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Dario Saltari

Il miglior allenatore: Luciano Spalletti

Non poteva essere altrimenti.

Il finale di stagione in Serie A è stato talmente anticlimatico che forse si è parlato troppo poco del fatto che Luciano Spalletti, dopo una vittoria rincorsa per un’intera carriera, abbia deciso di lasciare il Napoli per ragioni ancora poco chiare. Lui ha detto di essere stanco, di voler stare un po’ con la figlia, De Laurentiis che voleva un anno sabbatico. Da fuori sembra che si siano accordati su una versione comune, ma chissà. Di certo è un peccato che la storia più grande uscita fuori da questo campionato, direi la più grande degli ultimi anni, non abbia un finale intellegibile o comunque sia troppo criptico per noi comuni mortali che leggiamo le notizie sui giornali. Le storie costituiscono la forza dei campionati, la ragione per cui vale la pena guardarli, e in Serie A mi sembra che questo si faccia ancora fatica a capirlo. In ogni caso è vero che, per il modo in cui Spalletti ha deciso di comunicare per tutta la sua carriera, forse non ci potrebbe essere finale più rappresentativo. Un finale che, per l’appunto, ti fa dire chissà, come la stragrande maggioranza delle chilometriche frasi involute che pronuncia davanti ai microfoni.

 

Partire dalle parole per ricostruire il suo anno, in definitiva per giustificare questo premio, può sembrare pretestuoso, me ne rendo conto. Un allenatore davanti ai microfoni ci arriva sapendo di parlare a un pubblico, spesso decidendo di omettere dei dettagli per proteggere lo spogliatoio. Insomma non ci si può certo aspettare che siano parole sincere. Eppure, se ci pensate, le parole sono il primo strumento del mestiere per un allenatore, che le usa per lavorare sui suoi giocatori, e per noi che ne scriviamo l’unico modo per cercare di fissare in cosa consiste il suo lavoro, in cosa è migliorato o peggiorato, dov’è che è più evidente la sua influenza. Cercare di descrivere il lavoro di un allenatore, che per sua natura è invisibile e intangibile, equivale a cercare di mettere sotto vetro un fuoco fatuo. E con Spalletti lo è ancora di più, perché le parole che teoricamente ci dovrebbero permettere di farlo sono sfuggenti e scivolose. 

 

Per fortuna anche in questi anni napoletani sono affiorati degli appigli solidi, che per me sono due dichiarazioni, una all’inizio e una alla fine della sua esperienza. La prima è arrivata nel settembre del 2021, dopo una vittoria contro il Cagliari. «Sono sempre stato un giocatore scarso e un allenatore scarso ma mi sono sempre fatto il mazzo per ottenere i risultati che voglio». Ora, se sul suo valore da giocatore si può essere in sostanza d’accordo, è interessante che di partenza Spalletti si consideri un allenatore scarso, anche al di là del palmares che sembrerebbe smentirlo in partenza. È interessante perché nella sua carriera ultraventennale le sue squadre, dietro un gioco propositivo e verticale, sembravano riproporre gli stessi difetti, come se fossero vittima di un destino. Un pressing alto che veniva portato in maniera approssimativa, un possesso che diventava vittima della sua stessa ricerca ossessiva della profondità. I limiti delle sue squadre assomigliavano a quei filetti che ti spuntano dai vestiti, apparentemente innocui, ma che quando inizi a tirare cominciano a sbrindellare tutto. Spalletti, insomma, è sembrato per lungo tempo incapace di superare i suoi limiti. Da questo punto di vista, l’attesa del collasso del Napoli quest’anno non era solo roba da gufi: aveva un suo fondamento nelle esperienze precedenti dell’allenatore toscano, tutte arrivate a un punto in cui le sue squadre sembravano non riuscire più a sostenere le sue richieste. 

 

Il momento in cui abbiamo capito che il Napoli non sarebbe crollato.

 

Quest’anno, però, il tanto atteso crollo dopo i Mondiali alla fine non è arrivato, ed è discutibile che questo sia dovuto solo a una rosa rivelatisi troppo di alto livello rispetto ai suoi avversari. Il Napoli, semplicemente, è stata la squadra più tatticamente definita della Serie A, quella più efficiente nelle cose che proponeva in campo, e questo è merito tanto dei giocatori in campo quanto del mazzo che Spalletti si è fatto negli anni. Prima di quest’anno, infatti, sarebbe stato difficile scommettere che una sua squadra, qualsiasi fossero i giocatori al suo interno, potesse essere la più prolifica in attacco (secondo dato più alto per non-penalty Expected Goals prodotti dietro l’Inter), la più solida dietro (miglior dato per npxg concessi) e contemporaneamente la più intensa ed efficace nel pressing alto (miglior valore di PPDA in Serie A) e quella con la più alta percentuale di possesso medio (62,1%). È stato il suo costante miglioramento da allenatore a farlo arrivare a questa versione del Napoli. La migliore squadra della sua carriera. 

 

La seconda dichiarazione è di Aurelio De Laurentiis, quando è andato a Che Tempo Che Fa a parlare dell’addio del suo allenatore. «Gli allenatori si dividono tra quelli che vogliono fare il mercato e quelli che allenano, Spalletti è una persona straordinaria e uno che allena». Insieme al fatto che non abbiamo parole adatte per definirlo, il fatto che Spalletti non abbia mai preteso di fare un mercato per soddisfare le sue idee credo sia la seconda ragione per cui si faccia fatica, anche dopo il Napoli di quest’anno, a parlare di un gioco di Spalletti (oltre a essere anche il motivo per cui continua ad essere molto apprezzato dai presidenti italiani nonostante i suoi spigoli caratteriali).

 

Spalletti è uno che allena, cioè uno che va al campo a lavorare con quelli che si ha a disposizione (perché, come disse, «più d’una bistecca al giorno non mangio e quindi me ne frego della mucca intera»), e questo significa in sostanza parlare con i giocatori, averci un rapporto. Più che dal gioco il lavoro di Spalletti si vede attraverso i giocatori, quest’anno più che mai. Dalla nuova affidabilità di Meret alla crescita inaspettata di Rrahmani, dalla migliore versione vista in Italia di Mario Rui all’esplosione di Lobotka, fino ad arrivare all’affermazione definitiva di Di Lorenzo e alla rinascita di Politano. 

 

Nell’aver ridato una nuova centralità ai giocatori, anche a quelli che sembravano non potessero averla a questi livelli, Spalletti ha trovato una sua modernità, nonostante una carriera che dura ormai da 26 anni. Nel calcio che sta abbandonando la rigidità dei ruoli per abbracciare la fluidità delle relazioni tra i giocatori, Spalletti è sembrato all’avanguardia proprio nell’assenza di una rigida proposta di gioco. Come ha detto lui stesso: «Gli spazi non sono più tra le linee, ma tra i calciatori». E anche queste sono parole che ci aiutano a capire perché quest’anno è stato lui ad essere il migliore. 

 

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Dario Saltari è uno degli scrittori che curano L'Ultimo Uomo e Fenomeno. Sulla carta, ha scritto di sport per Einaudi e Baldini+Castoldi.