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Tutte le contraddizioni di Allegri
06 mag 2019
06 mag 2019
Ogni anno ci troviamo a dover interpretare il manifesto del tecnico della Juve in tv.
(articolo)
16 min
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Dopo la lite poco televisiva di una settimana fa, l’incontro su tre riprese (perché cominciato lo scorso anno) tra Massimiliano Allegri e Lele Adani si è concluso con uno scambio di opinioni pacifico ed educato, ma senza un vero e proprio vincitore. Tra l’allenatore della Juventus e l’opinionista di Sky Sport c’è una incomunicabilità di fondo che nessuno dei due è stato in grado di risolvere, per questo ho cercato di ridurre per punti una questione altrimenti troppo ampia per ogni consesso – televisivo, ma anche strettamente giornalistico. Al tempo stesso, proprio perché così ampia, riguarda tutti noi addetti ai lavori e appassionati.

Due piani della conversazione separati

Quando è stuzzicato sulle qualità che un allenatore di un top team dovrebbe avere oggi, Allegri parla sostanzialmente di una varietà di sensazioni che ricava dalle partite e dagli allenamenti. Parla di un percepito che è la base del suo processo decisionale, insieme all’istinto che lo guida nel prendere le decisioni più originali – e ne prende anche di coraggiose, troppo spesso ce lo dimentichiamo. Un processo talmente soggettivo che, come ammette lo stesso Allegri, può essere controintuitivo: «Posso sostituire il migliore in campo, se in quel momento credo di aver bisogno del contributo di un giocatore diverso», dice a un certo punto.

Forse veramente Allegri sente che, in fondo, con tutta la professionalità che può aver accumulato a cinquantuno anni, è soggetto alle variazioni aleatorie del corso degli eventi a cui sono soggetti i fantini, i proprietari di cavalli e gli altri appassionati dell’altro sport che ama, l’ippica.

Ad ogni modo, il punto è che quando Allegri parla della stoffa di cui è fatto il vestito di un allenatore, fa un elenco di qualità intangibili, che in un corso di sviluppo personale chiamerebbero soft skills.

A questo, Adani contrappone la sua visione del calcio: un calcio fatto di idee e di principi che, calati in questo o in quel sistema tattico, dovrebbero mirare al dominio del gioco e dell’avversario, almeno se si parla di grandi squadre. Adani distingue tra performance e risultati, tra la “proposta” di gioco e la vittoria/sconfitta che ne deriva, per questo tira in ballo anche le statistiche, perché in qualcosa di concreto la proposta si deve comunque tradurre.

Adani, in ultima analisi, parla di competenze, cioè di qualità tangibili che dovrebbe avere un allenatore, quelle che in un corso di sviluppo personale chiamerebbero hard skills.

Dovrebbe essere chiaro, oggi, che un allenatore di un top team deve avere qualità di tipo diverso, provenienti da entrambi i contenitori. Di fatto, però, i due sono su piani differenti del discorso che non possono mai intersecarsi.

Non sono solo i contenuti a tenere lontani i due interlocutori, lo sono anche le modalità di ingaggio nella discussione. Ad Allegri viene chiesto di spiegare la sua visione del calcio – «È questo che mi interessa», gli ha detto Adani alla fine, «le tue idee» – e quindi di mettere alla prova del linguaggio comune, a caldo in un dopopartita, decenni di esperienze che si sono sedimentate in lui.

Lo sforzo che fa Allegri è apprezzabile ma fallace. Lui stesso ha detto in un’altra simile occasione: «Mi piace parlarne, ma forse non riesco a spiegarmi». Ma è fallace anche perché per l’allenatore toscano non c’è niente da dimostrare: i suoi non sono teoremi, ma assiomi, verità inconfutabili che hanno già passato la prova del campo. Una weltanschauung calcistica che con Allegri condividono tanti suoi colleghi italiani: anche Antonio Conte parlava di “verità del campo”.

Anche Adani però non sta veramente prendendo parte a una discussione. Perché ad Allegri chiede cosa può fare per aumentare il dominio della sua squadra, così, in generale, che è un po’ come chiedergli cosa conta di fare da qui all’inizio del prossimo campionato. I toni di Adani sono retorici, se non addirittura provocatori, o canzonatori.

La formulazione più efficace del suo pensiero, Adani la trova solo quando Allegri è già andato via, e cioè: «Perché la Juventus è la squadra che ha meno passaggi nella trequarti offensiva, meno tocchi in area e meno tiri delle 8 squadre che si sono presentate ai quarti di Champions League?».

In teoria, questa era una cosa che avrebbe potuto chiedere ad Allegri, sono il genere di fatti che servono per tenere inchiodato l’intervistato fino ad ottenere una risposta. Almeno quando l’intervistatore non crede di averla già, la risposta.

Sia chiaro: Adani dev’essere libero di porre tutte le domande che vuole. Ed è esemplare quando, appena ne ha l’occasione, riformula esattamente la stessa domanda per la quale non ha ricevuto una risposta una settimana prima. Alla visione dell’allenatore, però, Adani contrappone la propria in antitesi. Lo fa, ha chiosato alla fine, nell’interesse di chi è a casa. Ma lo spettatore che decide di guardare un’intervista, che sia juventino o anti-juventino, che sia un appassionato o un addetto ai lavori, con tutta probabilità è interessato esclusivamente al punto di vista dell’allenatore.

Se Allegri afferma che la Juventus si è impaurita quando ha subìto una ripartenza dell’Ajax dopo un errore tecnico di Pjanic, non va proposta – né allo spettatore né tantomeno all’allenatore – una verità alternativa. Sarebbe stato più interessante, invece, fare una contro-domanda: perché si è creato il contesto tattico per cui un giocatore iper-tecnico come Pjanic commette un errore?

L’ars retorica di Allegri

Anche l’allenatore della Juventus, per aver ragione dell’avversario nella gara di retorica – nell’accezione positiva di arte della persuasione – fa affermazioni contraddittorie.

Quando parla della fissazione degli addetti ai lavori per i dati, Allegri tira fuori l’esempio del possesso palla: «Vorrei una spiegazione di come noi a Madrid l’anno scorso con un possesso palla del 38% abbiamo vinto 3-1, e poi quest’anno con l’Ajax abbiamo avuto la palla in mano e hanno vinto loro».

Poco dopo, però, dice che a suo parere la miglior partita stagionale della Juventus è stata quella persa contro il Manchester United, perché lì la Juventus ha dominato l’avversario, anche grazie ad una superiorità nel possesso palla.

Delle due, l’una: il possesso palla o è un utile indicatore della performance, o non lo è. Come molte statistiche, la percentuale di possesso palla, considerata da sola e sulla singola partita, non è rappresentativa della prestazione in toto di due squadre, né tanto meno così strettamente legata con l’esito. Ha ragione Allegri, infatti, quando dice che ci sono molti modi di vincere una partita di calcio, in uno sport a basso punteggio nel quale un singolo evento può determinare il risultato.

È stato dimostrato, però, che il possesso palla ha una correlazione col numero di gol segnati – quindi con le vittorie – nel lungo periodo. Ovvero: le squadre che per più partite consecutive detengono un controllo del pallone per un tempo superiore rispetto agli avversari, vincono più partite.

Il possesso palla è in sé un indice quantitativo, perfettibile aggiungendo informazioni qualitative: ad esempio, in quali zone del campo si manifesta il maggior possesso palla? È un possesso basso, quindi difensivo, oppure è un dominio territoriale, cioè utilizzato per salire col pallone e presidiare l’altra metà campo? Può essere contestualizzato ancora meglio: come si è evoluto nel corso della partita, magari prima e dopo che una delle squadre passasse in vantaggio, prima e dopo un cambio tattico decisivo? E del totale dei passaggi, quanti ne sono entrati in area di rigore avversaria?

Tutte cose che Allegri sa benissimo e di cui sceglie di non tenere conto, radicalizzando la questione in un modo che non è attinente al discorso in studio, né al discorso generale. Nessuno pensa davvero che se una squadra ha un possesso superiore al 50% allora ha meritato di vincere o ha giocato “bene”.

Ma la contraddizione è più profonda: Allegri dice che il cuore del suo lavoro di allenatore consiste nel valutare la prestazione della squadra e del singolo al di là del risultato. Ma l’analisi statistica è nata proprio come supporto a questo tipo di valutazioni. Le statistiche sono uno strumento per oggettivare (il più possibile) le proprie osservazioni. Un conto è dire che un giocatore ha “fatto molto”, un altro è vedere di quanti e quali eventi importanti di una partita (tiri, dribbling, tackle etc.) è stato protagonista. D’altra parte, Allegri stesso nel suo libro dice di consultare i numeri sui falli fatti e subiti, e sui duelli aerei vinti o persi, e di utilizzarli come indicatori dell’aggressività della sua squadra in fase di non possesso.

La guerra alle “cose nuove” – così le chiama – sembra più di facciata che sostanziale. Ad Allegri preme ribadire sopra ogni cosa l’importanza delle funzioni di quello che lui chiama l’allenatore-manager. Il manager nel calcio è colui che trova soluzioni per portare a casa il risultato aziendale. Negli esempi che riporta nel libro, la scelta di schierare un’ala come Cuadrado in posizione di terzino o di mezzala, oppure il centravanti Mandzukic come esterno d’attacco, la scelta di giocare male per portare a casa la pelle, tutto rientra nell’alveo delle possibilità dell’allenatore-manager.

Il fine giustifica i mezzi, e nel problem-solving Allegri crede di avere trovato la propria forza. Tutto il resto, passa in secondo piano. Anzi, viene negato in toto come una “moda”.

Qual è il messaggio di Allegri?

Allegri dice di fare le sue affermazioni per l’interesse dei nuovi allenatori. È un tasto che batte più volte nel corso dell’intervista. Secondo Allegri, la formazione dei giovani allenatori, che spesso credono che il calcio sia una cosa troppo scientifica, deve cambiare perché: «Le cose che ci hanno lasciato i vecchi allenatori non sono da buttare. [...] Si dovrebbe miscelare tutto quello che ci hanno insegnato con quello che sarà».

Nel corso dell’intervista Allegri sembra aver archiviato la questione, quando invece in chiusura riprende la parola per riformulare il concetto. Adani dice ad Allegri che ci sono tanti modi per disputare una stagione vincente – finendo per rinnegare se stesso – e Allegri gli risponde: «Bisogna che tu me li tiri fuori [i modi] perché gli allenatori che vincono sono pochi. [...] Dire che abbiamo giocato sempre male, dopo 5 scudetti e 2 finali di Champions… capisco che ci sono le mode, ma quelli che vincono sono pochi. Quelli che retrocedono son sempre gli stessi e quelli non vincono mai».

Sarebbe stato interessante chiedere ad Allegri quali sono i pochi allenatori che lui reputa vincenti. Se ha in mente i vincitori della Champions League, negli ultimi 25 anni sono stati 14 gli allenatori che ne hanno conquistato almeno una edizione. Tra questi si annoverano manager che, come Allegri, hanno cucito le loro strategie sul materiale umano che avevano a disposizione (Capello, Lippi, Ferguson, del Bosque), ma ce ne sono stati altrettanti che hanno messo i principi di gioco davanti ai giocatori (van Gaal, Rijkaard, Benitez, Guardiola). Alcuni hanno prediletto tattiche reattive (Mourinho, Heynckes), altri ancora sono stati premiati adottando un approccio totalmente speculativo (Di Matteo). Le partite di calcio non si vincono in un solo modo per davvero.

Ad ogni modo, il messaggio di Allegri è fortemente reazionario. La concezione del calcio per principi di gioco, e i nuovi metodi di lavoro che da questa conseguono, vengono bollati come “mode”: come qualcosa di fatuo, inconsistente, non destinato a durare. I nuovi allenatori, per il loro bene, farebbero meglio a lasciar perdere i numeri e a trarre insegnamenti dalla strada tracciata dai “vecchi”.

Allegri, però, sembra tradirsi e quasi uscire allo scoperto con l’ultima parte della frase. Se il messaggio sembrava inizialmente indirizzato ai formatori o davvero agli allenatori del futuro (come se stesse pensando alla possibilità che qualcuno lo citi o meno come “maestro” un giorno), alla fine assume i connotati di una stoccata verso un allenatore in particolare. Il suo messaggio era forse indirizzato a Guardiola? Oppure, più probabilmente, a Roberto De Zerbi?

Nella settimana che è passata tra la lite e la successiva replica, nella quale tutti abbiamo finito per schierarci dalla parte di Allegri o da quella di Adani, l’allenatore del Sassuolo ha avuto dichiarazioni condivisibili e di grande equilibrio. Stuzzicato sull’argomento ai microfoni di Sky Sport dopo la partita con la Fiorentina, ha risposto: «A me non piace chi sostiene che al calcio si vince giocando in un solo modo. Così come non mi piace chi dice che il calcio è semplice. Il calcio lo rendono semplice i grandi giocatori».

De Zerbi non ha parteggiato per l’opinionista, ma non si è neanche schierato in difesa del collega, anzi ha confutato direttamente il mantra di Allegri. È questo che ha dato fastidio ad Allegri? La mancata solidarietà di categoria, quella che non ha ricevuto incondizionatamente neanche da Roberto Mancini?

De Zerbi allena le sue squadre con un approccio top-down: parte dai principi e arriva all’esecuzione del gesto in campo nella specifica situazione. È l’approccio opposto a quello di Allegri stesso, che da un certo punto di vista adotta una prospettiva bottom-up: si parte dall’integrazione delle caratteristiche dei singoli per costruire l’intero sistema dal basso.

Il Sassuolo ha vissuto una stagione tra alti e bassi, mantenendo salda la propria identità tattica anche quando i risultati erano fortemente negativi e, stando alla visione di Allegri, avrebbero suggerito dei correttivi.

Foto di Tullio M. Puglia / Getty Images.

La distanza tra le parole e i fatti di Allegri

Per quanto tenti di minimizzare la parte tattica del suo lavoro e cerchi di dare più peso all’esperienza e all’intuizione, Allegri è un fine conoscitore del gioco. Proprio negli scenari più complessi, quelli posti dalla Champions League, la manifestazione che mette in mostra il meglio del calcio mondiale in campo e in panchina, Allegri ha dato il meglio di sé come stratega.

Addirittura, proprio nelle sfide che alla fine non è riuscito a ribaltare – contro Bayern e Real Madrid – ha dato un’impressione di controllo dell’emotività del momento, e di lettura degli eventi, superiore ad ogni altro allenatore, anche rispetto alle qualificazioni che ha portato a casa – contro Tottenham e Atletico Madrid.

Allegri riesce a mostrarsi un allenatore evoluto anche quando non vuole. Proprio nel post-partita di venerdì, nella foga della discussione, Allegri analizza lucidamente la prestazione della Juventus contro il Torino: «Dopo il gol di Ronaldo, abbiamo avuto 8-10 minuti in cui potevamo vincere, abbiamo accelerato ancora di più la conduzione di palla e la costruzioni del gioco. Non devi aver fretta, devi lo stesso velocizzare, portar palla vicino all’area e se la perdi sei attaccato lì».

Allegri descrive i principi del gioco di posizione e del gegenpressing alla tedesca. Cioè sono nozioni che Allegri ha nel suo bagaglio e che padroneggia ai massimi livelli, come ha dimostrato in più di un’occasione. Perché, anche al di là della terminologia di preferenza, tende a sminuire questi aspetti?

Due stagioni fa, Allegri si è battuto molto su un concetto che lo aveva avvicinato a Guardiola, come nessuno in Italia in quel periodo: l’idea, cioè, secondo cui un calciatore può occupare zone diverse nelle due fasi di gioco. Che i compiti, le funzioni, nel calcio moderno, fossero svincolate dai ruoli e dalle posizioni.

Perché Allegri da un anno a questa parte ha intrapreso invece questa battaglia di retroguardia? Crede forse di non aver ricevuto il giusto riconoscimento per quanto fatto negli ultimi cinque anni e ne è così scottato da provare ad esaltare con ogni mezzo gli aspetti creativi del suo lavoro, in contrapposizione a quelli scientifici, che considera invece accessibili a ogni altro allenatore?

Per difendere queste sue posizioni, il miglior allenatore italiano sta correndo il rischio di finire screditato per sua stessa mano. Un esempio? Per Allegri in questo periodo all’Ajax gira tutto bene: ha affrontato e battuto una Juventus largamente rimaneggiata dagli infortuni; successivamente ha trovato il Tottenham al quale: «Gli manca il centravanti titolare (l’infortunato Kane, ndr.), l’altro centravanti è squalificato (Son, ndr.), e dopo un quarto d’ora gli si fa male il centrale difensivo (Vertonghen, ndr.)».

Sicuramente Allegri avrà notato che l’infortunio di Vertonghen ha creato a Pochettino un problema, ma gli ha anche concesso un’opportunità: poter cambiare l’assetto tattico per riportare la partita in equilibrio. Ciò che in effetti è accaduto con l’ingresso di Moussa Sissoko e il successivo cambio di modulo.

È possibile che Allegri finisca per svalutare questo aspetto di campo pur di mantenere il punto e giustificare le altre sue idee? D’accordo, Vertonghen avrebbe sempre fatto comodo, ma la realtà è più complessa di come Allegri vuole rappresentarla.

Della complessità, Allegri prende solo la parte che gli fa comodo. In questo, sa di sconfitta anche l’impossibilità di rispondere al paradosso che gli ha proposto Adani: perché se contano i grandi calciatori, la Juventus con Ronaldo ha perso contro un Ajax fatto in casa e con giocatori di valore e prospettiva ma di certo non nettamente superiore a quelli della Juventus?

Soprattutto, le idee di Allegri non sembrano portare con sé una visione ampia della faccenda, né di lungo periodo. Se fossero accettate in toto le posizioni di Allegri, come dovrebbe cambiare il calcio italiano? La Federazione dovrebbe omologare la formazione degli allenatori secondo un credo tattico machiavellico, che di fatto Allegri stesso dice che è impossibile insegnare (altrimenti cosa intende quando dice che anche nella vita c’è chi dirige le aziende che fatturano miliardi e chi no)?

A che serve dire ai giovani allenatori che alla fine contano i grandi giocatori se, come sappiamo, a parte l’allenatore della Juventus e pochi altri in Italia quasi nessuno potrà allenare scegliendo grandi giocatori?

Tifosi e giornalisti dovrebbero appiattire ogni giudizio rapportandolo ai trofei vinti? Quindi, ad esempio, dobbiamo davvero aspettare l’esito della finale di Coppa Italia prima di valutare l’esperienza di Giampiero Gasperini all’Atalanta? E poi non si tratterebbe dell’esasperazione di una tendenza già presente nella cultura italiana (e non solo) di cui lo stesso Allegri si lamenta? Il suo fastidio non nasce proprio dal fatto che, in fondo, gli si sta chiedendo di fare i conti per un’eliminazione considerata precoce? Proprio Allegri, citando un servizio di Sky Sport sull’Ajax, denuncia il vizio dei giudizi alterati dai risultati.

Siamo in un periodo in cui il prodotto “Serie A” è per mille motivi – stadi inospitali, problemi di ordine pubblico, sessismo e razzismo, scarsezza di grandissimi campioni, per citarne alcuni – sempre meno appetibile. Per gli spettatori, quindi per gli inserzionisti, quindi per le TV che attraverso i loro assegni sostengono i nostri club.

Un motivo d’interesse verso il nostro campionato, all’estero e al di là del tifo, può essere la varietà di approcci tattici. È la battaglia fatta di mosse e contromosse su una scacchiera verde larga 105 metri per 68, a rendere vive anche partite senza campioni.

Nessuno pensa che il calcio sia come gli scacchi, o che un allenatore comandi con dei fili invisibili i propri giocatori. Nessuno pensa che il calcio sia una scienza, anche se qualcosa di scientifico c’è. Ma quello tattico è un aspetto del gioco non in conflitto con i restanti, né con il talento dei giocatori, né con l’istinto degli allenatori migliori.

Quello di cui, in fondo, né Allegri e né Adani sembrano tenere in conto è che la diversità culturale – come in ogni ambito, anche in quello calcistico – è di per sé una ricchezza.

Per il calcio italiano, forse, dovrebbe essere la principale fonte di sostentamento.

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