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Marco D'Ottavi
La restaurazione di Massimiliano Allegri
31 mag 2021
31 mag 2021
Si torna alle cose semplici.
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Marco D'Ottavi
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Foto di Lucas Barioulet
(foto) Foto di Lucas Barioulet
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«Il bello della storia è che non si ferma mai». Con queste parole la Juventus ha salutato il ritorno di Massimiliano Allegri, in uno dei tanti post social dedicati all’evento. E non c’è niente di più vero: la storia entra dentro le stanze, le brucia, come cantava De Gregori, citato anche da Guardiola poche settimane fa. E non si è fermata neanche il 28 maggio, mentre prima un profilo dello stato del Minnesota e poi una giacca buttata a terra anticipavano l’Allegri bis. Ha continuato a scorrere mentre invertiva il proprio corso e tornava indietro: si chiama restaurazione e di solito segue le rivoluzioni.

Per due anni la Juventus ci ha provato. Ha inseguito un ideale di libertà, fratellanza e bel gioco trasformando i corridoi della Continassa in quelli della Bastiglia, passando da novembre a brumaio. È stato un tentativo atipico e nessuno si stupisce che sia fallito. Già l’inizio era stato strano: Allegri esonerato col sorriso invece che con la ghigliottina, con una conferenza stampa a braccetto del presidente che gli consegnava una maglia con il numero 5, il numero di Scudetti vinti, e la scritta “History Alone”. «Sono qui per celebrare Max. Un allenatore che da solo ha scritto la storia della Juventus» aveva detto la stessa persona che lo stava cacciando. In prima fila c’era tutta la squadra che applaudiva, le parole del presidente erano al miele. Più che un esonero era sembrata una celebrazione in vita.Ci era voluto un mese per trovare il Robespierre del Re Luigi juventino, ma era sembrato perfetto. Maurizio Sarri aveva le culotte a forma di tuta e la spada di tabacco, stringeva il campo e difendeva in avanti. Però era stato rigettato dalla squadra, il bel gioco era stato appena un accenno. Poco male: anche il rivoluzionario francese era stato fatto fuori dai suoi compagni perché troppo intransigente, e la storia era andata avanti comunque. La gloria allora l’avevano cercata in un giovane generale decorato, vincitore di tante battaglie sul campo. Pirlo idealmente rappresentava il momento in cui le rivoluzioni perdono l’afflato radicale per trovare una direzione dispotica vicina alle élite. Attaccare, ma indossando il completo; cercare il bel gioco, ma senza dimenticare il passato, il sogno dell’Impero. Anche con Pirlo però non era andata bene, e senza mettersi a cercare la sua Waterloo, i motivi del suo insuccesso sono davanti agli occhi di tutti. Che ci poteva essere dopo? Il tentativo di rivoluzione della Juventus ricorda in qualche modo quello Superlega, e non mi sembra un caso che dietro entrambi ci sia la stessa persona. In tutti e due le operazioni c’è questo pesante senso gattopardesco per cui tutto deve cambiare affinché nulla cambi. Non c’è niente di male nel voler migliorare l’esperienza calcio, così come non c’è niente di male nell’idea che non basta vincere, bisogna convincere. Sono però progetti complicati, che non possono essere buttatati lì con senso di superiorità, pensando che tutto ti sia dovuto perché si occupa una posizione di potere. E se le cose complicate falliscono, proprio perché sono complicate, ha senso tornare a quelle semplici. E niente è più semplice del calcio di Allegri, almeno se vogliamo prendere per buone le sue parole.Certo, possiamo pensare che la Juventus sia stata quasi obbligata a richiamare il suo allenatore. In un momento in cui tante panchine si stanno liberando e rioccupando alla velocità della luce, il rischio di aspettare e non essere padroni del proprio destino era alto. Quante opzioni aveva la Juventus una volta scelto di sbarazzarsi di Pirlo? Poteva convincere Zidane? Chi lo sa. Poteva aspettare le bizze del PSG per prendersi Pochettino? Difficile. Poteva tornare a bussare da Conte, dopo che nell’ultimo incontro erano volati gli stracci? Improbabile. Eppure nonostante la scelta di Allegri possa apparire come obbligatoria, tutto fa pensare che sia invece una presa di posizione molto forte. Allegri torna alla Juventus e la carta è bianca. Non c’è più Paratici, il bastian contrario del suo regno risultatista, quello che aveva tramato per mandarlo via. Non c’è più l’urgenza di vincere giocando bene, perché si è smesso di vincere. Al contrario c’è un contratto migliore e più lungo, 4 anni a una cifra tra i 7 e i 9 milioni, e soprattutto la sensazione che il potere esercitato sulla cosa juventina sarà maggiore. Se nella prima esperienza Allegri ha rappresentato alla perfezione l’ideale di allenatore aziendalista, capace di accettare ogni decisione arrivasse dall’alto con il fatalismo tipico dei fatalisti, questa volta viene da pensare che la società si aggrapperà a lui come un oracolo, anche solo banalmente perché in questo momento non c’è un direttore sportivo, né una direzione chiara. Cosa penserà Allegri dell’U23? Della volontà di svecchiare la rosa e abbassare il monte ingaggi? Anche il suo rapporto coi giovani è conflittuale: da una parte molti lo descrivono come un maestro di calcio, ultimo della lista Joao Cancelo, dall’altra spesso vengono messi da parte, costretti a imparare guardando più che facendo, ultimo della lista ancora Joao Cancelo. Sono solo voci, ma insomma ci si può già intravedere uno schema: il rinnovo di Chiellini, Dybala al centro del progetto, Ronaldo lontano da Torino (?). Morata già in bianconero, Pogba come obiettivo, Pjanic col sogno di tornare. Sembra quasi che la Juventus voglia tornare non tanto al momento in cui ha mandato via Allegri, ma ancora più indietro, a prima dell’acquisto di Higuain. A voler fare storiografia, del resto, è forse quello il punto di non ritorno, quello in cui la Juventus si è vista diversa da quella che è, o almeno da quella che la sua storia vuole raccontarci. Vista così, c’è speranza. Se l’idea è quella di calmarsi, abbandonare la smania di crescere, smettere di inseguire il sogno barcelonista, ovvero quello di diventare prima che un club grande un grande club, chi meglio di Allegri? Tacciarlo di distruttivismo, ignorare le sue qualità come allenatore è semplicemente malafede. Prima di arroccarsi nelle sue posizioni ortodosse, di perdere la bussola negli ultimi mesi, forse bruciato da una pressione che ad alti livelli rende davvero difficile fare la stessa cosa con lo stesso entusiasmo per 5 anni, Allegri è stato un ottimo allenatore. L’allenatore italiano più vincente degli ultimi 10 anni, uno dei più vincenti anche allargando lo sguardo. In cinque anni gli si possono imputare davvero poche cose, forse solo il doppio confronto con l’Ajax. Il suo limite, forse, è quello di non essere un allenatore con idee radicali. Non è lui che può mettere mano al DNA della società come a un certo punto sembrava che la Juve volesse, non può neanche seminare per altri che verranno a raccogliere i frutti. Ma è colpa sua? Un allenatore trova la sua strada, lavora sui propri punti forti. Non si va a dormire quadrati per risvegliarsi tondi. Allegri è un gestore di uomini, un allenatore in grado di riparare i tubi che perdono, valorizzare alcuni elementi della rosa, tagliarne altri. Questo si riprende Agnelli. Pure lui, sballottato da un anno piuttosto complicato, sarà contento di sedersi in tribuna e vedere la sua squadra addormentare le partite, dominare senza il pallone, vincere uno, due a zero. Che c’è di brutto nel volere un po’ di tranquillità?I più fiduciosi possono sperare che in questi due anni Allegri si sia aggiornato, abbia studiato nuove metodologie, inserito nuovi concetti nel suo gioco; i più realisti semplicemente che si sia riposato, che abbia sfruttato questa lunga pausa di riflessione per ritrovare la voglia di lanciarsi in un lavoro così totalizzante senza pregiudizi. Un Allegri quindi che sia in grado di ignorare la sua posizione in un dibattito sempre più incancrenito, per concentrarsi sulla squadra. Sarebbe davvero assurdo vederlo ripartire da lì, dalle discussioni con Adani, dal corto muso, dalla mistificazione del vincere giocando bene. È strano fare delle valutazioni: Allegri non ha fatto come il figliol prodigo che lascia la casa del padre per vedere come è il mondo fuori prima di tornare come una persona diversa. È come se invece si fosse messo in pausa per due anni, una situazione atipica per un allenatore. Anche i due casi di ritorni che si stanno citando in questi giorni, Giovanni Trapattoni e Marcello Lippi, sono arrivati intervallati da un’altra esperienza (casualmente tutti e due con l’Inter). A voler prendere come riferimento le poche apparizioni di questi lunghi 48 mesi, qualche indizio si trova. A dicembre del 2019, a Sconcerti aveva detto «Vedo in giro troppi filosofi del calcio». Più recentemente nel salotto di Sky si era stravaccato sulla sedia tirando fuori il suo profilo più istrionico e ammaliatore. Ne era uscito una specie di manifesto. Insomma, se Allegri crede a quello che dice, il calcio della Juventus tornerà semplice: dategli un pallone e i giocatori che sanno toccarlo e poi ci penserà lui. In questo momento buttare giù moduli e formazioni tipo è un esercizio di stile, ma con lui la sensazione è che nessuno sia veramente spacciato, così come nessuno sia veramente necessario. È questo il bello del suo calcio. Da tifoso posso aspettarmi un Arthur risuscitato, un Ramsey più vivo che morto, Kulusevski centrocampista totale. Ovviamente nella stanza c’è però un elefante col numero 7. La stagione condivisa tra Allegri e Ronaldo non fu eccezionale per il portoghese (e per tutta la Juve, forse non un caso), anche se impreziosita dalla notte migliore vissuta in bianco e nero, contro l’Atletico Madrid. Se ci pensate però, chi meglio di lui per gestire l’ultimo anno di Ronaldo? Senza richieste di calcio posizionale, di pressing spartano, solo cercando le connessioni tra gli uomini migliori, anche un totem di 36 anni che pensa sempre al gol ed è più grande del club in cui gioca può diventare una risorsa più che un problema. Sicuramente Allegri ci ha già pensato.Ed è proprio nella capacità di trasformare i difetti in pregi che va accettata la scelta di Allegri. La Juventus ha investito così tanto a livello tecnico e gestionale proprio nel momento in cui il calcio ha iniziato a contrarsi che ora vede davanti un baratro. Per la prima volta dopo tanti anni a marzo il destino della Juventus era già segnato. Non c’era la lotta per lo Scudetto, non c’erano i quarti di Champions League. Vivere quei mesi con la possibilità di vincere è fondamentale per la Juventus, perché porta soldi e visibilità. Al contrario addirittura in questa stagione ha rischiato seriamente di mancare la qualificazione in Champions League. Cosa sarebbe successo in quel caso? Meglio non saperlo. Non a caso diverse società stanno facendo scelte conservative per le proprie panchine: se del domani non c’è certezza, perché rischiare? Magari qualche storico o economista illuminato vi direbbe che sono proprio questi i momenti in cui andare all-in, che è più facile abbracciare le rivoluzioni in un periodo buio che non mentre le cose vanno bene. Ma la Juventus non è un ideale, non è neanche una di quelle aziende che deve stare un passo avanti al futuro per tenere vivo il proprio brand. O almeno non riesce a esserlo. La Juventus è una società di calcio e le società di calcio devono vincere. E se si tratta di vincere in bianco e nero, oggi, nessuno è meglio di Massimiliano Allegri.

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