Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
La sesta fatica
22 mag 2017
Le dieci partite più importanti dello Scudetto della Juventus.
(articolo)
34 min
Dark mode
(ON)

La prima al completo

Juventus-Sassuolo 3-1, 10 settembre

di Fabio Barcellona

Nelle due partite d’agosto in programma in Serie A, la Juventus ha dato il buongiorno al campionato vincendo contro Fiorentina e Lazio due match tutt’altro che banali. Dei nuovi acquisti, arrivati per alzare la qualità tecnica della squadra, si è visto dal primo minuto solamente Dani Alves. Higuain, in ritardo di condizione, ha giocato solo due spezzoni di partita, sufficienti comunque a fargli segnare il gol vittoria contro la Fiorentina. Pjanic, vittima di non meglio precisati problemi muscolari (si dice non regga i ritmi d’allenamento), ha guardato i due match dalla panchina.

Al ritorno in campo a settembre, dopo la pausa nazionali, c’è quindi grande attesa per vedere la nuova Juve al gran completo. Per la partita contro il Sassuolo, Massimiliano Allegri non abbandona la difesa a 3 e risolve il dilemma della posizione in campo di Pjanic impiegandolo come mezzala sinistra di un 3-5-2 parecchio fluido. Il bosniaco può alzarsi per occupare dinamicamente l’half-space di sinistra, mentre Dybala, arretrando, occupa l’half-space speculare sul centro-destra, disegnando di fatto una coppia di trequartisti alle spalle di Higuain. Dopo 27 minuti la Juventus è già in vantaggio per 3-0 grazie a una doppietta di Higuain e a un gol di Pjanic.

La Juventus mostra una manovra offensiva brillantissima, basata su combinazioni ad alto contenuto tecnico, che, alla fine del match, generano ben 3.3 xG a favore dei bianconeri. Pjanic dialoga a meraviglia con Dybala e Higuain finalizza implacabilmente l’enorme quantità di gioco offensivo prodotto. Ma, nonostante la sonante e convincente vittoria per 3-1 e i pochi rischi corsi – appena 0.6 gli expected goal subiti – a fine partita Massimiliano Allegri si mostra poco soddisfatto dell’atteggiamento complessivo della squadra, troppo orientato alla ricerca del gol nonostante l’ampio vantaggio acquisito e colpevole di avere concesso qualche ripartenza di troppo agli avversari. Il tecnico bianconero afferma che la partita sarebbe potuta finire col risultato di 9-3, non nascondendo la propria contrarietà per un eventuale epilogo del genere. Il match contro il Sassuolo e l’esordio nella formazione titolare di Pjanic e Higuain mostrano che la Juventus 2016-17 ha nei propri piedi grandissime potenzialità tecniche e una brillantezza offensiva superiore al passato. Allegri però sta ancora cercando l’alchimia giusta e pensa che non bisogna ancora assecondare i nuovi istinti della squadra, ma che sia invece il momento di educare all’equilibrio e all’attenzione tattica, necessari per potere giungere ad ottenere i grandi obiettivi prefissati per la sua Juventus.

Il tecnico bianconero, con il suo consueto metodo di lavoro fatto di prove, errori e successivi aggiustamenti, ha appena iniziato a costruire la Juve campione d’Italia 2016/17 e la sua prudenza gli suggerisce di rallentare il cambiamento per fissare meglio alcuni punti imprescindibili della sua idea di calcio vincente, dove, al di là dei moduli e delle strategie, è fondamentale il controllo del proprio gioco e dello scacchiere tattico di ogni partita. Il tempo gli darà ragione.

La necessità di evolversi

Inter - Juventus 2-1, 18 settembre

di Alfredo Giacobbe

La prima sconfitta in campionato per la Juventus è arrivata alla quarta giornata contro l’Inter di De Boer. Qualche settimana prima volgendo lo sguardo al calendario si poteva pensare che uscire da San Siro con 9 punti in classifica sui 12 totali a disposizione non sarebbe stato un brutto affare. Invece, il contesto con cui le due squadre hanno affrontato la sfida ha contribuito a far percepire la sconfitta come significativa di qualcosa di più grande.

Da un lato, la Juventus aveva battuto di misura Fiorentina e Lazio, e poi aveva brillato contro il Sassuolo grazie ad uno squillante 3-1. Solo il pareggio casalingo per 0-0 contro il Siviglia di Sampaoli sembrava aver dato pensieri ad Allegri, ma nulla più di questo. Dall’altro lato, l’Inter aveva raccolto appena 4 punti contro Chievo, Palermo e Pescara, prima di perdere in casa in Europa League contro il - fino ad allora sconosciuto - Hapoel Beer Sheva.

Gli inizi di stagione di Massimiliano Allegri sono stati spesso caratterizzati da incredibili passaggi a vuoto, durante i quali il livornese ha raccolto informazioni vitali sulla sua rosa che gli sarebbero servite per il resto della stagione. E dal match di San Siro, Allegri è uscito con due forti suggestioni.

La prima è che l'esperimento con Miralem Pjanic vertice basso del triangolo di centrocampo si è rivelato fallimentare. In fase di possesso, Pjanic non riusciva a dare ritmo alla sua squadra nelle poche occasioni in cui non ha avuto un avversario a marcarlo da vicino: poco coraggiose le sue scelte di passaggio (in questa partita per numero di passaggi recapiti nella trequarti gli fu superiore Medel), pochi movimenti senza palla per cercare zone dove ricevere il pallone con minor pressione. In fase di non possesso, Pjanic ha scontato la sua scarsa attitudine alle marcature preventive: alle spalle di Khedira, in una posizione ibrida di mezzala/trequartista, Banega ha fatto il bello e il cattivo tempo; Pjanic non è mai riuscito a porre un argine da quel lato.

Secondo poi, Allegri ha iniziato a capire che col collaudatissimo 3-5-2 non sarebbe andato lontano. Privo di Paul Pogba, l’onere dell’imprevedibilità nell’ultima trequarti campo sarebbe ricaduto interamente su Sami Khedira, unica mezzala d’inserimento in rosa, che pure all’inizio della stagione ha portato la croce dignitosamente (2 gol e 1 assist nelle prime 3 giornate). Inoltre ad Allegri si poneva lo stesso dilemma tattico che aveva affrontato Sarri un anno prima: Gonzalo Higuain sembra venir penalizzato in un attacco a due, quale che siano le caratteristiche del suo partner d’attacco. L’argentino non è un attaccante veloce in senso assoluto, non lo è rispetto a tanti difensori del campionato. Higuain ha bisogno di muovere il diretto avversario, per spostarlo fuori dalla sua comfort zone, per far perdere le sue tracce e irrompere libero in area. Come un tennista che ha bisogno di preparare il punto prima di giocare il vincente.

Il cambio tattico decisivo arrivò solo dopo la quarta sconfitta in campionato, alla prima di ritorno al Franchi di Firenze. Ma fu nella partita con l’Inter che Allegri cominciò a scartare le ipotesi meno redditizie, per arrivare alla soluzione. Dire oggi che dalle sconfitte c'è sempre da imparare è facile, ma dirlo parlando di una squadra che ha vinto sei Scudetti di fila, e sta per giocarsi la Champions League con il Real Madrid, potrebbe essere persino contro-intuitivo per una società che vive di luci e dimentica le ombre.

La prima fuga

Juventus - Napoli, 2-1, 19 ottobre

di Alfredo Giacobbe

Questa vittoria ha avuto diversi effetti. Innanzitutto la squadra di Allegri ha ribadito la propria superiorità nei confronti di un avversario diretto, che aveva costruito la propria credibilità fin dalla stagione precedente. Non molti mesi prima la Juventus aveva rischiato di cedere il suo scettro al Napoli proprio nello scontro diretto: i partenopei in quel momento erano meritatamente davanti in classifica e avrebbero potuto accontentarsi di un pareggio, ma la fortuna aiutò l’audacia del tecnico bianconero che nei minuti finali trovò - nella sua testa e sulla sua panchina lunga - le risorse per vincere la partita. Il gol di Zaza valse la vittoria, ma probabilmente servì a spostare l’asse di tutto il campionato.

Quest’anno i bianconeri hanno affrontato il Napoli a partire da tutt’altri presupposti. Tra quelli più tangibili, la distanza in classifica, che prima del match era già di 4 punti. In più, il Napoli stava provando a riorganizzarsi dopo l’infortunio di Milik, e nella partita di Torino venne provato Mertens come prima punta. Il suo nuovo esordio è stato incerto e ha contribuito a restituire una sensazione generale circa l’andamento del match. Cioè, che la Juventus riuscisse a tenere sotto controllo il Napoli anche lasciando loro la gestione della palla. Pur avendo creato di più, il Napoli non è stato mai realmente pericoloso e il gol di Callejon per il momentaneo pareggio in fondo è stato provocato da un errore individuale.

E non si può non ricordare che questa è stata la prima partita a casacche invertite per Gonzalo Higuain. Il trasferimento dell’attaccante argentino non aveva solo un valore calcistico: uno dei migliori giocatori della squadra seconda in classifica che viene acquistato dalla prima non può non postare qualche equilibrio; ma ha anche provocato un’esplosione mediatica la cui l’energia si è esaurita solo dopo il doppio confronto di primavera al San Paolo.

Resta da aggiungere la solita bravura di Allegri: dopo solo 15 minuti il tecnico è passato dal 3-5-2 a una sorta di 4-2-4, spostando Barzagli nell’allora inedita posizione di terzino destro. Il cambio tattico ha avvicinato Khedira ad Hernanes e alleviato la pressione sui giocatori impegnati nella prima impostazione, togliendo al Napoli una delle sue più importanti armi tattiche.

Si loda molto la capacità di lettura di un allenatore, non si apprezza a sufficienza la disponibilità che i calciatori non sempre concedono al proprio mister: perché oltre al già citato sacrificio di Barzagli, Allegri ha costretto Pjanic e Lichtsteiner a giocare fuori ruolo, da esterni d’attacco. Questi due ingredienti sono forse il vero segreto della Juventus 2016-17. Alla fine della partita, la Juventus ha spinto il Napoli a 7 punti di distanza e ne ha guadagnati 2 nei confronti della Roma, che nel pomeriggio aveva pareggiato contro l’Empoli al Castellani.

Su questa partita la Juventus ha costruito la prima vera e propria fuga del campionato.

Sentirsi idioti per un giorno

Genoa - Juventus 3-1, 17 novembre

di Marco D’Ottavi

Mi sono rivisto la prima mezz’ora di Genoa - Juventus (guardare oltre sarebbe stato reato di tortura) e devo dire che – sinceramente – non ho capito bene cosa possa essere accaduto. Non sembra sottovalutazione dell’avversario, lo sanno bene che al Ferraris trovi sempre un avversario col coltello tra i denti; non mi sembra nemmeno la famosa flessione post Champions, la Juventus veniva da una vittoria importantissima a Siviglia ma erano passati cinque giorni e aveva giocato anche un’ora con l’uomo in più. Sembra più un incantesimo, come quando in Space Jam Mr. Swackhammer si appropria del talento dei migliori giocatori lasciandoli come idioti a vagare sul campo.

Ho visto più errori in questi trenta minuti che in sei anni di Serie A. Sul primo gol Bonucci prova un disimpegno di tacco mentre Rigoni lo pressa e finisce per mandarlo in porta, poi nessuno taglia fuori Simeone e Ocampos che possono tirare per ben tre volte da dentro l’area. Nel secondo Alex Sandro si fa scherzare da Lazovic che lo dribbla verso l’interno come se fosse un comodino mentre Benatia sembra scansarsi sul cross che Simeone girerà in porta di testa. Nel terzo Lichtsteiner si gira di spalle mentre Rigoni devia in rete.

Il sistema juventino è organizzato proprio sull’impossibilità di perdere tutti questi duelli, fare tutti questi errori individuali. Che tutto questo sia accaduto a Genova nell’arco di trenta minuti è la dimostrazione delle infinite possibilità a cui ti mette davanti una partita di calcio. E credo che presa questa mezz’ora e messa a confronto con tutte le partite solide giocate dalla Juventus anche nei momenti meno brillanti sia servito ai tifosi per mettere in prospettiva la grandezza di questi sei anni, perché quasi ogni partita contempla i tranelli preparati da Juric.

L’allenatore del Genoa, Juric, è stato bravo e fortunato a scegliere la tattica giusta al momento giusto. Ha sovraccaricato la fascia sinistra con la catena composta da Laxalt, Ocampos e Rigoni che hanno surclassato Dani Alves, Lichtsteiner e Khedira, tre giocatori che vanno in difficoltà se aggrediti in continuazione. Il Genoa ha giocato al di sopra del proprio livello abituale, oltre all’intensità ha messo in campo un calcio estremamente efficace, giocando quasi sempre il pallone di prima e trovando ogni volta l’uomo libero tra le linee. Insomma, va bene: bravi loro, però questa è forse la sola partita veramente sbagliata da Allegri in stagione.

«Il riassunto della partita è uno solo: abbiamo subito 25 falli contro gli 8 commessi e quando subisci troppo fisicamente, spesso la partita la perdi» una frase certamente vera, ma anche un inconscio scarico di responsabilità da parte di Allegri. Scegliendo il 3-5-2 con Dani Alves nei tre di difesa, Hernanes davanti alla difesa e Pjanic interno a sinistra, ha messo in difficoltà tecnica la squadra e a mio avviso rimandato ai giocatori l’idea che potevano mollare un attimo. Tanto che la situazione è migliorata solo dopo l’infortunio di Bonucci e il passaggio al 4-3-1-2 con Pjanic dietro le punte, soluzione che per un po’ sembrerà l’assetto definitivo della squadra.

È difficile invece valutare il messaggio arrivato ai giocatori dopo la mezz’ora peggiore delle loro carriere. Io sono convinto che abbia funzionato come il colpo che dai al cane per insegnargli un nuovo trucco. Tre punti persi che hanno significato più di tre punti.

Dopo questa sconfitta sono arrivate tre vittorie fondamentali in ottica scudetto contro Atalanta, Torino e Roma, alla fine della quale Buffon va davanti ai microfoni e dice «avevo avvertito che qualcosa era cambiato dopo Genova e credo che questa vittoria sia figlia della sconfitta di Genova» e io a Buffon gli credo sempre.

Ecce Higuain!

Torino-Juventus 1-3, 11 dicembre

di Matteo Gatto

Il derby della Mole, fuori casa, a dicembre, è sin dall’inizio una di quelle partite che si ha l’impressione la Juve vincerà, ma si fatica a capire come. Per 80 minuti è un affare più rognoso del solito, da 4-4-2 con Sturaro largo a sinistra. Dani Alves ha il perone rotto e comunque Lichtsteiner avrebbe giocato lo stesso, ma con l’uno o con l’altro il gol del vantaggio di Belotti sarebbe arrivato identico, un colpo di testa che anche senza la pressione del difensore svizzero non sarebbe cambiato di un millimetro, tanto è preciso.

Pjanic in panchina e Dybala pure, non ancora al meglio dopo l’infortunio autunnale, ma la speranza è di recuperarlo dall’inizio per la domenica successiva, in casa con la Roma. Quindi Khedira e Marchisio, con Cuadrado a destra unica concessione di Allegri a un calcio senza muscoli.

Davanti siamo ancora in quella fase in cui Mandzukic punta centrale costringe il “Pipita” al ruolo di raccordo col centrocampo, un oscuro apprendistato che ha reso l’Higuain di oggi, primavera ’17, un calciatore ancora più grande e un uomo ancora più squadra. Il suo primo gol parte da un anticipo di testa a centrocampo di Chiellini che, assenti Bonucci e Barzagli, lascia Belotti a Rugani per prendersi grandi responsabilità in fase di impostazione. Cuadrado la fa proseguire per Mandzukic che libera Higuain con un colpo di tacco involontario. A quel punto il Pipita si mette al lavoro, stacca i due centrali del Toro con il primo controllo prendendo sufficiente vantaggio da poter giocare con l’uscita di Joe Hart, poi tocca il pallone una seconda volta per indurre il portiere inglese a coprire il primo palo e concludere l’opera in controtempo, con un tiro sporco e strozzato, sul secondo. Era un’occasione chiara, un gol che si poteva segnare in mille modi: quello scelto da Higuain coniuga un coefficiente di difficoltà tecnica molto basso con altissime possibilità di successo.

È sul secondo gol che il centravanti argentino domina per davvero. Si parte ancora da Chiellini, lancio di cinquanta metri a pescare il Pipita in isolamento contro Barreca, ventunenne terzino alla sua dodicesima presenza in Serie A chiamato a fermare l’uomo che giusto qualche mese prima ha concluso la stagione più prolifica di sempre di un calciatore in Italia. Non è una situazione casuale. Nei minuti precedenti Allegri ha inserito Dybala e Pjanic al posto di Cuadrado e Mandzukic. Mihajlović ha scelto di provare a vincerla togliendo due centrocampisti, Benassi e Baselli, per due attaccanti, Boyé e Martínez. Higuain è quindi ricollocato nella sua postazione da punta unica e alle spalle ha due giocatori che tendono a lasciargli spazio andando incontro al pallone, uno spazio ingigantito dallo svuotamento del centrocampo conseguente dall’azzardo di Mihajlović.

Prima del lancio di Chiellini, Dybala e Pjanic vanno incontro portandosi dietro i difensori granata. Da lì in poi è Higuain vs Barreca, un Davide contro Golia in cui da pronostico stravince Golia. L’argentino neanche si preoccupa dello stop, ma solo di prendere contatto col corpo del difensore, spostarlo, paralizzarlo. Barreca sente i suoi arti irrigidirsi, prova un goffo rinvio ma la palla resta lì; quando Higuain si gira e ritrova il passo per il tiro, Barreca già non esiste più, si oppone al destro del Pipita e viene trapassato esattamente come il portiere. Questo gol, il gol che ha deciso il derby di andata, nasce da due scelte opposte degli allenatori e dalla grande differenza di qualità tra il centravanti della Juventus e il terzino sinistro del Torino.

Ed è sempre con la qualità che la Juventus chiude la partita. Con Paulo Dybala, fresco, a passeggiare sulle anime afflitte della difesa granata. Sul terzo gol fa una giocata bellissima seguita da un’altra meno appariscente ma altrettanto rivelatrice del talento dell’argentino. Prima risolve un cubo di Rubik tra tre difensori del Torino utilizzando solo il piede sinistro e mette Higuain davanti a Joe Hart con un filtrante nell’area piccola. Poi intuisce prima di tutti che Hart respingerà il pallone, intuisce anche la zona in cui il pallone sarà respinto, e scatta in quella direzione mentre il tiro di Higuain non è ancora nemmeno partito, passando davanti ai tre difensori di prima. S’incontra col pallone come se si fossero dati un appuntamento e serve Pjanic per il terzo gol. È anche in questo essere sempre dentro la partita, concentrato, capire il gioco, intuirne gli sviluppi, agire e reagire prima degli altri che, in alcune situazioni, Dybala può essere paragonato a Messi senza che a qualcuno scappi da ridere.

Superiorità di squadra

Juventus - Roma 1-0, 17 dicembre

di Daniele Manusia

In una competizione lunga, in cui la differenza tra due squadre che competono per il primo posto la fanno i dettagli e la capacità di ridurre al minimo i cali di forma, è difficile riconoscere in tempo reale la superiorità di quella che poi, alla fine, la spunterà. Anche a posteriori, è quasi impossibile eliminare dallo spettro critico di una stagione intera tutti i rimpianti e i “what if” che avrebbero potuto favorire le avversarie. Certo, quando una squadra è in finale di Champions League avendo subito appena 3 gol in tutta la competizione diventa più semplice togliersi il cappello, ma davanti a una manciata di punti non esiste la prova definitiva che le cose dovevano andare proprio in questo modo e che, magari, con maggiore fortuna, o convinzione, o attenzione in alcune partite, non avrebbe potuto festeggiare un’altra squadra.

Negli anni, però, ho imparato a fidarmi delle mie sensazioni. E se nella partita di andata con la Roma la superiorità della Juventus non si è manifestata in un punteggio più tondo di un’essenziale 1-0, o in un dominio del gioco incontrovertibile, era comunque a disposizione di chiunque volesse sentirla. Un rumore di fondo riconoscibile, che accompagna la maggior parte delle partite decisive che la Juventus di questi anni gioca in stagione. Una sensazione difficile da verbalizzare ma familiare tanto per i tifosi bianconeri che per quelli che abituati a misurare le ambizioni della propria squadra sul metro bianconero.

La partita di andata con la Roma è arrivata appena tre giornate dopo che la Juventus aveva perso in malo modo contro il Genoa e a posteriori possiamo dire che, in effetti, ci sarebbe voluto ancora del tempo prima che Allegri trovasse la risposta giusta ai problemi tattici della sua squadra (e ci sarebbe voluta anche la sconfitta con la Fiorentina).

La partita con la Roma sta lì a ricordarci proprio che anche quando la Juventus non era ancora la migliore Juventus possibile - anche senza Dybala e Bonucci, con Dani Alves lontano dall’essere il giocatore con l’influenza che ha oggi, con Sturaro mezzala e Marchisio davanti la difesa, con Pjanic trequartista nel rombo di centrocampo - era comunque capace di giocare partite ad un livello di intensità atletica e mentale semplicemente intollerabile per un’avversaria forte fisicamente, e tecnicamente tutt’altro che mediocre, come la Roma. In partite come queste la differenza tra la Juventus e le altre squadre si fa sottile, ma diventa anche affilata come la lama di un katana.

Quando si parla di superiorità si intende quasi sempre quella espressa nei duelli individuali - tipo il gol di Higuain, uno dei più belli dell’anno e perfetta espressione di quella indifendibilità che ha sviluppato in Italia - raramente si accenna al modo in cui le singole superiorità si moltiplicano tra loro in una squadra coordinata, con strumenti interpretativi comuni che le permettono di adattarsi alle diverse situazioni di gioco.

La Juventus di quel 17 dicembre era già un organismo estremamente fluido, anche se più verticale e quindi impreciso di quello che sarebbe diventato qualche mese dopo (Allegri dopo la partita si sarebbe lamentato proprio del poco controllo esercitato con la palla, indicando la strada che avrebbe preso nelle partite successive). L’elasticità della linea di centrocampo permetteva già l’alternarsi tra pressione alta e difesa posizionale che sarebbe diventato la chiave di alcune vittorie fondamentali (vedi quella con il Barcellona) e le transizioni offensive erano già oliatissime, con una capacità di trovarsi a tratti sovrannaturale tra i giocatori bianconeri.

Facciamo un esempio.

A metà del secondo tempo (sugli sviluppi di un calcio d’angolo la Juventus torna fino a Buffon che lancia per Chiellini rimasto alto) Mandzukic viene servito da Higuain con un pallone in diagonale che sta uscendo dall’area di rigore verso sinistra, Sturaro si inserisce alle sue spalle e il croato lo manda al tiro con un passaggio di destro in contro tempo, girandosi su se stesso con un movimento innaturale e imprevedibile. La capacità di leggere le pieghe più piccole della partita e far nascere fiori in terreni desertici è una peculiarità di questa Juve che se non è pura superiorità né comunque la manifestazione. E stiamo parlando di una combinazione tra Mandzukic e Sturaro.

Ma facciamo un altro esempio.

Al nono minuto di gioco, Fazio anticipa Mandzukic su una seconda palla ribattuta di testa dalla difesa della Juventus, la palla va in fallo laterale e Fazio nel tentativo di calciare cade a terra. Lichsteiner batte velocemente per Mandzukic lungo la linea, De Rossi non copre Fazio perché preoccupato da Pjanic (l’azione è descritta nei dettagli nell’analisi post-partita di Fabio Barcellona), in area Higuain si libera della marcatura di Ruediger con una traccia orizzontale e arriva al tiro ma non angola abbastanza. Per poco la Juventus non ha fatto gol alla Roma con un’azione coordinata nata da fallo laterale, coinvolgendo in qualche modo persino un raccattapalle.

Nel secondo tempo la Juventus inizia con un ritmo folle: Salah, appena entrato, perde palla nella sua prima transizione perché chiuso da Alex Sandro, Mandzukic (che si sdoppia già con un lavoro incedibile in fascia) e Marchisio. Poi il ritmo si abbassa e la Roma guadagna campo, ma comunque non c’è spazio per giocare in verticale e deve fare il giro lungo per arrivare dalle parti di Dzeko (che non tocca praticamente palla, e in quel momento è l’attaccante in Europa che ha avuto più occasioni da gol). Magari questo controllo freddo della gara non piacerà a tutti, ma richiede grande concentrazione e coordinazione tra i giocatori: la Juventus potrebbe giocare tutta la notte e il rapporto tra i giocatori continuerebbe a consolidarsi. Per difendere di squadra meglio di così, i giocatori dovrebbero letteralmente fondersi in una superficie impermeabile.

Forse è un discorso che riguarda la contemporaneità, forse è quel bisogno di completezza insoddisfatto che ci porta a criticare anche le cose lodevoli, che ci fa confondere la forza con l’invulnerabilità, la superiorità con il dominio assoluto, la bellezza con la perfezione. Ma questa Juventus dovrebbe entrare nella storia del calcio come una delle formazioni che ha espresso nella maniera più chiara possibile la propria superiorità di squadra in tutti quegli aspetti che contano nel calcio: la tecnica, la tattica, le gambe, la testa. Sono rarissimi i giocatori capaci di segnare in rovesciata da centrocampo o di segnare più di 500 gol in carriera, ma sono altrettanto rare le squadre in cui gli undici giocatori sono così affiatati che sembrano muoversi come spinti da uno stesso vento interiore, che si alza e si abbassa a seconda dei momenti, che riempie le orecchie degli avversari con un rumore di fondo che è la cosa più vicina alla definizione materiale del concetto di superiorità.

La piccola rivoluzione dei princìpi

Juventus-Lazio 2-0, 22 gennaio

di Fabio Barcellona

Alla fine del girone d’andata la Juventus è prima in classifica con 4 punti di vantaggio sulla Roma pur avendo giocato una partita in meno, ma il dominio in classifica non mette al riparo da critiche i bianconeri, che non hanno ancora mostrato un gioco brillante. La Juventus ha anche perso 3 partite in trasferta (entrambe le sfide giocate a Milano contro Inter e Milan) e, abbastanza clamorosamente, per 3-0 contro il Genoa. I 3 gol subiti nella prima mezz’ora contro la squadra di Juric rappresentano l’ultima apparizione del 3-5-2 nella prima metà di campionato. Da quel momento, Allegri si affida al 4-3-1-2 con Pjanic in posizione di trequartista - fatta eccezione per il 4-3-3 visto nel derby vittorioso contro il Torino - e il 3-5-2 sembra essere stato definitivamente riposto nell’armadio degli utensili, pronto a essere utilizzato solamente alla bisogna.

Il 4-3-1-2 regala una maglia di titolare fisso a Stefano Sturaro in posizione di mezzala sinistra, e rende irrinunciabile la presenza di Marchisio che talvolta avrebbe bisogno di rifiatare dopo il grave infortunio al ginocchio occorsogli alla fine della passata stagione. Nel nuovo modulo Cuadrado non trova posto, se non come arma tattica a partita iniziata, e Higuain, Mandzukic e Dybala si dividono i minuti di 2 maglie titolari.

A Firenze, nella prima giornata del girone di ritorno, Massimiliano Allegri torna al 3-5-2 e sceglie, per dare maggiore solidità al centrocampo, Asamoah al posto di Pjanic come mezzala sinistra. La Juventus gioca un partita estremamente passiva, finendo in svantaggio di 2 gol all’inizio del secondo tempo. In fase di non possesso palla i bianconeri sono troppo schiacciati all’indietro e, riconquistato il pallone, sono troppo bassi e poco qualitativi per risalire efficacemente il campo.

Nonostante la reazione finale, la Juve perde la quarta partita in trasferta sulle 9 disputate.

Nella partita successiva, in casa contro la Lazio Allegri schiera per la prima volta la sua squadra con il 4-2-3-1. Più che il ritorno della difesa a 4, già ampiamente visto, è importante l’abbandono, per la prima volta, del centrocampo a 3, per schierare solamente due interni in mezzo al campo e simultaneamente in campo tutti i migliori giocatori a disposizione. Per questo, con un’intuizione geniale, Mandzukic è schierato da esterno sinistro e Pjanic è accoppiato a Khedira in un centrocampo apparentemente privo di interditori.

È la chiave della stagione, sia in campionato che in prospettiva europea: tatticamente il nuovo ruolo esalta le qualità di tutti i migliori giocatori presenti nella rosa. Pjanic diventa il centrocampista completo in ogni fase del gioco che da tempo prometteva di essere, Mandzukic difende come un terzino e, in attacco, prevale fisicamente su ogni esterno basso che si ritrova a marcarlo.

Ma, ancor più che una questione di modulo, la vera rivoluzione è nei principi di gioco e nella testa dei calciatori. Allegri ha deciso che la Juventus è finalmente pronta ad utilizzare a pieno tutta la qualità tecnica di cui dispone e che può farlo mantenendo inalterata la sua solidità. L’iconico 3-5-2 bianconero introdotto da Conte non può più essere il manifesto della squadra, perché i calciatori e le loro caratteristiche sono cambiati. La Juventus che vince il suo sesto Scudetto di fila è una squadra che, senza perdere un briciolo della sua accortezza tattica, gioca un calcio più basato sulla tecnica e sul palleggio di quello, maggiormente fisico, messo in campo per vincere i precedenti titoli. L’alchimista Allegri ha finalmente - ancora una volta - trovato le dosi giuste nel suo nuovo alambicco.

Il nuovo ordine juventino

Juventus – Inter 1-0, 5 febbraio

di Marco D’Ottavi

Arriva sempre il momento in cui una squadra particolarmente in forma crede di poter fare con la Juventus una partita à la Juventus. Ma non funziona quasi mai. L’Inter arrivava a questa sfida sulla scia di sette vittorie consecutive in campionato e Pioli sembrava aver dato alla squadra una solidità importante, simile proprio a quella dei bianconeri. I nerazzurri si sono presentati allo Stadium con il preciso intento di fare lo scalpo alla Juve, per raddrizzare una stagione complicata, per i tifosi, per l’accesa rivalità tra le due squadre. Inoltre, per molti era l’ultima speranza per avere un campionato più democratico, visto l’atteggiamento tirannico avuto dalla Juventus fino a quel momento.

Ne è venuta fuori una partita molto combattuta tra due squadre che stavano vivendo un ottimo momento di forma, decisa da quello che può sembrare il più classico coniglio dal cilindro, ma che invece è qualcosa di più. Il passaggio al 4-2-3-1 e l’uso in contemporanea di Pjanic, Khedira, Cuadrado, Dybala, Mandzukic e Higuain ha significato anche questo: Allegri si preoccupa di trovare un equilibrio alla squadra sapendo che uno di questi giocatori può risolvergli tecnicamente la partita anche quando non ha il pieno controllo del gioco. In questo caso il risultato è stato ancora più luminoso, visto che il destro di controbalzo con cui il colombiano ha deciso la partita è un gioiello di potenza e coordinazione (ma la soluzione – per dire – poteva essere il cioccolatino di Dybala finito sulla traversa o la punizione di Pjanic su cui Handanovic fa un miracolo).

Non è stata solo una prova di forza bruta però: il 4-2-3-1 era alla quarta uscita, la prima contro una squadra il cui modulo non si accoppiava bene (nelle altre tre partite aveva affrontato squadre con il 4-3-3), ma soprattutto era importante capire se l’equilibrio avrebbe retto contro una squadra che faceva dell’intensità e del pressing il centro del proprio gioco. Da questo punto di vista le risposte sono state principalmente positive: le scelte tattiche di Pioli, che ha deciso di cambiare l’Inter proprio per diminuire i vantaggi del modulo bianconero, hanno messo in difficoltà la Juventus in alcuni momenti del match, ma il 4-2-3-1 ha sostanzialmente funzionato bene. Mandzukic e Cuadrado hanno dimostrato di saper effettuare la fase difensiva in maniera ordinata anche contro due esterni importanti come Perisic e Candreva e il centrocampo Pjanic – Khedira non è andato sotto contro un rivale molto muscolare.

Anche con i cambi in corsa Allegri ha dimostrato di sapere perfettamente come piegare gli uomini in campo alla sua volontà. Juventus – Inter è stata la conferma che il 4-2-3-1 era una realtà. E che realtà.

Complotto? Davvero? Anche quest'anno?

Juventus - Milan 2-1, 11 marzo

di Emanuele Atturo

Nessuno nella storia del campionato italiano aveva mai vinto sei Scudetti di prima. Inoltre, tra due settimane la Juventus giocherà la nona finale, tra Coppa dei Campioni e Champions League, della sua storia. Ci è arrivata da imbattuta, subendo appena 3 gol in tutta la competizione, ottenendo vittorie di prestigio, come quella contro il Barcellona per 3 a 0. È il successo - parziale, per ora - europeo ad aver tolto un argomento fondamentale ai detrattori storici della Juventus: quello secondo cui i fallimenti in Europa certificherebbero della poca trasparenza dei successi in patria. Per riassumere questo prodigio logico: la Juventus vince in Italia ma perde in Europa perché ha un contesto connivente da una parte e non dall’altra.

Due finali di Champions League in tre anni, però, diventano un’evidenza troppo grossa e in molti hanno dovuto riconoscere di trovarsi di fronte a una delle migliori squadre della storia del nostro campionato. Molti ma non tutti: una cerchia di talebani, anche di fronte a una squadra in testa alla classifica dalla prima all’ultima giornata, hanno contestato la regolarità delle vittorie della Juventus.

Va detto che non ci sono state molte partite che hanno offerto qualche appiglio al complottismo, ma questa col Milan ha raggiunto un livello polemico incredibile da rileggere ora. Riguardiamo la partita. La Juventus ha un approccio autoritario. Passa in vantaggio alla metà del primo tempo con una grande giocata di Dani Alves, che serve Benatia con un passaggio di prima di sinistro. Il Milan rischia di subire il raddoppio, e invece, come spesso gli è capitato quest’anno, riesce a pareggiare. Deulofeu guida la transizione coi razzi ai piedi per 60 metri, poi rifinisce per Bacca che segna l’1 a 1.

Nel secondo tempo ricomincia il dominio della Juventus, che sbaglia un gol improbabile con Khedira, prende una traversa con Pjanic, costringe Donnarumma a una striscia di miracoli clamorosa. Poi, negli ultimi secondi di recupero, Lichtsteiner crossa sul braccio di De Sciglio. L’arbitro fischia il rigore, poi segnato da Dybala. La Juventus evita il secondo pareggio consecutivo dopo quello di Udine cinque giorni prima, tiene la Roma a -8 e coglie una di quelle vittorie che pesano il triplo sui sottili equilibri psicologici di un campionato.

L’importanza di questa vittoria, unita al fatto di essere arrivata a un minuto che di solito non esiste nel calcio (il 97’), attraverso un calcio di rigore, ha dato origine a una nevrosi di complotti sin dal fischio finale. Carlos Bacca cerca di andare a menare all’arbitro Massa, Montella deve fermarlo. Donnarumma grida “sempre a loro”, poi bacia lo stemma del Milan. Persino De Sciglio, di solito un boy-scout, litiga con tutti. In diretta, il telecronista-tifoso Carlo Pellegatti, ripete per nove volte: «Non si può dare questo rigore da mezzo metro». Dopo la realizzazione di Dybala: «È una vergogna. Che vergogna. Che roba brutta. Che roba. Che roba. Che roba. Da zero metri. Da zero metri. A tempo scaduto oltretutto».

I giocatori del Milan distruggono gli spogliatoi: buttano per terra le riproduzioni delle due Champions League vinte della Juve e distruggono i simboli degli scudetti appesi ai muri. La carica iconoclasta è troppo forte per essere ignorata, per non riconoscere che siamo ben al di là di una squadra arrabbiata per una sconfitta che considera ingiusta.

L’eco mediatica dell’episodio del rigore, ovviamente, è vasto e profondo, e rispecchia due atteggiamenti tipici del cospirazionismo calcistico in Italia. Da una parte si cerca di vivisezionare al microscopio il fatto, con una cultura da azzeccagarbugli per cui gli italiani sembrano provare un vero piacere fisico (credo siamo l’unico paese al mondo a possedere una classifica parallela che calcola i punti al netto degli errori arbitrali: una classifica dell’onestà). Si pronunciano tutti sul rigore, da Nick Amoroso a De Magistris; da Massimo Boldi a Paolo Bonolis. Parte un esposto del Codacons. Persino una rivista di solito intelligente come Il Napolista in quei giorni pubblica un articolo in cui si rivendica la legittimità a non riconoscere la superiorità della Juve. I giornali riportano una massa d’opinioni così gigantesca che alla fine il Corriere dello Sport è costretto a fare un articolo che faccia una sintesi di tutti gli articoli usciti sulla partita. Un Inception della polemica arbitrale.

Accanto a questo revisionismo, a fare da sostrato, c’è la tesi del complotto vera e propria. Le lamentele sui favori arbitrali ogni anno riguardano diverse squadre (solo quest’anno, ad esempio, Milan, Inter, Roma, Lazio) ma solo con la Juventus la questione assume pieghe ontologiche. Come ha dichiarato Glik qualche giorno fa, riassumendo il pensiero di buona parte dei tifosi italiani: «Purtroppo è successo, succede e sempre succederà che gli arbitri aiuteranno la Juventus».

Non vogliamo davvero arrenderci: anche di fronte a una squadra che domina da anni il nostro campionato, e che ha dimostrato di essere superiore a quasi tutte le squadre europee, vogliamo raccontarci che c’è qualcosa che non va, che ci stanno fregando. È un atteggiamento così irrazionale che per capirlo c’è forse bisogno di allargare il quadro, andare a indagare quel punto in cui si toccano due ossessioni degli italiani: quella per il calcio e quella per l’onestà. Un valore che negli ultimi anni ha guadagnato sempre più importanza nel mercato della nostra morale, e che nel calcio trova un terreno elettivo.

Raramente i discorsi sulla Serie A hanno raggiunto il livello di cospirazionismo toccato quest’anno. Come i personaggi dei romanzi distopici, abbiamo passato questa stagione a cercare di sgamare i complotti dietro la scorza delle partite, illuminati da un concetto di Verità ormai relativizzato fino all’osso: dubitando di tutto, con la costante sensazione che ci fosse sempre qualcosa a tramare per allargare il divario tra ciò che è e ciò che appare.

In questa stagione abbiamo discusso di squadre che si scansano, difensori che non marcano, portieri che non parano, rigoristi con troppe incertezze. Squadre che non vogliono andare in Europa, che segnano troppi gol, che tramano di continuo contro sé stesse per assecondare piani finanziari che riusciamo appena ad intuire. Dentro questa fittissima nube di paranoie - che sono un modo in cui qualcuno pensa di esprimere la propria intelligenza - quelle contro la Juventus sono riuscite comunque a spiccare. Perché il complottismo e le lamentele arbitrali possono pure riguardare tutti, ma alla fine risalgono sempre fino al vertice della piramide. Per quella mentalità del sospetto per cui non c’è mai nulla di pulito nel potere o nel successo: chi vince ha per forza qualcosa di brutto da nascondere. «A pensar male si fa peccato ma spesso ci si azzecca» è non a caso la massima più famosa del più influente politico italiano della storia repubblicana.

Se c’era un anno in cui accettare serenamente la vittoria di una squadra era questo, non tutti ci sono riusciti e forse le motivazioni sono così profonde e radicate nella nostra cultura che non ce ne libereremo mai del tutto. Vorrei dire che vivremmo meglio a riconoscere le cose per quello che sono: che una squadra ha vinto, semplicemente, perché lo ha meritato. Qualcuno però mi risponderebbe che mi hanno fatto il lavaggio del cervello.

Un capolavoro d’economia

Napoli-Juventus 1-1, 2 aprile

di Matteo Gatto

L’ascesi, il distacco dalle cose terrene finalizzato al raggiungimento dell’obiettivo finale, lo scudetto. O anche: la partita manifesto della filosofia da competizione sportiva a tappe di Massimiliano Allegri.

Scontro atteso da sempre, dall’estate 2016, dall’arrivo di Higuain a Torino. Napoli che vincendo può andare a -7 dalla testa. Ambiente arroventato, nervoso, pesante. Nessuna dichiarazione conciliante, nessuno che smorzi i toni. Bus della Juve scortato dalla polizia fino all’albergo tra fischi e insulti. Uno stadio pieno e pronto a ululare disprezzo e rabbia da amore tradito per tutto il tempo che sarà possibile e necessario. Sarri con l’undici migliore a disposizione. Le premesse sono da scontro titanico, e non si può andare a uno scontro titanico se non al massimo delle proprie forze.

Ma è davvero questa la realtà? E anche se fosse, siamo davvero obbligati ad assecondarla? Allegri vede le cose in modo diverso: si sottrae, e non per timore, per calcolo. Lascia fuori Dybala, Alex Sandro, Dani Alves, Cuadrado. Mette Lemina alto a destra, Asamoah basso a sinistra. La Juventus si accomoda in campo, prudente, fisica, concentrata e allo stesso tempo distaccata. Segna subito un gol molto bello giocando sui difetti dell’avversario, con giro palla, cambio di fascia a scoprire il Napoli e Marchisio a cercare di prima Higuain in profondità, dietro la linea difensiva napoletana. Khedira arriva sulla seconda palla e si infila in corsa tra Allan e Callejon, ottimo uno-due con Pjanic che gliela restituisce un po’ indietro, giusta per il destro di prima che buca Rafael. Sarà l’unico tiro in porta bianconero, e tanto basta. Da lì in poi la Juve abbandona anche gli accenni di pressing alto dei primissimi minuti, si accuccia sul 4-4-1-1, lascia al Napoli campo e pallone (gli azzurri chiuderanno con il 60.9% di possesso e 17 tiri, solo 4 in porta) e resta dietro a risparmiare energie, a coprire spazi, a fare esercizi di meditazione, compattezza difensiva e distanze tra i reparti.

Il Napoli preme, non prende la porta in alcune ottime occasioni. Nel secondo tempo pareggia finalmente Hamsik, va vicinissimo al raddoppio Mertens su leggerezza di Asamoah. Finisce 1-1, la Juve rientra a Torino con un punto, senza aver speso nemmeno un cartellino giallo. Intanto germogliano le critiche e le preoccupazioni dei tifosi per una Juventus molto brutta che però tre giorni dopo ritorna a Napoli, segna due gol al San Paolo e va in finale di Coppa Italia. Poi vince in casa col Chievo, a Pescara e in casa col Genoa, eliminando nel mentre il Barcellona dalla Champions League senza subire gol.

Vista oggi, questa partita è stata un capolavoro di economia. Giocata in quarta, senza scendere nell’inferno che sembrava inevitabile e invece, in una competizione a tappe, quasi sempre l’inferno è davvero inferno solo se glielo consenti. Depurata la partita da tutte le sue sovrastrutture emotive, la cosa peggiore che poteva davvero succedere alla Juventus, a Napoli, era perdere, ovvero fare zero punti, e Allegri l’aveva già messo in preventivo. Quest’anno in particolare Allegri ha ridimensionato gli scontri diretti, soprattutto quelli fuori casa, disinnescando ogni rivalità e preferendo ragionare per tabelle di marcia, scegliendo sempre di fare i punti dove e quando era più semplice. Ha avuto ragione. Al sesto campionato di fila la Juventus è ormai perfettamente in equilibrio, centrata su se stessa e sui suoi obiettivi, impermeabile alle emozioni altrui, indifferente alle rivalità, ai giudizi, alle aspettative. Mentalmente in grado di fare una brutta partita senza dimenticare quanto sia bella. Forte abbastanza da non aver ogni volta bisogno di dimostrarlo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura