Nell’ultimo lustro gli Utah Jazz sono stati sinonimo di competenza e organizzazione. Attorno al duo formato da Donovan Mitchell e Rudy Gobert sono stati in grado di costruire minuziosamente, pezzo dopo pezzo, una squadra capace di arrivare sempre ai playoff vincendo tra le 48 e le 52 partitecon regolarità quasi svizzera. Grazie a una difesa sempre di altissimo livello (quattro anni su sei in top-3 per rating difensivo, con un nono e un 13° posto come risultati “peggiori”) e un attacco che nelle ultime due annate era da top-3 (lo scorso anno addirittura il migliore della lega), sotto la guida di Quin Snyder in panchina e dei due All-Star in campo erano riusciti a rinverdire i fasti dell’era Stockton-to-Malone, almeno in regular season.
Come ben sappiamo, ai playoff la storia è stata molto diversa. L’eliminazione subita per mano degli L.A. Clippers privi di Kawhi Leonard al secondo turno dei playoff 2021, in particolare, rappresenta il momento spartiacque della franchigia, che dopo quella sconfitta non è più sembrata in grado di ricreare quell’atmosfera magica che li aveva spinti a vincere 52 partite anche nell’anno ridotto a 72 gare per via del Covid. Lo scorso anno i Jazz si sono squagliati nelle loro idiosincrasie e le loro mancanze, sembrando una squadra sull’orlo del collasso nervoso prima ancora che tecnico-tattico.
Gli ingredienti per pensare che questa stagione sarebbe stata di tutt’altro tenore a livello di ambizioni, riviste al ribasso, c’erano tutti. Oltre all’addio di coach Snyder, che ha preferito prendersi un giro di pausa dalla giostra della NBA piuttosto che rimettersi in sella su un cavallo non competitivo, quattro quinti del quintetto sono stati ceduti sul mercato, da Royce O’Neale ai Brooklyn Nets a Rudy Gobert ai Minnesota Timberwolves, arrivando fino aDonovan Mitchell ai Cleveland Cavaliers e quindi Bojan Bogdanovic ai Detroit Pistons. Quattro cessioni pesanti che hanno portato alla causa un tesoretto di scelte degno del One Piece del pirata Gol D. Roger: i diritti su 14 prime scelte nei prossimi sette Draft (ma anche una in uscita), più due possibilità di scambio di scelte con Minnesota e Cleveland. Anche in una lega in cui diverse squadre come OKC o New Orleans hanno in mano una moltitudine impressionante di scelte, smantellando la propria squadra i Jazz si sono posizionati molto in alto nella classifica del tankometro. O almeno così pensavamo.
Davanti allo scintillio carico di futuro e speranze di così tante scelte al Draft, infatti, è passato un bel po’ sotto traccia anche il resto di ciò che i Jazz hanno ottenuto, cioè dei giocatori di pallacanestro fatti e finiti, e in gran parte dei casi pronti all’uso. “Plug and play”, come dicono negli Stati Uniti: inserisci la spina nella presa e funzionano senza dover fare chissà cosa. E avendo ceduto giocatori di altissimo livello (con conseguenti contratti pesanti), in cambio sono arrivati giocatori che messi assieme non pareggiano il valore di quelli ceduti, ma che presi uno per uno rimangono comunque più che competenti per riempire una rotazione NBA.
Una improbabile sala di attesa
A leggere il roster dei Jazz prima dell’inizio della stagione, era difficile cercare di comprendere il senso tattico dietro a come era costruito - anche perché, molto probabilmente, non c’era. Zach Lowe di ESPN aveva paragonato la loro situazione alla sala di attesa di un aeroporto, dove persone del tutto diverse si ritrovano a passare del tempo insieme attendendo che il loro volo li porti alla loro destinazione finale. Che cosa ci stanno a fare due veteranissimi come Mike Conley e Rudy Gay a farsi allenare da Will Hardy, un coach alla prima esperienza da capo-allenatore, peraltro nettamente più giovane di loro? E a condividere lo spogliatoio con rookie come Walker Kessler e Ochai Agbaji? Con giovani reduci da annate deludenti come Talen Horton-Tucker e Nickeil Alexander-Walker? Con mezzi veterani come Jordan Clarkson e Kelly Olynyk? Con giocatori in cerca di rilancio come Collin Sexton e Malik Beasley? Con europei come Lauri Markkanen eSimone Fontecchio e lunghi di sbattimento come Jarred Vanderbilt e Udoka Azubuike?
Eppure, in qualche modo, le tante anime diverse nello spogliatoio dei Jazz hanno finito per funzionare, e i primi ad accorgersene sono stati loro stessi. «Ci siamo guardati l’un l’altro e ci siamo detti: ma non siamo come ci dipingono» ha spiegato Mike Conley a The Athletic. «Abbiamo troppi buoni giocatori per tankare. E ce ne siamo resi conti dal primo giorno. Ci siamo detti che non eravamo così male e ci siamo uniti attorno a quel pensiero, credendoci per davvero». Lo scetticismo generale attorno a loro ha finito per fomentare i Jazz, dando vita a un improbabile quanto intrigante inizio di regular season.
Le previsioni di settembre li davano come candidati principali a guidare l’agguerrito gruppo del tanking per arrivare a Victor Wembanyama, non solo da parte di chi non ne capisce niente come il sottoscritto ma anche gente che di lavoro dovrebbe guadagnare soldi con le scommesse sportive come i bookmakers di Las Vegas. La quota dell’over-under pre-stagionale era di 24.5 vittorie, un traguardo che i Jazz rischiano di superare ancora prima che cominci il 2023, considerando che hanno vinto dieci delle prime tredici partite stagionali prima degli ultimi tre ko contro Washington, Philadelphia e New York. E più passa il tempo, più il resto della NBA deve cominciare a fare i conti col fatto che questa squadra non è più una sorpresa, ma che bisogna impegnarsi sul serio per batterli.
Perché questi Jazz sono fatti per rimanere
Come sempre accade quando ci si ritrova davanti a una sorpresa così grande, il mondo si è diviso tra scettici e sostenitori di questo inizio di stagione, tra chi pensa che quello che hanno tra le mani sia sostenibile e chi invece li vede sgonfiarsi nel giro di poco tempo. Ci sono ovviamente argomentazioni per entrambe le parti, ma visto che l’ottimismo è il profumo della vita partiamo da quelle a favore. I Jazz hanno giocato più partite di tutti (16) e più partite in trasferta di chiunque altro (10), eppure nonostante il calendario difficile hanno il terzo miglior differenziale su 100 possessi della Western Conference (e il sesto in assoluto) nonché un record immacolato in casa (5-0 prima del ko contro i Knicks, solo Denver è rimasta imbattuta).
Tra le vittime dei Jazz ci sono squadre che lo scorso anno hanno fatto i playoff come Denver, Minnesota, New Orleans, Memphis (due volte) e Atlanta, oltre alle due squadre di Los Angeles nel giro di tre giorni. Utah ci sta riuscendo con il sesto miglior attacco della NBA, un rating insostenibile per quello che è il loro talento complessivo, ma senza forzare disperatamente da tre punti (sono sesti per tentativi) né segnando con percentuali stratosferiche (decimi in classifica dall’arco, noni per percentuale effettiva complessiva). Anche il dato che viene maggiormente indicato come responsabile dei loro successi, cioè le basse percentuali da tre punti degli avversari (33.6% complessivo) è solo il quinto dato migliore della NBA, e soprattutto i Jazz sono i più bravi di tutti a togliere conclusioni dal perimetro agli avversari, visto che nessuno come loro fa tirare poco da tre (sotto il 31% complessivo) prima ancora che male.
Al di là dei numeri, però, i Jazz sono in grado di mettere in campo ogni sera una rotazione formata da dieci giocatori NBA competenti, seppur nessuno di loro sia necessariamente autosufficiente sul campo da basket. Se il quintetto base formato da Conley, Clarkson, Markkanen, Vanderbilt e Olynyk è all’incirca pari nei differenziali su 100 possessi (+2.8 in 311 possessi giocati), la second unit formata da Sexton, Beasley, Horton-Tucker, Gay e Kessler è a +18.9 in 79 possessi disputati, e in generale quasi tutte le alchimie tattiche di coach Hardy finiscono per funzionare bene in campo. Questo perché i Jazz giocano forte ogni possesso e non si fanno prendere dal panico, riuscendo a rimettere in piedi anche partite che non avevano alcuna legittimità di vincere come quelle recenti contro i Clippers o contro gli Hawks (alla terza gara in quattro giorni in tre città diverse).
Tolto il lungo Walker Kessler, Hardy ha tra le mani una rotazione in cui tutti i giocatori sanno tirare, passare e palleggiare e in cui tutti possono far partire la transizione non appena recuperano il pallone (i Jazz non corrono tantissimo, ma quando ci riescono lo fanno alla grande, con la sesta miglior efficienza in transizione). E, soprattutto, tutti i giocatori stanno giocando al massimo livello in carriera, anche gente come Mike Conley che lo scorso anno ai playoff sembrava arrivato al capolinea e che invece adesso viaggia ai massimi in carriera per assist a 8.1 a sera, alla 16^ stagione con una franchigia NBA. Jordan Clarkson, scavallati i 30 anni, sembra che non abbia fatto altro in carriera se non guidare squadre competenti col piglio del veterano ecumenico, così come Kelly Olynyk (50% da tre in stagione: ok questo non è un dato sostenibile) si è rivelato per l’ennesima volta indispensabile per la sua squadra.
Al centro di tutto questo c’è poi il miglior Lauri Markkanen che abbiamo potuto vedere in NBA, finalmente vicino a quello ammirato con la nazionale finlandese agli Europei. Proprio prendendo spunto da come veniva utilizzato con la Finlandia, coach Hardy ha cucito su di lui un vestito perfetto, permettendogli di esplorare in profondità uno skillset più variegato di quello che si immaginavano a Chicago (dove anche lui era andato in crisi di fiducia) e di cui avevano bisogno a Cleveland (che con così tante bocche da fuoco attorno non aveva bisogno della sua capacità di mettere palla per terra ma solo del suo tiro perimetrale, che non è neanche adesso la cosa che gli riesce meglio visto che sta tirando col 34% da tre). In poco tempo Markkanen si è elevato come giocatore barometro della squadra: quando ha segnato 18 o più punti il record della squadra è 9-0, ma quando è rimasto sotto quella soglia è 1-6.
Il miglior Lauri Markkanen di sempre.
Non avendo una superstar a cui affidare oneri e onori, i Jazz hanno rispolverato un po’ di quell’attacco egualitario e basato sulla creazione di vantaggi che avevano messo in mostra all’inizio dell’era Snyder. Utah è quinta per assist a partita, quarta per passaggi che portano direttamente a un tiro e sesta per punti creati da assist, con un eccellente rapporto tra assist e palle perse. Dietro alla leadership di Mike Conley, che con l’addio di Mitchell è tornato ad avere il pallone tra le mani e sta dimostrando di sapere ancora come si guida un attacco competente, i Jazz hanno riscoperto il piacere di passarsi il pallone che sembravano aver smarrito negli ultimi anni, specialmente nelle ultime stagioni in cui (seppur con ottimi risultati in termini di rating offensivo) erano al penultimo posto per assist potenziali, prendendosi spesso e volentieri il primo tiro disponibile dal palleggio.
Perché l’inizio dei Jazz non è sostenibile
Avere una squadra che si passa tanto il pallone non è però automaticamente sintomo di un attacco efficiente, anzi. Spesso i Jazz danno l’impressione di passarsela così tanto perché non c’è nessuno in grado da solo di “spaccare” una difesa e creare vantaggi, che è il rischio che si corre quando le difese cominciano a conoscerti e reagiscono al tuo movimento di palla. Ci sono esempi di squadre che hanno cominciato forte per poi perdersi: senza andare tanto lontano, anche gli Washington Wizards dello scorso anno sono partiti 10-3 e poi hanno vissuto il resto della stagione nella mediocrità più assoluta (22-44).
Anche quegli Wizards, come questi Jazz, approfittarono delle brutte percentuali avversarie da tre punti per cominciare bene. Ma la regressione verso la media sta arrivando anche per i Jazz: dopo le 16 triple segnate da Washington e soprattutto il massacro che Joel Embiid ha perpetrato ai loro danni, segnando 59 punti nella partita di inizio settimana, il defensive rating di Utah è crollato al 20° posto in NBA, ridimensionando un po’ il loro rendimento nella propria metà campo ed esponendone i limiti di talento davanti ai mammasantissima della lega entrati finalmente in forma dopo un inizio balbettante.
Proprio la condizione atletica, poi, è stato uno dei segreti dei Jazz in questo primo mese di regular season. La squadra di coach Will Hardy è sembrata nettamente più in forma rispetto a quasi tutti gli avversari che ha affrontato, una freschezza evidente soprattutto nei finali punto a punto nel quale hanno un differenziale di +19.5 in 41 minuti disputati (quinti in assoluto) e dove hanno potuto sfruttare a proprio vantaggio anche la profondità del roster (solo Markkanen gioca 33 minuti di media, poi nove giocatori tra i 14.6 di Kessler e i 30.4 di Clarkson). Un retroscena di The Athletic ha rivelato che nei primi giorni di training camp coach Hardy era solito far giocare partitelle alla sua squadra praticamente per due ore filate, per poi cominciare il lavoro atletico solo dopo che erano tutti già stanchi — col rischio di alienare i suoi veterani, specie essendo lui un allenatore rookie, ma che in un modo o nell’altro ha funzionato con questo gruppo senza All-Star.
Anche un piccolo calo di forma da parte di una squadra che è partita così bene e un prevedibile calo nelle percentuali (specialmente dagli angoli, dove i Jazz stanno tirando con il 46.4%, dietro solo ai Denver Nuggets) può significare un drastico stop per questo gruppo, che non ha nemmeno la capacità di procurarsi viaggi in lunetta (è la quinta squadra che ne tenta di meno) per potersi stabilizzare quando il tiro perimetrale smetterà di entrare con queste percentuali. E in tutto questo non abbiamo ancora parlato della variabile più importante: se non ci penserà la squadra a fermarsi da sola, quand’è che la dirigenza guidata da Danny Ainge deciderà che si è superato il segno?
La nave del tanking è già salpata?
In una stagione in cui il pezzo pregiato messo in palio dal Draft èun giocatore che non si è mai visto come Victor Wembanyama, ogni piccolo dettaglio può fare la differenza. Secondo il calcolo di Zach Kram su The Ringer, avendo già accumulato 10 vittorie i Jazz ne dovrebbero vincere solamente altre 10 da qui al termine della stagione per potersi iscrivere alla corsa per Wembanyama. Di fatto, con questo primo mese di alto livello, la nave del tanking potrebbe già essere salpata per Utah, che ha fin troppe sconfitte da recuperare a squadre come Houston (2-12) o Detroit (3-12). In loro soccorso viene il fatto che anche con il sesto o il settimo peggior record della lega non si è del tutto fuori dalla corsa alla prima scelta assoluta, ma concludere la regular season con un record di 10-56 sarebbe difficile persino impegnandosi.
C’è poi da considerare il tipo di messaggio che Ainge darebbe all’intera franchigia — e anche all’Olympic Tower sede della NBA, che osserverà molto attentamente ogni atteggiamento sospetto — se decidesse di imprimere un’accelerazione così palese verso il basso. Far saltare per aria una squadra che ha comunque dato segnali di competenza in una Western Conference molto agguerrita vorrebbe dire scherzare un po’ troppo col karma, che non è mai una bella idea. Non è da escludere che qualcuno dei giocatori attualmente a roster venga ceduto nel corso della stagione, ma il valore di mercato di certi protagonisti — da Conley a Clarkson fino ovviamente a Markkanen — è cambiato dopo questo inizio di stagione, e potrebbero aver giocato talmente bene da superare qualsiasi offerta possa essere recapitata ai Jazz, anche solo per l’effetto che potrebbe avere andare a toccare un meccanismo che sta funzionando.
I Jazz, dal canto loro, dormono sonni tranquilli sopra una montagna di scelte al Draft, a partire da quella dei Minnesota Timberwolves non protetta nel 2023 che al momento ha il 3.9% di possibilità di essere la numero 1. Aver scommesso così pesantemente sul futuro di squadre non abituate a rimanere sempre in alto come T’Wolves e Cavs può portare benefici nel lungo periodo capaci di cambiare la traiettoria intera della franchigia indipendentemente da come si concluderà questa stagione. Certo, Wembanyama è un talento in grado di cambiare qualsiasi squadra dalla sera alla mattina, ma i Jazz possono permettersi di guardare anche più in là: la vita non finisce con il francese, così come non è finita dopo gli addii di Mitchell e Gobert. A volte, anche solo godersi il viaggio senza preoccuparsi della destinazione finale può essere più che soddisfacente.