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Foto di Garrett Ellwood / NBAE via Getty Images
NBA Dario Vismara 17 febbraio 2021 10'

Tutti quanti vogliono fare gli Utah Jazz

Con un volume enorme di triple e la difesa orchestrata da Rudy Gobert, i Jazz sembrano un’equazione irrisolvibile per il resto della NBA.

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Ogni volta che una squadra NBA comincia a vincere una lunga serie di partite in fila, c’è sempre una certa corsa a cercare di capire il loro “segreto”. Anche gli Utah Jazz non fanno eccezione: dopo aver chiuso le prime otto partite di regular season con un record di 4 vittorie e 4 sconfitte, la squadra di coach Quin Snyder ha preso il decollo, vincendo 19 delle successive 20 gare disputate e prendendosi il primo posto nella Western Conference davanti alle due squadre di Los Angeles, realizzando la miglior partenza nella storia della franchigia.

 

I Jazz hanno cominciato la stagione con il ricordo della cocente eliminazione subita per mano dei Denver Nuggets al primo turno dei playoff della bolla, una serie destinata a essere ricordata soprattutto per l’eccezionale duello tra Donovan Mitchell e Jamal Murray, vinto poi dal secondo. Non bisognerebbe dimenticare però che quei Jazz sono andati a pochi centimetri dall’eliminare la squadra che è poi avanzata fino alle finali di conference. Non solo sono stati sopra 3-1 nella serie, ma Mike Conley ha avuto il tiro finale per vincere gara-7  con il ferro che ha beffato i Jazz e li ha condannati a mesi di rimpianti.

Gli ultimi drammatici 17 secondi di gara-7: la palla persa banale di Mitchell, il contropiede sbagliato da Torrey Craig e l’ultimo tentativo di Conley che avrebbe potuto aprire loro le porte del secondo turno.

 

I Jazz affrontavano quei playoff senza poter contare su Bojan Bogdanovic, operato al polso e fuori causa anche per buona parte del training camp successivo, al quale tutta la squadra si è presentata in eccellenti condizioni fisiche e con grande voglia di rivalsa dopo quanto successo a Disney World, come raccontato da Donovan Mitchell. Il fatto di aver mantenuto poi il nucleo della scorsa stagione — aggiungendo giusto Derrick Favors, di rientro a Salt Lake City dopo un anno a New Orleans e già perfettamente a suo agio nel sistema di coach Snyder — ha dato loro una continuità che è tornata decisamente comoda in questa stagione in cui sostanzialmente non ci si allena e si gioca ogni due giorni.

 

Dopo un inizio in cui Bogdanovic ha segnato solo il 34% delle sue conclusioni da tre punti (e con dentro anche un super 6/7 contro i San Antonio Spurs), da quando il croato ha ricominciato a fare canestro da tre punti con percentuali in linea con quelle della sua carriera i Jazz sono decollati, macinando vittorie su vittorie contro avversari di ogni tipo — da contender come Milwaukee e Philadelphia a squadre da playoff come Denver e Golden State alle finaliste di conference dello scorso anno in Boston e Miami. Delle 19 vittorie nelle ultime 20 gare disputate, solamente due sono state con uno scarto inferiore ai 10 punti, e l’unica sconfitta è arrivata in una partita durante la quale i Nuggets non potevano sbagliare da dietro l’arco, chiudendo all’intervallo con 15/17 da tre e la percentuale più alta mai vista in un tempo nella storia della NBA.

 

Triple su triple su triple

Quello che è decisamente particolare di questo straordinario ruolino di marcia dei Jazz è che in realtà non fanno niente di rivoluzionario. Di fatto, sono esattamente i Jazz che abbiamo imparato a conoscere in questi anni: giocano sempre tantissimi pick and roll centrali sfruttando i blocchi di Rudy Gobert; cercano di costruire un vantaggio e di ampliarlo con ogni passaggio e ogni penetra-e-scarica alla ricerca del miglior tiro possibile; difendono forte per togliere le conclusioni da tre e “imbottigliare” gli avversari verso il centro del campo, dove si ritrovano a fare i conti con la lunghezza delle braccia di Gobert e Favors. L’ingresso di Bogdanovic e Conley ha aggiunto un po’ di pericolosità offensiva, ma di certo coach Snyder non ha reinventato la ruota, prendendo “pezzi” da varie squadre un po’ ovunque in giro per la NBA e inserendole nel loro contesto.

 

Intelligentemente però il coaching staff di Utah ha lavorato ai margini per esplorare internamente tutti i miglioramenti possibili. Sin dall’inizio dell’anno l’allenatore dei Jazz ha sottolineato la necessità di aumentare il numero di tentativi da tre punti e la squadra ha risposto in maniera eccezionale. Da un anno all’altro i Jazz sono passati dal tentare il 38.2% dei loro tiri da tre punti al 45.2% con cui guardano il resto della lega dall’alto verso il basso (i secondi per tentativi da tre, i Portland Trail Blazers, si fermano a 42.7%, dati Cleaning The Glass). I Jazz hanno una selezione di tiri decisamente Rocketsiana: sono terz’ultimi per tentativi dalla media distanza (il 23.4% del loro totale) e ultimissimi per long 2s (appena il 4.4%, due punti percentuali pieni sotto Houston), limitando i loro tentativi dalla media ai floater che si prendono Jordan Clarkson e Mike Conley con grandi percentuali (sopra il 50% in una zona di campo in cui in NBA mediamente si tira col 42.6%).

 

All’enorme volume di triple generate Utah unisce anche percentuali di altissimo livello, essendo una delle quattro squadre che tira sopra il 40% da tre punti di squadra (nonostante un 38.3% dagli angoli che è in realtà sotto la media della NBA). Ma contrariamente a quello che si può pensare, i Jazz non stanno tirando con percentuali insostenibili, quanto piuttosto stanno raccogliendo tutto quello che seminano con cura certosina. In base a dove si prendono i tiri dovrebbero segnare con il 55% di percentuale effettiva, mentre in realtà viaggiano al 56.9% — una differenza significativa, certo, ma di molto inferiore rispetto alla capacità di shot-making di squadre come Brooklyn (+4.3%), Milwaukee (+3.2%) e L.A. Clippers (+4.3%).

 

 

Anche in una serata da 26% da tre punti, la peggiore della loro stagione per percentuale, i Jazz sono riusciti comunque a costruire soluzioni di ottimo livello muovendo il pallone e mandando costantemente in rotazione gli avversari, riuscendo a battere i Miami Heat di 18 punti. Le conclusioni che creano sono quasi sempre ad alte percentuali, sfruttando al massimo la presenza di tanti buoni creatori di gioco secondari abilissimi ad ampliare il vantaggio creato a inizio azione – uno dei segreti del gruppo di Snyder, che muove Gobert in giro per il campo a portare blocchi per tutti i compagni come se fosse una torre sulla scacchiera.

 

I Jazz tentano 21.7 triple a partita in cui i loro tiratori vengono definiti come “wide open” da stats.nba.com, ovverosia con il difensore a più di due metri di distanza. Solo Oklahoma City (che però ha tanti cattivi tiratori “battezzabili”) se ne prende di più, ma Utah converte quelle conclusioni smarcate con il 42.5% — dietro solo a Clippers e Nets, che hanno un volume decisamente minore. Questo non significa che i Jazz provino solo tiri dopo uno sviluppo dell’azione corale, ovviamente: per arrivare a quel volume di triple c’è bisogno anche di numerose conclusioni dal palleggio e/o non assistite, e i Jazz sono praticamente testa a testa con i Portland Trail Blazers anche per i tiri da tre creati in proprio dalla batteria di esterni formata da Conley, Mitchell, Clarkson e Ingles — tutti con un volume compreso tra il 27% e il 42% di canestri da tre non assistiti.

 

 

Non provateci neanche a passare sotto i blocchi coi Jazz: qui Joe Ingles fa fare due brutte figure in fila alla difesa conservativa dei Bucks sui pick and roll, aprendo la strada di una grande vittoria. I Jazz di squadra tirano col 38% dal palleggio da tre punti e sono sopra il 40% quando tirano dopo 2-6 palleggi – situazione di gioco in cui eccelle Jordan Clarkson, che tira col 41% dal palleggio da tre punti.

 

Volume di tiro + difesa della linea da tre = vittorie

Magari i Jazz non continueranno a tirare con queste percentuali, ma fino a che lo faranno (e ormai stiamo parlando di praticamente tutta la regular season) metteranno gli avversari davanti a un dilemma matematico quasi irrisolvibile, specie se si considera il loro schema difensivo basato sulla presenza in pitturato di un due volte Difensore dell’Anno come Rudy Gobert, candidato principale a portarsi a casa il premio anche quest’anno.

 

Prendendo per buoni i dati di Cleaning The Glass che elimina dai suoi calcoli i garbage time, i Jazz tentano il 45% dei loro tiri da tre punti e tengono gli avversari appena al 32.4% (solo Minnesota ne concede meno di loro). Quella discrepanza di oltre il 13% di tiri da tre punti tentati crea un solco che gli avversari hanno molte difficoltà a colmare, specie se i Jazz manterranno il loro volume di conclusioni e di percentuali da dietro l’arco. Teoricamente una squadra a cui viene negato il tiro da tre potrebbe compensare con una maggiore efficienza in quelli da due punti (idealmente arrivando di più al ferro) o andando di più in lunetta. Ma è proprio qui subentra l’unicità di Gobert, che non solo nega alte percentuali al ferro agli avversari ma proprio sconsiglia loro di arrivare a tirarci, costringendoli a prendersi conclusioni difficili dalla media distanza. E i Jazz sono anche bravissimi a togliere i tiri liberi agli avversari, difendendo con grande disciplina per non commettere falli che mandano in lunetta (solo OKC ha una frequenza di falli per tiri inferiore a loro).

 

Per compensare quel numero di tiri da tre tentati in meno gli avversari dei Jazz dovrebbero tirare ben al di sopra del 50% dalla media distanza, una percentuale semplicemente insostenibile: persino i migliori interpreti del mid-range come Steph Curry o Chris Paul vengono considerati élite quando tirano sopra il 50%, e certamente non giocano tutti nella stessa squadra (anzi: il migliore di tutti, Georges Niang, gioca proprio a Utah). Chi affronta i Jazz, invece, viene tenuto al 37.6% — il miglior dato di tutta la NBA — su un numero altissimo di tentativi, visto che solo Washington forza di più gli avversari a tirare dal mid-range.

 

 

Un po’ di stoppate direttamente dalla collezione 2021 di Monsieur Gobert, il più grosso cartello di blocco stradale dell’era moderna. I giocatori avversari sembrano muoversi su un piano inclinato che li porta direttamente nelle sue fauci anche quando provano a evitarlo in ogni modo, come Kemba Walker con lo step back. In una stagione eccezionale per tutti i Jazz, quando esce lui la difesa crolla di quasi 9 punti su 100 possessi.

 

Il dato relativo alla “floater area”, quello spazio di campo che va da uno a quattro metri di distanza dal canestro, è particolarmente interessante: i Jazz grazie alla presenza di Gobert e Favors ne forzano tantissimi e gli avversari non li segnano praticamente mai, visto che la percentuale concessa è pari al 37.4% — oltre cinque punti percentuali in meno rispetto alla media NBA. Insomma, serve un outlier statistico per battere i Jazz quando riescono a confermare le loro medie stagionali, e non è un caso che a riuscirci siano stati proprio i Nuggets con quel primo tempo da 15/17 da tre (in una gara in cui Utah ha comunque vinto il secondo tempo 63-49 quando le percentuali di Denver si sono normalizzate).

 

Vincere senza inventarsi niente

Anche in questo caso, non si tratta di niente di rivoluzionario: quella di tentare molti più di tiri da tre e cercare di toglierli il più possibile agli avversari è una tattica su cui gli Houston Rockets hanno “speculato” per anni, ma che in questa stagione sembra regalare più dividendi del solito. Fino allo scorso anno le migliori difese della NBA come quelle di Milwaukee, Miami e Toronto riuscivano a mantenere alta efficienza pur concedendo tanti tentativi da tre agli avversari, provando a “battezzare” i cattivi tiratori e invogliare le squadre a farli tirare pur di proteggere il più possibile il pitturato. I giocatori NBA sono però animali adattivi e sanno come regolarsi in base alle mutate condizioni che si trovano davanti: complice anche probabilmente la mancanza di pressione dal pubblico sugli spalti, quest’anno si sta segnando come non mai da tre punti non solo in termini di volume — ormai un trend consolidato negli anni e, spoiler alert, destinato a continuare ancora — ma anche di percentuali, specialmente nelle conclusioni non contestate.

 

Fino a due anni fa, la media NBA nelle triple con l’avversario a due o più metri di distanza era del 38%, salendo leggermente al 38.4% nella scorsa regular season. Quest’anno siamo ben al di sopra con il 39.6% di conclusioni a segno, e le difese che “scommettevano” sulle cattive percentuali avversarie stanno avendo vita molto più dura. L’unica squadra in top-5 per triple concesse agli avversari con un rating difensivo da prime cinque è la New York di Tom Thibodeau, mentre Miami a malapena è aggrappata all’ottavo posto e sia Milwaukee che Toronto sono scivolate fuori dalla top-10. Anche squadre come New Orleans — con Stan Van Gundy che aveva elogiato e quindi implementato la scelta di far tirare programmaticamente gli avversari — stanno venendo sotterrate da grandinate di triple praticamente su base quotidiana in una lega in cui i giocatori, dopo così tante ripetizioni, stanno imparando a tirare ogni volta che ne hanno l’opportunità — e a far pagare chi li sfida.

 

Al contrario, sette delle prime undici squadre NBA per tiri tentati da tre punti sono anche in top-11 per rating offensivo, con le uniche eccezioni rappresentate da squadre in difficoltà come Miami e Houston o dal talento limitato come Golden State (che però può contare sul glitch con il numero 30) o Oklahoma City. Tutte le altre, da Portland a Milwaukee fino agli stessi Jazz o Brooklyn, anche quando le percentuali con cui tirano sono sotto la media della NBA come nel caso di Phoenix e di Dallas. Avere un alto volume di triple tentate in questo momento “rende”, anche se mettere quelle conclusioni nelle mani giuste è ovviamente un logico lasciapassare per un attacco più efficiente.

 

Gli Utah Jazz in questo senso sono la squadra simbolo di questa stagione, o quantomeno quelli che la stanno interpretando nel migliore dei modi. Invece di lamentarsi delle difficili condizioni in cui tutti sono costretti a muoversi, tra protocolli rigidissimi e ritmi di partite altissimi, si sono rimboccati le maniche e si sono rimessi al lavoro, trovando un equilibrio di squadra in cui anche l’assenza di un membro fondamentale come Conley viene assorbita con estrema naturalezza. Rimangono una squadra piuttosto corta a livello di rotazione, che ha picchi di talento in pochi giocatori che devono ancora dimostrare di poter essere davvero considerabili dei top-10 della NBA. Ma sono anche la dimostrazione di come, facendo le cose per bene e con un alto livello di esecuzione, si possono raccogliere vittorie su vittorie — e chissà che in primavera le loro fondamenta solidissime non si rivelino più ostiche da superare anche per franchigie più quotate di loro.

 

Tags : donovan mitchellgobertutah jazz

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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