Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Fabrizio Gilardi
La crescita difficile dei Minnesota Timberwolves
17 nov 2017
17 nov 2017
Nonostante i buoni risultati la squadra di Tom Thibodeau è sull’orlo di una crisi di nervi. Perché?
(di)
Fabrizio Gilardi
(foto)
Dark mode
(ON)

L’ultima volta che i Minnesota Timberwolves hanno inanellato quattro vittorie in fila schieravano in quintetto Luke Ridnour, Alexey Shved, Andrei Kirilenko, Dante Cunningham e Nikola Pekovic. E qui si potrebbe chiudere, perché non c’è bisogno di dire altro: è un meraviglioso bigino della storia della franchigia negli ultimi dieci anni.


 

Era il 15 dicembre del 2012, i New York Knicks erano in testa alla Eastern Conference, Giannis Antetokounmpo aveva iniziato a giocare a basket da pochi mesi, un olio presumibilmente consacrato aveva appena salvato la carriera di Steph Curry e la squadra, la città di Minneapolis e di uno Stato intero del Minnesota erano convinti di essere usciti dal baratro e di essere in lotta per accedere ai playoff. Poi Kevin Love si è fratturato nuovamente il terzo metacarpo della mano destra — quasi certamente per aver affrettato il rientro dall’infortunio patito durante l'estate mentre eseguiva dei piegamenti sui pugni, tecnica che tra le altre cose si utilizza appunto per prevenire traumi e infiammazioni varie tra mano, polso e avambraccio — e la stagione è andata a rotoli. Se non si è chiuso prima, si è sempre in tempo per farlo ora, perché anche questo è molto Timberwolves. Pure troppo.


 

Nelle cinque stagioni successive alla cessione di Kevin Garnett, dall’estate del 2007 a quella del 2012, i T’Wolves hanno vinto in tutto 104 partite e sono entrati nella storia da tutte le porte sbagliate disponibili e per i peggiori motivi immaginabili. A partire dalla presenza dei fieri comandanti che guidavano la squadra dalla panchina, Randy Wittman e Kurt Rambis, indimenticabili (per modo di dire) anche nelle successive esperienze da capo allenatore. E soprattutto del glorioso condottiero che si occupava della gestione manageriale della squadra, il General Manager David Kahn (89-223 il bilancio di vittorie e sconfitte durante il suo leggendario regno), che invece non è più riuscito ad ottenere alcun ruolo di rilievo all’interno di altre organizzazioni NBA. Ma nemmeno ruoli marginali. Neanche nelle leghe di sviluppo o altrove. Niente.



Il riassunto delle manovre di David Kahn è un capolavoro della cultura popolare del ventunesimo secolo.


 

Per trovare una serie di cinque vittorie bisogna tornare indietro di otto anni, mentre per un stagione iniziata con tre o meno sconfitte nelle prime 10 gare serve tirare in ballo Terrell Brandon e l’ultimo anno con Sam Mitchell — inteso come giocatore, quello alla fine della carriera professionistica che faceva da chioccia al Garnett liceale. Con un passato del genere, chiudere il primo mese di regular season con un record vincente e in perfetta tabella di marcia per assestarsi nei dintorni delle 50 vittorie — in linea con le previsioni di inizio stagione dei principali siti di scommesse di Las Vegas (quota over/under fissata a 48.5) — dovrebbe essere visto come un trionfo. Non fosse altro perché interromperebbe la striscia di tredici stagioni consecutive lontano dai playoff, la seconda più lunga di sempre dopo quella magistralmente costruita dai Clippers – e chi se no — dal 1977 al 1991. O quantomeno potrebbe risultare una soddisfazione sufficiente a tenere alto il morale del gruppo e di tutto l’ambiente — escluso ovviamente coach Tom Thibodeau, che ha una scala di gradi di umore che si sviluppa solo verso il negativo.


 

Quella di Minnesota però è una storia triste e prevedibile, e quindi nel momento più alto degli ultimi 10 anni della franchigia non poteva che entrare in scena l’applicazione cestistica della Legge di Murphy: «Se qualcosa può andar male lo farà» si declina in “Se sei una squadra giovane, con problemi difensivi e in cerca di continuità, ma in crescita e quasi sulla buona strada, la partita successiva sarà sul campo dei Golden State Warriors”. E quindi eccoci al dramma.


 

Il disastro difensivo di Minnesota


Quando l’attacco che ha elevato ad arte la creazione del caos e dei movimenti senza palla incontra una difesa che soffre enormemente la transizione e anche il più semplice dei blocchi, Murphy si frega le mani e si congratula con se stesso per il lavoro svolto. Minnesota è ultima o penultima in pressoché ogni tipo di classifica di rendimento difensivo, a braccetto con Cleveland: sta concedendo alle avversarie il 50% al tiro di percentuale semplice (la seconda peggiore è Indiana, 47.6%) e il 57% di percentuale effettiva (penultima appunto Cleveland, 56%). Gli unici due dati che possano essere minimamente incoraggianti sono la capacità di non far fallo (minor numero di liberi concessi in tutta la lega), che però è l’altra faccia della medaglia delle praterie regalate a ogni attaccante possibile; e le percentuali avversarie nei long 2s, in questo momento vicine ad un insostenibile 50%. Chiunque abbia visto anche solo una manciata di minuti dei Cavs non ha bisogno di altre informazioni e sa benissimo di cosa si stia parlando, ma qualche esempio delle enormi carenze in fase di comunicazione dei Timberwolves può aiutare a rinfrescare la memoria.




 

 

Tuo, anzi no mio, forse è meglio se lo prende lui: ops.


 

Contro Golden State può succedere. Non dovrebbe, ma capita, soprattutto a novembre. Il problema è che ai Timberwolves capita praticamente sempre contro chiunque da anni, ma soprattutto continua a capitare nonostante l’allenatore sia in pratica l’inventore della moderna difesa sul pick and roll.


 

Quando Thibodeau ha preso possesso della franchigia — perché il doppio ruolo di capo-allenatore e President of Basketball Operations sostanzialmente implica il pieno controllo su ogni livello e sfumatura della parte tecnica — si è dato praticamente per scontato che finalmente, dopo dieci anni di agonia intervallati da qualche sporadico squarcio di speranza, i Timberwolves avrebbero smesso di essere costantemente tra le cinque squadre peggiori nella propria metà campo. Per quanto sviluppato possa essere un sistema, però, non si può prescindere dalla qualità degli interpreti. È possibile che Thibodeau non sia un insegnante della difesa, ma solamente – non che sia poco — un comandante che riesce ad esaltare le capacità di soldati già ben specializzati, come erano Joakim Noah, Jimmy Butler e Taj Gibson a Chicago, tanto da sopperire alle croniche carenze di un difensore pessimo come Carlos Boozer. O è possibile che schemi che qualche anno fa erano enigmi irrisolvibili per qualsiasi attacco avversario come il suo celeberrimo “Ice” siano nel frattempo stati disinnescati, o magari che Thibodeau sia un soggetto con cui relazionarsi sia molto difficile (per quanto stia cercando di migliorare, almeno a quanto dicono) e che prima di “comprare” il suo prodotto i giocatori abbiano bisogno di una fase di assestamento piuttosto lunga.


 

Resta il fatto che per segnare contro i Timberwolves è sufficiente costringere alcuni giocatori a pensare e comunicare: può succedere, come detto, che dover seguire Klay Thompson, leggere i continui tagli degli Warriors e adeguarsi a marcare un giocatore diverso ad ogni transizione possa mandare in confusione un difensore; ma se lo stesso difensore va in crisi a prescindere, si schianta sui blocchi, perde regolarmente il proprio uomo lontano dalla palla e accumula amnesie in successione, non è più questione di forza dell’attacco avversario e probabilmente nemmeno questione di allenatore e schemi. Andrew Wiggins in isolamento è un difensore più che accettabile e ha mezzi fisici che gli consentono di rimediare anche a qualche piccolo errore, ma a questo punto delle sua carriera nelle altre situazioni di gioco è semplicemente disastroso.



Una costante nei canestri di T.J. Warren: a inizio azione Wiggins c’è, al momento del tiro si è perso.


 

Se si aggiunge che anche Jeff Teague per dimensioni, tendenze e QI cestistico è totalmente allergico ai blocchi avversari, Minnesota si ritrova in pratica a dover inseguire il pallone sin dall’inizio di ogni azione a metà campo, esattamente come in transizione. E anche la presenza di un difensore ben sopra la media come Jimmy Butler viene facilmente aggirata dagli avversari che possono utilizzare la “Kawhi Island”, ovverosia mettere l’uomo marcato da Butler in un angolo e giocare 4 contro 4 con il resto degli spaesati T’Wolves — un difetto acuito ulteriormente dalle ristrette rotazioni di Thibodeau.


 

I dolori del giovane Karl-Anthony


Schierare difensori pessimi di per sé non aiuta, ma potrebbe non essere letale se al centro dell’area ci fosse qualcuno in grado di mettere delle pezze agli errori altrui, come il Noah in versione Bulls. Karl-Anthony Towns è giovanissimo, ha davanti a sé tutto il tempo del mondo per migliorare, ma rientra nella medesima descrizione usata per Wiggins: a questo punto della carriera è disastroso, quanto di più lontano si possa immaginare da un rim protector o anche solo da un difensore in aiuto competente. Ne ha accennato Zach Lowe su ESPN, ne ha trattato in modo approfondito Kevin O’Connor su The Ringer, se ne potrebbe parlare e scrivere per ore: ad oggi praticamente nulla di ciò che fa KAT nei dintorni del proprio canestro ha senso. E quando si allontana dal ferro è anche peggio.




 


Scelta in base al cronometro, profondità dello show, posizione: il circo degli orrori.


 

Uno degli aspetti più preoccupanti è la scarsa comprensione del gioco, degli angoli, della geometria del campo, dei tempi dell’azione e del diverso peso specifico degli stessi. Tutte cose che peraltro si possono notare anche in attacco, con la sostanziale differenza che con la palla in mano è talmente forte – perché non c’è altro modo di definirlo: è davvero forte, inutile cercare termini diversi — da potersi permettere soluzioni affrettate, fuori equilibrio, fuori dagli schemi e anche che mandano Thibodeau fuori dalla grazia del Signore, come ad esempio certe triple immediatamente dopo la rimessa in uscita da timeout in situazioni in cui era palesemente previsto che l’azione si sviluppasse diversamente.


 

Anche in questo caso vale lo stesso per Wiggins, che è tutto tranne il prototipo dell’attaccante perfetto, ma che è più che competente e aiuta a garantire ai Timberwolves un attacco sopra media, per la precisione il 9° migliore secondo i dati di Cleaning the Glass, che escludono dal conteggio i possessi di garbage time e quelli di fine quarto che si concludono con preghiere lanciate al ferro da distanze improponibili. Tra i giocatori con Usage comparabile, in questa stagione solo Kristaps Porzingis, Dwight Howard e T.J. Warren hanno una percentuale di assist più bassa della sua, e nella scorsa solo Anthony Davis gli si avvicinava. La selezione di tiro del canadese è ancora rivedibile, nonostante gli evidenti e incoraggianti progressi al tiro da fuori, ma come detto su tutto questo si potrebbe tranquillamente chiudere un occhio e anzi è probabilmente il caso di farlo, visto che le grosse carenze stanno altrove.


 

Tornando a Towns, ad esempio, impossibile non notare gli happy feet, la tendenza a saltare non solo in aiuto alla ricerca di stoppate impossibili perdendo il controllo del proprio diretto avversario a rimbalzo, ma anche quando si trova a dover marcare gli esterni: basta una finta qualsiasi per fargli perdere totalmente l’equilibrio, il tempismo e prendere vantaggio.




 

 

Happy feet anche in attacco: la caccia a rimbalzi fuori portata apre possibilità di transizione avversaria.


 

Lo psicodramma dietro l’angolo


Una squadra più matura e spinta da meno urgenza avrebbe semplicemente messo da parte la sconfitta contro Golden State come schedule loss, cioè causata non da particolari demeriti ma più che altro dal calendario, vedi back-to-back o tour prolungato in trasferta, o stato di grazia altrui (perenne, in questo caso). Quella sconfitta invece è stata la scintilla che ha fatto esplodere Jimmy Butler, fino a quel momento perfettamente calato nel ruolo di pretoriano di Thibodeau e totalmente dedito al successo dei compagni, specie i due più illustri, ad evidente discapito della propria produzione individuale. Come riportato da Britt Robson su The Athletic, prima del successivo incontro con i Suns pare che Butler abbia annunciato alla squadra l’intenzione di continuare a mettersi a disposizione di Teague, Wiggins e Towns passando loro il pallone quando necessario, ma che di base sarebbe tornato alla modalità Jimmy G Buckets — dove la G sta per Gets — della scorsa stagione, in cui ha portato sulle proprie spalle il peso dell’intero attacco dei Bulls.


 

Alle parole sono seguiti i fatti: 7 tiri tentati nel primo quarto ma solo uno realizzato, compagni meno a proprio agio, attacco di squadra che ha faticato e partita che si è trascinata punto a punto fino ai minuti finali, quando il tentativo di ergersi a salvatore della patria di Butler ha offerto risultati decisamente rivedibili.




 


L’hero ball di Butler nei possessi decisivi contro i Suns.


 

La legge di Murphy ha eccezioni, perché se fosse stata rispettata i Timberwolves non avrebbero avuto tre giorni di riposo prima di affrontare e battere un avversario menomato e demoralizzato come gli Utah Jazz, ma avrebbero rischiato l’implosione al cospetto di una squadra in forma e meno lunatica.


 

La sensazione è comunque che la sua ombra accompagnerà l’intera stagione e che lo psicodramma sia sempre dietro l’angolo: Thibodeau, come sempre quando è in difficoltà, ha iniziato ad abusare del proprio quintetto titolare anche in situazioni in cui, come contro i Jazz, la vittoria non è mai sembrata in discussione. Far giocare 41 minuti a Towns in una partita qualsiasi di inizio novembre appare come una follia sconsiderata, ma testimonia appunto quanto delicata sia la situazione e quanto fondamentale fosse non solo vincere, ma anche tenere sotto completo controllo l’andamento del punteggio e le emozioni — perché subire una rimonta anche solo parziale avrebbe rischiato di fare danni incalcolabili. Tyus Jones, Jamal Crawford, Nemanja Bjelica e Gorgui Dieng dalla panchina sono sembrati all’altezza di fornire un contributo positivo e non hanno quasi mai sfigurato; costringerli a comparsate nei momenti di stanca dei singoli incontri, privandosi oltretutto della possibilità di variazioni tattiche, potrebbe rivelarsi un problema — ma mai grande quanto la gestione emotiva del gruppo e quindi, almeno per il momento, questo è.


 

Nonostante una difesa imbarazzante i Timberwolves sono al quarto posto della Western Conference e nonostante siano al quarto posto — peraltro reduci dall’aver battuto i San Antonio Spurs — sembrano sull’orlo di una crisi di nervi, perché la storia di Minnesota è triste e prevedibile e Murphy è implacabile. Per dare una svolta non basta nemmeno fare bene, serve fare meglio, sempre meglio, senza mai abbassare il livello di guardia: è difficile per gente come Butler che ha esperienza di playoff e ha visto altissimi e bassissimi, figuriamoci per due ventiduenni come Andrew Wiggins e Karl-Anthony Towns. “Da grandi poteri derivano grandi responsabilità”, si diceva: questi Minnesota Timberwolves hanno certamente i primi, ma devono imparare a fare i conti con le seconde.


 

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura