbe ormai essere chiaro a tutti che non ci troviamo più in una situazione ordinaria, ma che stiamo assistendo a un periodo che verrà trattato sui libri di storia e con cui tutto il mondo deve fare i conti adesso. Gli Stati Uniti si trovano un po’ indietro a livello di percezione del pericolo rispetto a dove ci troviamo noi qui in Italia, ma quello che stanno affrontando anche loro non è diverso dalle tre settimane che abbiamo alle spalle sia da un punto di vista generale sia — ed è quello che possiamo trattare qui — dal punto di vista sportivo.

La NBA se non altro ha provato ad anticipare tutti gli scenari possibili: sarebbero probabilmente scattate già da domani le partite a porte chiuse per cercare di portare avanti il più possibile la regular season, ma inevitabilmente nel giro di una settimana o al massimo dieci giorni si sarebbe arrivati alla sospensione del campionato, così come succederà per tutte le altre competizioni per un minimo di due settimane. Il caso di positività di Rudy Gobert ha solo accelerato un processo irreversibile per una lega che porta in giro i suoi 450 giocatori (più gli allenatori, gli staff e gli arbitri) in lungo e in largo per un paese che attraversa tre fusi orari differenti. Solo negli ultimi dieci giorni i Jazz hanno giocato a Cleveland, a New York, a Boston e a Detroit, oltre che in casa contro Toronto e a Oklahoma City — dove sono stati fermati in fretta e furia appena prima della palla a due, bloccandoli poi in spogliatoio per le successive cinque ore per essere testati.

Basta pensare un solo secondo a quante interazioni possono aver avuto le persone coinvolte solamente nelle gare con gli Utah Jazz per capire che, su per giù, tutta la NBA e chi ci gira intorno è potenzialmente contagiato. Le misure più immediate sono state quelle di mettere in quarantena le ultime squadre che hanno affrontato Gobert, ma è solo questione di tempo prima che altri giocatori annuncino di aver contratto il virus e — molto probabilmente — che anche negli Stati Uniti si arrivi a misure di restrizioni ai movimenti come quelle che stiamo vivendo qui in Italia. Almeno in questo siamo davvero diventati un villaggio globale, come diceva Marshall McLuhan.

https://twitter.com/BleacherReport/status/1237897355489206272

I surreali minuti prima di decidere di annullare la sfida tra Oklahoma City Thunder e Utah Jazz (e successivamente tutte le partite della notte).

Le ripercussioni sportive dello stop

La domanda che tutti si fanno ora è quanto rimarrà ferma la NBA e, soprattutto, quali ripercussioni ci saranno sul medio e sul lungo periodo. Ovviamente con così poche informazioni e soprattutto senza nessun precedente è difficile rispondere ad entrambe le domande. Una stima (probabilmente ottimistica) prende come esempio le 10 settimane che il campionato di basket cinese si è imposto per tornare a giocare, con il ritorno in campo previsto l’1 di aprile dopo lo stop del 23 gennaio. Prendendo il calendario e contando le settimane, significa che in nessuna maniera i playoff possono cominciare alla data prevista del 18 di aprile, ovverosia tra poco più di cinque settimane, e che la prima data utile potrebbe essere il 20 di maggio, quando la NBA secondo il proprio calendario avrebbe già dovuto trovarsi alle finali di conference con sole quattro squadre ancora in corsa.

C’è la concreta possibilità che la regular season sia ormai da considerarsi conclusa, visto che le otto partecipanti ai playoff sono ormai ragionevolmente decise — ci sono tre partite e mezzo di distanza tra l’ottava e la nona a Ovest, e cinque e mezzo ad Est — e quasi tutte le squadre sono vicine alle 66 gare disputate nell’ultimo anno del lockout, quello del 2011-12. Pensare di finire l’ultimo mese di regular season (259 partite in tutto, circa il 21% del totale) e poi concludere tutti i playoff porterebbe la stagione ben dentro l’estate, probabilmente fino ad agosto per non dire settembre, facendo inevitabilmente saltare la presenza degli atleti NBA alle Olimpiadi di Tokyo (sempre se si terranno) e spingendo ancora più in là l’inizio della stagione 2020-21, forse fino a dicembre (e chissà che non sia la volta buona per accorciare la regular season su base stabile).

https://twitter.com/SportsCenter/status/1237930489400393728

Questa potrebbe anche essere stata l'ultima partita in NBA di Vince Carter.

Le ripercussioni economiche dello stop

Al netto di quanto non ci sia alcun dubbio che la salute viene sempre e comunque prima di tutto il resto, sicuramente la NBA ha sul tavolo tutti gli scenari economici possibili e immaginabili per un periodo di stop, ed è probabile che Adam Silver ne parli pubblicamente il prima possibile anche per rassicurare i propri partner commerciali. Stiamo pur sempre parlando di un business da oltre 7 miliardi di dollari, anche perché quella cifra — definita dal BRI, Basketball Related Income, ovverosia tutte le entrate economiche legate alla pallacanestro che vengono divise al 50% circa tra proprietari e giocatori — serve per definire non solo il salary cap delle squadre, ma anche gli stipendi dei protagonisti in campo. Insomma, i soldi persi hanno importanti ripercussioni su quello che succederà in campo.

La NBA si aspettava già una contrazione degli introiti dopo tutto quello che è successo a ottobre con la Cina, ma il coronavirus avrà certamente conseguenze economiche maggiori. È improbabile che i giocatori smettano di essere pagati da un giorno all’altro — per quanto nel contratto collettivo l’epidemia sia indicata come una delle motivazioni per cui i proprietari possano sospendere gli obblighi previsti dal CBA —, ma bisogna dare ormai per scontato che il cap sarà ben al di sotto dei 115 milioni di dollari per squadra attualmente messi in conto per il 2020-21. Bobby Marks di ESPN stimava una perdita di 500 milioni se la NBA fosse stata costretta a finire la regular season senza tifosi sugli spalti, prima ancora di considerare la questione playoff. Senza neanche le partite da trasmettere in tv, la situazione sarà anche peggiore — per quanto sia anche l’unica cosa giusta da fare.

È certo che la off-season a cui andremo incontro (quando ci sarà) vedrà una contrazione ulteriore dello spazio salariale a disposizione per le 30 squadre, con una ricaduta soprattutto su quei giocatori che erano alla ricerca di un grosso contratto da firmare quale ad esempio Danilo Gallinari. Con ancora meno spazio salariale a disposizione in giro per la lega, tutti i giocatori con una player option a loro favore saranno fortemente incentivati ad esercitarla, rimanendo nel loro accordo per la prossima stagione e rimandando al 2021 la ricerca di un contratto più remunerativo. Le squadre stesse dovranno essere ancora più creative del solito con un cap al ribasso, anche se questo potrebbe permettere alle contender di firmare giocatori che non avrebbero potuto permettersi a cifre più contenute (ad esempio quelli meritevoli di una mid-level che non ne troveranno in giro, preferendo giocarsi la possibilità di un anello piuttosto che un contratto a lungo termine).

È davvero difficile ora come ore capire in che modo evolverà la situazione in NBA: ci troviamo davanti a un evento le cui ripercussioni sono imprevedibili quanto il celeberrimo “cap spike” del 2016 che ha portato Kevin Durant a Golden State e ad un’estate folle dal punto di vista dei contratti in giro per la lega. Riuscire a immaginarsi come sarà la NBA — o, per quello che vale, lo sport professionistico e addirittura le interazioni personali — del prossimo futuro è difficile, ma allo stesso in qualche modo affascinante.

Sarà una delle cose che proveremo a fare in questi giorni in cui purtroppo non potremo più avere un pallone che rimbalza nelle nostre vite, nella speranza che si tratti solamente di una questione di tempo prima di riprendere una stagione che aveva tutte le premesse per rivelarsi straordinaria.

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