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VHS: gara-1 delle Finali del 2001
31 mar 2020
31 mar 2020
Allen Iverson, Shaquille O’Neal e un'immagine che è passata alla storia del gioco.
(articolo)
20 min
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Ci sono poche partite in grado di rappresentare la figura di un giocatore in tutta la sua pienezza. Gara-1 delle Finali 2001, però, lo fa addirittura per due: Shaquille O’Neal come arma di distruzione di massa che provoca il terrore negli avversari appena tocca palla vicino al canestro; e Allen Iverson come un uomo in missione capace di generare empatia anche nei tifosi avversari. Se uno volesse sapere che cos’era l’essenza del basket di inizio 2000, questa è la prima cassetta da mettere nel videoregistratore.

L’ascesa di Allen Iverson

I primi anni 2000 per la NBA significano il vuoto di potere lasciato dai Chicago Bulls di Michael Jordan, e dei tanti approcci diversi per riempirlo. Uno di quelli più in voga diventa l’“hero ball”, in cui delle guardie con uno spiccato talento per fare canestro più che per la distribuzione del pallone piegano il gioco in maniera differente rispetto all’approccio degli anni ’90. Questi esterni si trovano a vivere un costante dualismo tra la voglia di prendersi i tiri quando dicono loro e come dicono loro, e allo stesso tempo la necessità di avere un sistema che ne esalti le capacità realizzative senza annichilire i compagni. E la migliore versione di questo connubio sono stati i Philadelphia 76ers con Larry Brown in panchina e Allen Iverson in campo.

Iverson è l’anti-eroe perfetto per una giovane generazione che è affascinata dalla suo basket elettrico e senza compromessi, quasi rabbioso verso l’autorità, in campo e fuori. Il suo stile colpisce l’immaginario giovanile tanto quanto il suo basket nel momento storico esatto in cui la cultura hip-hop sta diventando mainstream tra i più giovani. Dal punto di vista culturale Iverson raccoglie il testimone che era stato di Jordan negli anni ’90, portando la NBA ad un ulteriore livello di influenza su di un’intera generazione: le treccine e le inseparabili fascette in testa e sui polsi, i vestiti baggy, le Reebok ai piedi sono tutti diretti rimandi al gangsta-rap dell’epoca.

Il suo stile è iconico quanto il suo gioco, anzi ne diventa il perfetto complemento. E tutti lo imitano. Durante la stagione 2000-01 Iverson porta una manica attillata a coprire il braccio destro per aiutarlo a recuperare da una borsite al gomito: i puristi del gioco ovviamente non apprezzano, ma nel giro di pochi mesi diventa un accessorio irrinunciabile nei campetti di ogni città anche fuori dagli USA. Diventa immediatamente il bersaglio perfetto per una vecchia generazione che ancora non riesce ad accettarne il modo di porsi e vestirsi fuori dal campo finché la NBA - nella persona di David Stern - non decideranno di regolamentare l’abbigliamento con cui i giocatori possono presentarsi nei palazzetti a bordo campo e in conferenza stampa.

L’accoppiata con Larry Brown, un allenatore vecchio stampo dal carattere spigoloso e volubile, non potrebbe essere peggio assortita e ci mette del tempo ad ingranare. Iverson si trova a vivere in costante dualismo tra il suo talento individuale e le esigenze della squadra, che in attacco vive e muore delle sue fiammate. Brown però è uno dei migliori allenatori a costruire un sistema difensivo e quando i due riescono a fidarsi pienamente l’uno dell’altro i Sixers chiudono la regular season col miglior record a Est e durante i playoff Iverson riceve il premio di MVP stagionale. Sul percorso verso le prime Finali dai tempi del “fo-fi-fo” di Moses Malone, i Sixers trovano un modo per superare in qualche modo due gara-7, la prima contro i Toronto Raptors di Vince Carter, che sbaglia sulla sirena il canestro della vittoria, e la seconda con i Milwaukee Bucks di Ray Allen, contro cui Iverson sfodera una partita da 44 punti per trascinare i suoi alla vittoria. Una cavalcata piena però di incidenti: George Lynch, uno dei migliori difensori dei Sixers, durante la serie contro i Raptors si fa male al piede e non scende in campo per il resto dei playoff; Eric Snow dalle Finali di Conference in poi gioca con una frattura e lo stesso Iverson è talmente incerottato da dover saltare Gara-3 contro i Bucks.

Il percorso dei Los Angeles Lakers di Phil Jackson in panchina e della coppia O’Neal e Bryant in campo è ben più agevole, anche perché nel 2001 sono la squadra più forte della lega. I campioni in carica regolano in rapida successione i Portland Trail Blazers di Rasheed Wallace, i Sacramento Kings di Chris Webber e i San Antonio Spurs di Tim Duncan - tre franchigie che nelle annate precedenti avevano dimostrato di potersela giocare contro di loro. Portland e Sacramento nella stagione precedente avevano forzato 7 e 5 gare e addirittura San Antonio due anni prima aveva eliminato i Lakers con un secco 4-0. Questi Lakers di O’Neal e Bryant però sono un’altra squadra e non perdono neanche una partita per arrivare alle Finals, con la concreta possibilità di vincere il titolo da imbattuti per la prima volta nella storia della NBA.

Inarrestabile

Contrariamente a quanto mi ricordassi, l’inizio della partita è totalmente a favore dei Lakers, che forti del fattore campo e della maggiore esperienza a questi livelli sfruttano la fatica di Iverson a scaldarsi e si ritrovano con un vantaggio in doppia cifra mentre Philadelphia rimane quasi 5 minuti senza segnare un singolo canestro.

Vedere una partita di quasi vent’anni fa significa in gran parte strillare verso lo schermo, implorando ai giocatori in campo di prendersi tutte le triple aperte. Ma appunto è una partita del 2000 quindi sono tutti attratti magneticamente dal pitturato: se il primo gioco si rompe, cosa che in una partita di finale succede spesso, anche le guardie senza il pallone finiscono per tagliare in modo da farsi trovare lì. Questo rende tutto molto claustrofobico quando mancano circa 10 secondi sul cronometro, con possessi che finiscono con tiri con l’uomo in faccia pur di prenderli vicino al canestro. La difesa del pitturato con almeno due uomini quindi è più importante di oggi - e questo rende ancora più assurdo quanto fosse dominante Shaquille O’Neal.

Anche a tanti anni di distanza, è impressionante quanto O’Neal sembri la rappresentazione cestistica del campo gravitazionale del pianeta Giove: tutta la partita è focalizzata da una parte a fargli arrivare il pallone vicino al canestro e dall’altra ad impedirlo. L’area è intasata, ma i giocatori vengono spazzati via come nulla fosse quando lui riceve in movimento e può schiacciare. Il ferro sembra sempre al limite della rottura ogni volta che ci si appende.

La partita mostra subito il modo con cui Jackson prova ad averlo sempre coinvolto in attacco. L’assetto base del Triangolo vede due esterni ravvicinati su un lato del campo (solitamente Kobe Bryant e Derek Fisher) e il lungo in post medio (O’Neal), mentre sul lato debole si piazzano l’altro lungo all’altezza del gomito (come Horace Grant) e il terzo esterno in punta (l’abbronzatissimo Rick Fox). In questo modo il triangolo è formato dai tre giocatori su di un lato, mentre gli altri due servono come minaccia per tenere lontani gli aiuti e i raddoppi della difesa avversaria.

Ai giocatori dei Lakers viene chiesto di occupare dei ruoli specifici (due lunghi e tre esterni), ma a dispetto degli attacchi classici non c’è una serie di schemi prestabiliti da eseguire, quanto piuttosto gli viene chiesto di leggere e reagire a seconda dei compiti che il ruolo richiede, mantenendo il più possibile in movimento il pallone all’interno del triangolo così da creare il tiro migliore. Jackson è il guardiano del sistema: tolte le uscite dai timeout o dalle rimesse, durante la partita si assicura solo che fili tutto liscio intervenendo come motivatore psicologico ed effettuando le sostituzioni. I Lakers sono una squadra che in campo gioca quasi col pilota automatico e anche le due stelle si fidano di un sistema in grado di farli coesistere.

Fermo immagine con i giocatori che prendono posizione come vuole Jackson: O’Neal si avvicina per ricevere in post medio come vertice del triangolo mentre l’altro lungo Grant rimane fermo parallelo a lui. Bryant in punta ha passato il pallone a Fisher ed è lì fermo come opzione di scarico nel caso dovesse servire, mentre Fox sul lato e Fisher col pallone formano la base del triangolo.

Avere O’Neal come vertice interno significa che con il passaggio giusto lo si può trovare vicino al canestro con un solo marcatore da dover superare, praticamente un canestro sicuro se non addirittura un gioco da tre punti assicurato. Avere Bryant come esterno significa avere un giocatore che può sia seguire il flusso di gioco in modo fluido grazie alle ottime letture, sia un talento offensivo che può decidere al momento che ritiene opportuno di prendere il pallone e provare ad attaccare il canestro in solitaria. Proprio questa doppia dimensione delle proprie superstar, che riescono a partecipare perfettamente all’interno del sistema di Jackson e Tex Winter, rende questi Lakers uno schiacciasassi.

Ma Larry Brown arriva a gara-1 preparato e disegna attorno a Bryant una gabbia per limitarlo il più possibile, alternando su di lui gli esterni Aaron McKie ed Eric Snow. L’obiettivo è portarlo a forzare conclusioni nella zona dove la difesa dei Sixers si sente più sicura, ovvero portandolo a ricevere distante dal pitturato per poi magari arrivarci in un secondo momento, dove però trova sempre un giocatore sul gomito in aiuto per fronteggiarlo. Bryant di fatto non ha mai una conclusione facile a disposizione e non entra mai veramente in partita, chiudendo con 7/22 dal campo per soli 15 punti.

Con O’Neal, però, si può fare bene poco. Brown probabilmente pensa che raddoppiarlo sia deleterio perché gli permetterebbe di mettere in ritmo i suoi compagni, e quindi preferisce utilizzare Dikembe Mutombo come ostacolo davanti al canestro (cosa che significa non mandarlo diretto a schiacciare, ma portarlo anche a conclusioni che non gli piacciono come i semi-ganci) cercando allo stesso tempo di fargli arrivare palloni sporchi o quantomeno lontani dal post basso. Un logoramento lento ma efficace, che trova i suoi frutti quando nel finale porta Rick Fox a un passaggio sbagliato per O’Neal, una palla persa sanguinosa in un momento fondamentale per i Lakers. Parliamo però di una strategia che non ferma in termini generali O’Neal, che chiuderà la partita con 44 punti e 20 rimbalzi, ma che riesce quantomeno a farlo lavorare per ricevere sotto canestro e a rosicchiare qualche palla persa: alla fine, questo era il massimo che si poteva sperare all’epoca contro uno dei centri più dominanti di sempre.

Il timore che incuteva Iverson

Per tener testa alla furia di Shaq bisogna segnare dall’altra parte, e tanto. E Allen Iverson, dopo un inizio stentato, comincia a mettere quei tiri che prima non entravano. La sua capacità di prendere fuoco e aprire una striscia di canestri consecutivi era risaputa: in inglese esiste un termine che non ha una traduzione diretta in italiano, moxie - in sostanza l’atteggiamento che ti permette di superare le difficoltà con il coraggio. Iverson ne è la personificazione: ogni canestro che mette sembra dargli un'ulteriore dose di fiducia per quello successivo, e con uno show personale in pochi possessi ricuce il distacco riportando di peso Philadelphia in partita.

Iverson ha la stessa capacità di O’Neal di incutere timore, partendo però da presupposti di gioco diversi. Allen ti umilia con la sua imprevedibilità e creatività dal palleggio, e fare una figuraccia in diretta nazionale è l’ultima cosa che vuole chi viene pagato per giocare a basket. Anche oggi balza immediatamente all’occhio il modo in cui riesce a caricare verso il ferro e poi magari a prendere il suo stesso rimbalzo sull’errore; si muove a una velocità superiore e con maggiore determinazione di chiunque altro in campo, arriva prima su ogni pallone e con i suoi movimenti ha sempre l’iniziativa nei confronti della difesa, che è costretta a reagire e non ad aggredire.

Iverson chiude i primi due quarti con 30 punti sui 56 totali della squadra, con i Sixers che in modo veramente inaspettato si trovano con un vantaggio di 6 lunghezze all’intervallo. I soli tre palloni persi e il 9/9 alla lunetta, specialmente per un giocatore che è sempre stato un buon tiratore ai liberi (nella stagione 2001 li ha tirati con l’81%) e che fa continuamente rischiare il gioco da tre punti alla difesa gialloviola, ben fotografano la concentrazione con la quale è sceso in campo in quella che è sarà la partita della vita.

La partita di Iverson in una compilation dedicata, da conservare e rivedere nei giorni in cui si vuole cercare l’ispirazione per fare qualcosa di grande. Una cosa di cui si parla sempre troppo poco è quanto bene si muovesse anche senza palla nel traffico con tagli profondi per non ricevere mai nella stessa posizione.

L’energia che propaga Iverson arriva anche ai compagni: nel terzo quarto la differenza di apporto tra i giocatori di contorno in campo delle due squadre è sorprendente. I Sixers sono una squadra operaia come la città che rappresentano, una serie di giocatori di ruolo che sono un buon complemento anche caratteriale della stella splendente di “The Answer”, a cui viene chiesto da Brown massimo impegno difensivo e di aiutare in qualche modo Iverson in attacco. Come la point guard Eric Snow, il lungo Tyrone Hill o, l’esempio migliore, l’esterno Aaron McKie.

Nato e cresciuto a Philadelphia e ovviamente tifosissimo dei Sixers, è il miglior amico e l’angelo custode in campo di Iverson tra i giocatori di Philly. Votato sesto uomo dell’anno dopo la stagione regolare, parte titolare in gara-1 e rimane in campo 51 minuti, meno soltanto di Iverson, Bryant e O’Neal, gran parte dei quali spesi a sbattersi in difesa. Chiude con 9 punti, 7 rimbalzi e 9 assist alla fine, nella solita partita completa e di sacrificio.

I Sixers sono una squadra di portatori d’acqua attorno ad Iverson, a cui a stagione in corso viene aggiunto Mutombo, ormai 34enne e lentissimo nei movimenti, ma ancora in grado di farsi rispettare sotto canestro in difesa per via delle braccia che praticamente sfiorano il tetto del palazzetto. Solo che i lunghi dei Sixers in campo durano poco, perchè Shaq li carica di falli. E così dalla panca di Larry Brown si alza anche Matt Geiger, il centro di riserva, che diventerà uno dei fattori della vittoria corsara di Phila. Segna 10 punti in 13 minuti con un 5/7 dal campo, ma nello stesso breve spazio temporale spende anche sei falli nell’arduo compito di provare a rallentare O’Neal in difesa.

Il jolly che esce dal mazzo dei Sixers è però Raja Bell, tirato fuori da Brown quando mancano tre minuti alla fine del primo quarto per sorprendere Kobe Bryant con un difensore più tosto fisicamente di Snow, pur essendo altrettanto agile. Bell è nel suo anno da rookie pur avendo già 24 anni e finisce per giocare 20 minuti (nel resto dei playoff ne aveva giocati 8 di media) segnando entrambi i canestri tentati e due tiri liberi. Ma è soprattutto la sua difesa fisica a disturbare Kobe e ad incidere il marchio dei Sixers sulla partita.

Bell inoltre segnerà un canestro tanto difficile quanto importante nel finale di partita, che peraltro rappresenta un ottimo compendio di cosa fosse il basket nella NBA di inizio 2000.

Ma se i role player in maglia Sixers brillano è perché Iverson è tirato a lucido e il suo gioco iperaggressivo costringe i Lakers a mandare gli aiuto ogni volta che A.I. supera l’avversario diretto, cosa che ovviamente significa da una parte falli guadagnati (puntando sul contatto dell’uomo in aiuto) e dall’altra ampi spazi per un passaggio al compagno libero (nel caso in cui l’aiuto sia eseguito correttamente). Iverson esercita una gravità in campo che un giocatore alto a malapena un metro e 80 non dovrebbe poter avere in una NBA dove si gioca prevalentemente nel pitturato: i Lakers sono costretti ad aggiustare la strategia difensiva in corsa, provando a raddoppiarlo subito invece di mandare l’aiuto dopo che ha superato l’uomo, arrivando a pressarlo non appena supera la metà campo pur di non fargli arrivare il pallone in mano con un solo avversario da puntare.

Il fattore Ty Lue

Jackson, che inizialmente decide di metterci Bryant, quando capisce che Iverson gli segna comunque in faccia e che così lo sta uccidendo in difesa a discapito del gioco offensivo, arriva a tirare fuori la carta Tyronn Lue. Lue, che ha le treccine come Allen perché in allenamento Jackson gli chiede di imitare i movimenti della guardia di Philadelphia, fino a quel momento era stato utilizzato per una decina di minuti a partita, ma è un ottimo difensore sulla palla e ha la stazza adatta per rimanere attaccato come un’ombra ad Iverson.

E la scommessa di Jackson effettivamente paga, con Lue che fa il suo lavoro sporco e riesce a stare dietro all’MVP, chiudendo con una partita con 5 palloni rubati, 3 assist, un canestro al ferro e una tripla fondamentale nel quarto periodo per passare i Lakers da -5 a -2. La sua partita è nettamente superiore a quella del titolare Derek Fisher, che di fatto per Jackson non può stare in campo: 0/4 al tiro, 3 falli e un solo assist. Lue entra al suo posto con 5 minuti sul cronometro del terzo quarto e da lì non tornerà più in panchina. Non a caso, Iverson da quel momento in poi non riesce più a segnare come nei primi due quarti.

E se Iverson mostra i primi segni di fatica, dall’altra parte O’Neal dimostra come ad inizio anni 2000 fosse su un’altro livello rispetto alla competizione e che rallentarlo non significava fermarlo.Per quanto Brown avesse studiato un sistema difensivo e i Sixers fossero costruiti per farlo sudare, i suoi 18 punti nel terzo quarto pareggiano il massimo in un quarto di Iverson e tengono a galla i Lakers, ricucendo completamente il distacco in una partita che altrimenti sarebbe stata impossibile da recuperare. In sostanza, nel momento esatto in cui Iverson smette di segnare O’Neal alza il proprio livello e riapre la partita.

Rimane un mistero la facilità con cui si gira tra la ricezione spalle a canestro e il movimento di tiro, specialmente per un giocatore di quella stazza. Non c’è modo di fermarlo se quando completa il giro è vicino al ferro.

Con la partita in bilico nell’ultimo quarto, il parquet per Iverson - stremato dalla difesa aggressiva e dall’unico terminale in attacco dei suoi - diventa una salita. Di puro agonismo segna la tripla del +4 appena dopo che la tripla di Brian Shaw su assist di O’Neal per il -1 dei Lakers. Ma da lì non segnerà più fino allo scadere del quarto periodo: prima si fa stoppare da Horry il secondo tentativo del quarto, poi sbaglia la tripla successiva al pareggio di Bryant a 3 minuti e mezzo alla fine, e addirittura si becca una stoppata da Lue un minuto dopo con la partita ancora in parità. Dopo una schiacciata di O’Neal su assist di Bryant per il vantaggio che mentalmente avrebbe affossato chiunque, Iverson però confeziona l’azione più importante con l’assistenza per il canestro del pareggio del fido Eric Snow. Da lì in poi non segnerà più nessuno nel minuto e 38 rimanente, con Bryant che si incarta e perde la palla a 18 secondi dalla fine lasciando il tiro allo scadere proprio a Snow, il quale però non trova la tripla disperata e manda la partita all’overtime.

The Stepover

Nel supplementare Snow è di nuovo decisivo con un canestro in corsa per il 105-101 che cancella il -2 di Kobe Bryant, ma a prendersi il palcoscenico è il cuore di Iverson che con i 7 punti negli ultimi due minuti di gara (due liberi, una tripla e poi un tiro dalla media) di fatto chiude la partita. E lo fa alla Iverson, unendo il risultato allo stile, e regalando con la sua ultima conclusione a 48 secondi dalla fine sul +2 Sixers anche l’immagine più iconica della sua carriera e una delle più rappresentative di quell’epoca di NBA: “The Stepover”.

Per un beffardo scherzo del destino, o forse perché la sorte non si può sfidare più di tanto, Ty Lue, autore di una grande partita, passerà alla storia dal lato sbagliato. Finirà per essere ricordato come “quello che è stato scavalcato” da un Iverson in piena onnipotenza cestistica e non l’eroe per caso in una squadra piena di fuoriclasse.

Quello che non deve andare perso però è il modo con cui Iverson si crea lo spazio per il tiro, perché è altrettanto importante per rendere l’azione memorabile. Riceve la palla un passo dentro l’arco sul lato destro della metà campo difensiva dei Lakers; Lue gli rimane dentro la stupenda maglia nera con la palla che vola via di Phila, ma Allen è in quella zona a cui solo i grandissimi realizzatori possono accedere. Due jab appena accennati, la palla portata quasi dietro la testa e poi via verso la linea di fondo dove può mettere in mostra il suo movimento di riferimento, il crossover a gambe larghissime e baricentro bassissimo così da mandare fuori strada l’avversario per crearsi spazio per il tiro in sospensione.

Il crossover di Iverson è la sineddoche dell’NBA nell’immediato post-Jordan: un gesto di sfida utile e dilettevole, che risolve in un secondo la questione della marcatura e libera lo spazio per lanciarsi verso il canestro. Una vera invenzione a cui i giocatori arrivano col tempo e il cambio di regolamento nella manipolazione del palleggio, inserendo il basket di strada sul lucido del parquet. Iverson bussò per la prima volta alla porta della NBA con un doppio crossover in faccia a Sua Maestà Michael Jordan per liberarsi per il canestro in sospensione. Era l’inizio della nuova era, con una nuova generazione che venerava Jordan ma al campetto sognava di essere Allen I.

Ci sono stati altri artisti del crossover, ma Iverson ha sempre mostrato la versione più impressionante, quella del campetto in cui il gesto viene esagerato, ingigantito nei movimenti per mostrarsi migliore degli altri, per umiliare ancora di più l’avversario e raggiungere l’estasi suprema dello sbilanciamento totale, della caviglia che si torce quasi a spezzarsi portando alla rovinosa caduta. Lue non finisce a terra immediatamente, anzi prova in tutti i modi a contestare il tiro di Iverson. È inutile: la palla è già nel canestro, Lue inciampa mettendo un piede su quello di Allen e si siede per terra quasi in prima fila, come un bambino che non ha trovato posti liberi al cinema. E Iverson lo scavalca guardandolo negli occhi.

E l’immagine che sarà per sempre legata a questa partita, un crossover per chiudere a 48 punti e battere a casa loro una delle squadre più forti della storia nel momento in cui sembravano invincibili.

Lo “scavalcamento” con tanto di sguardo sprezzante al povero Lue mandano il carisma di Iverson nell’iperuanio. Ci sono pochi paragoni da poter fare per quest’immagine: in diretta Federico Buffa si rende subito conto di quanto celebre sarebbe diventata quell’immagine e la racconta così: «Guardate cosa fa Iverson dopo il canestro, tra l’altro bellino direi, guarda come guarda Lou: lo scavalca, gli passa sopra, c’è proprio tutto il suo istinto».

Come scritto da Bill Simmons in “The Book of Basketball”, non si può racchiudere la figura di Iverson a quella di un realizzatore qualunque: «Bisogna dargli grandi meriti per aver trascinato dei mediocri Sixers alle Finali nel 2001, quando tante altre macchine da canestro hanno fallito prima di lui. Al contrario di Gervin, McAdoo e Wilkins, Iverson giocava con una sicurezza nei propri mezzi che spingeva una squadra decente ad un livello superiore. Lui credeva che potessero vincere, era disposto ad ammazzarsi per farlo e tutti gli altri finivano per crederci». Si può dire che con questa vittoria Iverson abbia vergato la sua legacy di giocatore che nella singola partita poteva battere chiunque, innalzando anche i compagni oltre il loro teorico livello, come detto da lui stesso: «La cosa più importante per me era che i miei compagni pensassero che con me in squadra avremmo potuto vincere ogni sera, contro qualsiasi avversario».

Iverson aveva vinto l’MVP tirando 25 volte a partita col 42% dal campo, era la prima e la seconda opzione attraverso la quale i Sixers provavano a fare canestro. Era un uomo in missione, ma anche un giocatore destinato per la natura stessa del gioco a non poter battere questi Lakers sulle sette partite al termine di una stagione estenuante. I Lakers avrebbero infatti vinto tutte e quattro le successive partite, gara-2 in casa e le tre consecutive a Philadelphia, per chiudere col secondo titolo consecutivo di un three-peat poi completato l’anno seguente.

Iverson invece non sarebbe più tornato a giocarsi le Finals, né sarebbe più riuscito a ritrovare quella chimica del 2001. Quando nel 2016 è entrato nella Hall of Fame insieme a Shaquille O’Neal, però, a Springfield il più acclamato non è stato il quattro volte campione NBA, ma quello di un metro e 80 che per una magica notte ha guardato tutti dall’alto in basso.

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