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Sette volti nuovi sulle panchine NBA
05 nov 2020
Come cambiano le sette squadre che quest’anno hanno deciso di affidarsi a un nuovo allenatore.
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17 min
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Foto di Michael Reaves / Getty Images
(copertina) Foto di Michael Reaves / Getty Images
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Finita l’euforia per aver concluso la stagione nel migliore dei modi, con l’unico +1 aggiunto nella casellina dei titoli vinti dai Los Angeles Lakers e non in quella dei contagi, la NBA si è affacciata a una delle offseason più incerte di sempre. Ancora non sappiamo quando inizierà la prossima stagione (anche se potrebbe ripartire prima del previsto!) e non sappiamo quale sarà davvero l’impatto economico delle limitazioni dovute alla pandemia, quanti soldi in meno ci saranno e quanto questo finirà per influenzare i piani delle franchigie.

Ma neanche la grande incertezza di questi mesi ha impedito al grande valzer delle panchine NBA di regalare grandi sorprese e colpi di scena. Quando la palla a due della stagione 2020-21 verrà alzata ci saranno ben dieci nuovi allenatori rispetto alla passata stagione, un trend che ormai abbiamo imparato a conoscere in questi anni. Di questi dieci uno ancora non ha un volto, visto che gli Oklahoma City Thunder non hanno preso una decisione definitiva, mentre altri due già abbiamo imparato a conoscerli, con la vecchia conoscenza J.B. Bickerstaff a Cleveland e quella nuovissima dei Brooklyn Nets della prima gestione Steve Nash. Ma gli altri sette? Chi sono? E quali aspettative ci sono su di loro?

Il crocevia dei nuovi Clippers di Tyronn Lue

Il premio di Allenatore Con Più Pressione Fin Dal Primo Giorno non può che non andare a Tyronn Lue, diventato il nuovo capo allenatore degli L.A. Clippers. È inutile girarci tanto intorno: qualsiasi risultato sotto (quantomeno) il raggiungimento delle prossime Finals andrebbe visto come un fallimento e minerebbe la stabilità futura di una franchigia che non possiede una prima scelta al Draft fino al 2027 e che l’estate prossima potrebbe fare i conti con l’uscita dal contratto di Kawhi Leonard e Paul George.

I Clippers vengono dalla stagione più Clippers della loro storia, dove una off-season chirurgica e ai limiti della perfezione è andata sgretolandosi man mano che la stagione si avvicinava al traguardo finale, finendo nella disastrosa eliminazione al secondo turno contro i Denver Nuggets. A farne le spese è stata la panchina di Doc Rivers, ma le scorie venute in superficie dopo la debacle sono ancora più preoccupanti e parlano di uno spogliatoio molto meno coeso di quanto sarebbe lecito aspettarsi da una squadra da quasi 60 vittorie in regular season.

La franchigia ha scelto la strada della prudenza, promuovendo Lue dopo una stagione da capo assistente e dando fiducia alle sue capacità di comunicatore e motivatore. Per essere stato un giocatore normale, diventato famoso soprattutto per lo step-over più famoso di tutti i tempi (e questo nonostante i due titoli vinti con i Lakers) dal lato sbagliato, Lue è un allenatore che sa farsi apprezzare dai propri giocatori. E se è vero che l’intelligenza si misura anche dall’intuito, è probabile che Lue sia uno degli uomini più intelligenti di sempre (a questo proposito l’intelligenza di Lue si vede anche dal coaching staff che sta formando, con il trio Larry Drew, Dan Craig e Kenny Atkinson che promette molto bene). Per diventare capo allenatore di due delle squadre simbolo dell’epoca recente non basta la fortuna o le raccomandazioni di questo o quel giocatore; occorre anche sapersi far trovare al posto giusto nel momento giusto e questa non è una dote da sottovalutare.

Nella sua breve esperienza da capo allenatore Lue ha dimostrato di saper gestire un gruppo sotto pressione e pieno di primedonne, così come di saper massimizzare il talento dei singoli a disposizione ottenendo risultati concreti. Il titolo dei Cavs del 2016 con un attacco da oltre 119 punti segnati su cento possessi è il miglior biglietto da visita per una franchigia che vuole disperatamente sedersi al tavolo delle big della lega. È troppo presto per dire se Lue sia davvero l’uomo adatto per permettere ai Clippers di imboccare il sentiero giusto; di sicuro ha il lavoro più difficile se consideriamo la pressione che gli è stata messa addosso.


Doc Rivers e il cambiamento ideologico dei Sixers

Se Lue dovrà riuscire a fare quello che Rivers non è stato in grado di fare in sette anni, il compito di Rivers sulla panchina dei Philadelphia 76ers sarà per certi versi ancora più arduo. Da tre anni la franchigia si interroga sull’ossimoro tattico che coinvolge Ben Simmons e Joel Embiid, e la domanda non è tanto se i due siano capaci di condividere il terreno di gioco (nei 4.058 minuti tra regular season e playoff che i due hanno giocato fianco a fianco i Sixers hanno un Net Rating positivo di oltre 14 punti), quanto se con entrambi a roster sia possibile costruire una squadra da titolo. Perché i giorni del tanking sono finiti da un pezzo ma i risultati per il momento continuano a non arrivare.

Soltanto i Golden State Warriors possiedono un monte ingaggi più oneroso di quello dei Sixers nella prossima stagione e non è da escludere che questo abbia pesato sulla decisione di assumere Rivers, forse il miglior compromesso tra prestigio e affidabilità che il mercato degli allenatori potesse proporre. Sotto il punto di vista tecnico-tattico in molti avrebbero preferito una scelta più coraggiosa (anche se l’arrivo di Dave Joerger come assistente e l’ammissione dello stesso Rivers di voler alzare il ritmo sono due fattori interessanti), ma il suo è un curriculum di tutto rispetto. Negli anni di Los Angeles ha dimostrato sia grande flessibilità offensiva che adattabilità al materiale umano a disposizione, due doti che potrebbero tornare comode visto che il nuovo presidente delle operazioni cestistiche Daryl Morey potrebbe ribaltare il roster nella speranza di trovare la quadratura giusta.

Dopo l’assunzione di Rivers i Sixers erano diventati la terza franchigia, dopo Cleveland e Detroit, ad avere capo allenatore e General Manager afro-americano in Elton Brand (seppur poi superato in grado da Morey). Una cosa importante per una lega che negli ultimi anni sembra aver intrapreso un pericoloso percorso di omologazione razziale.

La scelta di Rivers è sicuramente una scelta conservatrice (la scelta di una franchigia consapevole di non avere più il tempo di sbagliare progetto) e più che specificatamente tecnica appare come una mossa quasi politica. Il vocione roco di Rivers è ancora abbastanza potente da spazzare via potenziali malumori qualora il processo (sic) di maturazione della squadra necessiti di ulteriore tempo, e nonostante la seconda, clamorosa rimonta subita da situazioni di grande vantaggio ai playoff (dopo quella di gara-6 contro i Rockers nel 2015) la sua resta una delle figure più stimate della lega.

Se i Clippers sono diventati una franchigia in grado di far indossare la propria jersey a giocatori del calibro di Leonard e George parte del merito è da attribuire al percorso di istituzionalizzazione intrapreso in primis da Rivers, le cui doti aggregative da santone potrebbero fare comodo a un’organizzazione non sempre perfettamente allineata (voci di corridoio dicono che Brand e la proprietà avessero opinioni diverse e che la scelta di Rivers sia stata una sorta di “troviamoci a metà strada”) e che ha un disperato bisogno di stabilità.


I Knicks sono l’ultima chance per Tom Thibodeau?

A proposito di stabilità: con l’assunzione di Tom Thibodeau, i New York Knicks sono arrivati al sesto allenatore cambiato negli ultimi sette anni. Come Rivers anche il suo ex assistente ai tempi di Boston è un allenatore dal nome pesante, da titolo in prima pagina, ma se la scelta di Philadelphia appare conservatrice quella del nuovo front office dei Knicks sembra più che altro mediocre.

Un passatista come Thibodeau ha già fatto vedere di durare molta fatica a adattarsi al nuovo contesto storico della lega, dove i rapporti tra allenatore e giocatori sono più sottili e il load management fa apparire i suoi metodi di lavoro ancora più superati. Anche sotto l’aspetto tecnico Thibodeau sembra aver perso il tocco, tanto che nei due anni e mezzo a Minnesota i Timberwolves non sono mai andati oltre il ventisettesimo Defensive Rating di tutta la lega e anche l’attacco, estremamente efficace prima dell’infortunio di Jimmy Butler, sembrava legato più al talento individuale dei singoli che al sistema corale - una qualità che Thibodeau non avrà nella sua nuova avventura.

Il sorriso della foto di rito è di chi ne ha viste tante.

Il roster è pieno di giocatori in partenza e altri che si devono ritrovare, meteore inesplose e giovani che avrebbero bisogno di crescere con calma. Pensare che il potenziale intrigante di R.J. Barrett e Mitchell Robinson (e, in minor misura, di Frank Ntilikina e Kevin Knox) passerà per le mani di chi non ha mai saputo relazionarsi correttamente con Karl-Anthony Towns (costringendolo al minor numero di tiri e lo Usage Rate più basso della sua carriera) è un altro campanello d’allarme, anche perché Thibodeau non è mai sembrato bravo nel smussare gli angoli del talento giovane e grezzo.

Il fatto che nelle ultime settimane il nome di Chris Paul sia stato accostati a New York non appare casuale, e su questo Thibodeau e i Knicks sembrano essere sulla stessa lunghezza d’onda - entrambi volenterosi di costruire la miglior squadra possibile nel tentativo di estirpare dall’immaginario collettivo le delusioni del recente passato. Rispetto ai Knicks, Thibodeau parte con un leggero vantaggio: risollevare le sorti di una franchigia che negli ultimi due decenni si è dimostrata costantemente incapace di essere all’altezza della propria storia, del proprio valore complessivo (il più alto della lega) o anche solo del tempio dello sport mondiale nel quale gioca, rilancerebbe sicuramente la sua carriera. Al contrario, se le cose dovessero andare male gli unici a rimetterci davvero sarebbero i Knicks, per l’ennesima volta beffati dalla loro mancanza di prospettiva. Una situazione esplosiva in uno dei mercati giù più sotto pressione della lega: cosa mai potrebbe andare storto?


Progetto Nate Bjorkgren

Al contrario dei Knicks, gli Indiana Pacers hanno avuto il coraggio di rischiare, scegliendo l’esordiente Nate Bjorkgren come nuovo capo-allenatore. Bjorkgren è un’anomalia interessante perché rappresenta due filoni ideologici completamente in contrapposizione tra loro. Il primo è quello dell’assistente super preparato e con zero (o quasi) esperienza da head coach in NBA, un profilo che da qualche anno spopola per tutta la NBA (da Kenny Atkinson a Taylor Jenkins, da Quin Snyder a quel Nick Nurse che prima di Toronto lo aveva voluto con sé sulla panchina degli Iowa Energy in D-League); il secondo riguarda i Pacers stessi, che per la prima volta assoluta decidono di affidare la panchina a un completo esordiente.

Nello sport americano la parola “vincere” significa molte cose diverse a seconda della collocazione geopolitica di dove ci si trova, e per una franchigia come i Pacers - espressione professionistica di uno stato dove la pallacanestro è religione - restare competitivi è di assoluta importanza per competere con l’affetto che le persone dimostrano per ogni squadra, dal college famoso ai licei sperduti nella campagna. E in questo Indiana è una macchina da risultati: dal 1990 a oggi la franchigia ha mancato l’appuntamento ai playoff appena sei volte, solo una volta negli ultimi dieci anni (e per colpa del tremendo infortunio subito da Paul George prima della stagione 2013-14) e vanta uno dei migliori record casalinghi di tutti i tempi.

Quanti di voi avrebbero potuto giocare a “Where is (Waldo) Bjorkgren” prima di qualche giorno fa?

Prima di Bjorkgren non era mai successo che la franchigia affidasse la squadra a un allenatore privo di esperienza (o che almeno non lavorasse già all’interno dell’organizzazione). Ma per quanto rischiosa possa essere, è anche una scelta perfetta per mandare un segnale chiaro. Basta eliminazioni al primo turno puntando sull’anima operaia della gestione McMillan e dentro una visione più moderna e flessibile, incentrata sulla capacità di lavorare sui giovani (Bjorkgren ha allenato due Summer League per i Phoenix Suns) e trovare soluzioni creative a quelli che sono i problemi tipici delle franchigie dei mercati più piccoli, che spesso non possono permettersi di fare gli schizzinosi tra giocatori di talento ancorché non perfettamente complementari (come nel caso di Myles Turner e Domantas Sabonis).

Dopo essere diventato la pietra angolare della franchigia nella passata stagione, i Pacers si aspettano molto da Sabonis, soprattutto se davvero dovessero decidere di privarsi di Victor Oladipo. Attraverso lo skillset unico del lituano Bjorkgren ha la possibilità di costruire una squadra atipica tatticamente e che meglio si sposa ai concetti dello spacing e del movimento fluido, un cambiamento drastico per una delle franchigie solitamente più tradizionaliste della NBA.


Stephen Silas per il nuovo (vecchio) ciclo dei Rockets

Se ai Pacers associamo sempre un gusto un po’ retrogrado e demodé lo stesso proprio non si può dire per gli Houston Rockets, probabilmente la franchigia più innovativa dell’ultima decade. Nonostante l’addio di Daryl Morey e Mike D’Antoni ai piani alti hanno mantenuto un atteggiamento aggressivo, assumendo il 47enne Stephen Silas come nuovo capo allenatore. La franchigia texana ha una grossa considerazione di Silas (era stato uno dei finalisti per il posto già nell’estate 2016 prima dell’arrivo di D’Antoni) e della sua ventennale esperienza in alcune delle squadre più avanzate della lega, dalla Golden State di Don Nelson e Baron Davis all’ultima versione dei Dallas Mavericks targati Luka Doncic.

A proposito di Luka, questo è stato il suo addio su Twitter.

Sebbene non abbia ancora allenato una partita in NBA, Silas ha contribuito a creare contesti di gioco incentrati pesantemente sul tiro perimetrale e sul mettere una o più guardie al centro di tutto: il miglior biglietto da visita possibile per chi dovrà fare i conti con un roster che basa tutte le sue fortune su questi due presupposti.

Soltanto Houston ha preso più triple nella passata stagione di Dallas, che con Silas come coordinatore ha costruito un attacco da quasi 116 punti su cento possessi (per distacco il migliore della lega) capace di valorizzare le stelle come i gregari. L’aver già lavorato con giocatori come Doncic, Kemba Walker, Steph Curry e un giovanissimo LeBron James (in una versione di Cleveland allenata dal padre Paul) dovrebbe agevolargli il compito importante che lo attende, visto che nella loro prima stagione da compagni di squadra James Harden e Russell Westbrook hanno fatto vedere più ombre che luci.

Lo stesso vale per la metà campo difensiva, dove i Rockers a tratti sono apparsi impresentabili durante la serie di semifinale contro i Lakers degli ultimi playoff. Il compito di Silas non è dei più semplici, perché oltre al logorio fisico nel quale alcuni giocatori potrebbero andare incontro (Westbrook e P.J. Tucker su tutti) deve tener conto di una situazione salariale complicata e che difficilmente agevolerà una transazione in grado di migliorare nettamente le cose. Houston sta pensando di affiancarlo a un paio di allenatori con grande esperienza (si parla di Jeff Hornacek e Nate McMillan) ma c’è fiducia che il figlio di Paul (il quarto allenatore in attività ad aver seguito le orme del padre) possa tracciare una linea in grado di tenere la franchigia nell’aristocrazia della Western Conference.


Il dolce ritorno di Stan Van Gundy

Anche i New Orleans Pelicans hanno scelto di affidarsi a un ex assistente che si è fatto le ossa nelle sale video prima di indossare la giacca e la cravatta, ma a differenza di Indiana e Houston qua il nome è di culto. La NBA non poteva fare a meno di una figura come Stan Van Gundy, che dopo aver passato gli ultimi mesi a commentare le partite per TNT e chiedere di farsi verificare l’account da Twitter, torna a sedersi su una panchina. Scegliere di assumere un 61enne bianco che non ha mai giocato a basket ad alto livello per allenare giovani fenomeni poco più che ventenni a qualcuno non è piaciuta a tutti (qualcuno ha detto Jason Kidd?), ma la realtà è che difficilmente questo mercato degli allenatori ci regalerà qualcosa di altrettanto intrigante.

Nell’ultima stagione i Pelicans sono stati una delle peggiori squadre in transizione e in situazioni di pick and roll e non hanno mai dato l’impressione di saper sfruttare appieno le incredibili doti atletiche dei propri giocatori, soprattutto in difesa, dove hanno chiuso al 21° posto. Nonostante nessuno abbia concesso più tiri al ferro (34) a partita di New Orleans, il 62.3% concesso li rende la settima miglior squadra in questo fondamentale, a dimostrazione di quanto siano speciali i mezzi atletici di tanti componenti del roster, da Zion Williamson in giù. In questo l’ideologia tattica di Van Gundy sembra centrata al millimetro per correggere le idiosincrasie della squadra dell’anno scorso: nei cinque anni di Orlando (dove Van Gundy ha contribuito a creare alcuni dei connotati tipici di molte delle squadre attuali, mettendo in piedi una squadra non soltanto avanti rispetto ai tempi ma anche estremamente piacevole da vedere) i suoi Magic sono stati per tre volte tra le quattro migliori difese della NBA e per quattro anni quella che concedeva meno tiri al ferro.

Essendo un blocco di cemento armato vivente dire che Zion Williamson si presta benissimo a incarichi del genere.

Giocare a ritmo alto, prendere tante triple (nessuno ha presto tante triple come quei Magic nel quinquennio 2007-12) compensando la varianza statistica e impedire agli avversari di avvicinarsi al proprio canestro sono i tre ingredienti per una ricetta che funziona in regular season (chiedere ai Bucks per referenze). E anche se la batteria di tiratori a disposizione di NOLA non è dello stesso livello dei Magic 2007-12, non è neanche così povera come si potrebbe pensare.

A differenza della sua ultima, fallimentare esperienza nella lega (a Detroit) in Louisiana Van Gundy arriva soltanto per allenare i giovani talenti accumulati dal General Manager David Griffin. Le caratteristiche particolari dei vari Zion, Lonzo e Brandon Ingram rendono l’equazione più complessa di quanto possa apparire, ma nessuno possiede la stessa quantità di dinamite dei Pelicans e Van Gundy sembra l’uomo giusto per collegare i fili e costruire una bomba pirotecnica che merita l’attenzione di ogni League Pass.


Billy Donovan è il nome giusto per i Bulls

Diciamoci la verità: per quanto le immagini patinate di nostalgia di The Last Dance siano state toccanti, per i tifosi dei Chicago Bulls gli ultimi tre anni sono stati davvero complicati. La scazzottata tra Nikola Mirotic e Bobby Portis, l’aver scelto di non fare di Butler il proprio uomo franchigia, le 39 vittorie in 123 partite della kafkiana gestione Jim Boylen, le pick regalate in cambio delle cash considerations tanto care al proprietario Jerry Reinsdorf, tutti i pasticci combinati dal duo GarPax.

Per questo motivo la scelta della franchigia di rifarsi il look sia nel front office (con l’arrivo da Denver di Arturas Karnisovas come nuovo General Manager) che in panchina è stata molto apprezzata. L’arrivo di Billy Donovan come nuovo capo-allenatore deve entusiasmare, non fosse altro che l’ex coach degli Oklahoma City Thunder è reduce dalla miglior stagione della sua carriera. Il profilo di Donovan sembra adeguato sotto ogni aspetto: ha dimostrato di saper lavorare con i giovani (sia ai Thunder che soprattutto in NCAA, dove ha vinto due titoli con Florida) così come di ottenere il massimo dai propri veterani (come nell’ultima stagione), di essere in grado di gestire giocatori dal pedigree assoluto e di saper costruire squadre ugualmente efficaci sia in attacco che in difesa a seconda del personale a disposizione. Inoltre tutti ne parlano come una persona autentica, sincera, disponibile (e non soltanto con i giocatori) e abile nel costruire un ambiente di lavoro positivo.

L’uomo giusto per una “first” dance?

Anche per lo stesso Donovan il matrimonio con i Bulls sembra arrivare al momento giusto. Per la prima volta da quando allena potrà decidere liberamente quale sistema adottare, senza doversi preoccupare di titoli da vincere o superstar da convincere (a rimanere). Chicago vuole gettare delle fondamenta solide e non ha obblighi legati alla luxury tax, può permettersi di dare al tecnico il tempo di cui ha bisogno per costruire il nuovo sistema di gioco.

I Bulls possono aggiungere un altro pezzo importante durante il prossimo Draft (dove sceglieranno con la quarta pick assoluta) e il nucleo di veterani presenti presenta caratteristiche sufficienti per provare a costruire una squadra più solida delle edizioni passate. Dopo aver costruito quintetti sorprendenti riuscendo a mischiare i pregi di tre guardie diverse tra loro come Paul, Gilgeous-Alexander e Schröder, Donovan è chiamato alla stimolante sfida di riuscire a combinare i talenti di Lauri Markkanen e Wendell Carter Jr. in quello che da due anni a Chicago sperano possa diventare un front-court ultramoderno. Inoltre, l’aver rivitalizzato la carriera di Schröder fa ben sperare anche nell’evoluzione di Coby White, un altro dei nomi di rilievo del nuovo progetto Bulls.

Chicago spera che Donovan sia l’uomo giusto per cambiare il destino della franchigia. Dopotutto, i nuovi allenatori servono proprio questo: a sperare in un futuro migliore.


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