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Dario Vismara

Il crollo del regno di Cleveland

Come si è arrivati alla richiesta di scambio da parte di Kyrie Irving e cosa…

Ci sono almeno tre soggetti coinvolti in tutta questa storia: il primo ovviamente è Kyrie Irving e quello che vuole per la sua carriera; il secondo è LeBron James e le sue responsabilità per quanto è accaduto; i terzi sono i Cleveland Cavs, messi ora in una situazione impossibile ma che loro stessi hanno aiutato a creare, specialmente con le scelte cervellotiche di Gilbert. Procediamo con ordine.

 

 

Le motivazioni di Irving

 

Si è scritto molto delle motivazioni che hanno spinto Irving a richiedere lo scambio, e negli ultimi giorni siamo venuti a sapere che l’idea era nata fin dalla fine delle scorse Finals — non quelle del 2017, ma quelle vinte nel 2016. Per capirlo a pieno bisogna tenere in considerazione che Irving non ha scelto di giocare con LeBron James, ma che semmai è stato James a scegliere Kyrie come compagno per la terza fase della sua carriera. La point guard nel 2014 aveva appena scelto di rimanere ai Cavs (dopo che già da qualche anno circolavano voci che lo volevano tutt’altro che felice a Cleveland, sia come franchigia che come città) con la promessa di esserne il giocatore-franchigia, di avere sempre il pallone in mano e di poter raggiungere tutti i traguardi individuali che la sua ambizione gli imponeva di avere. È abbastanza normale che i giocatori al primo contratto dopo quelli da rookie, specialmente quelli in grado di procurarsi un accordo al massimo salariale, utilizzino le annate che vanno dalla quinta alla nona nella lega — il prime della loro carriera — per togliersi le maggiori soddisfazioni a livello individuale e in seconda battuta di squadra, anteponendo i propri obiettivi (All-Star Game, All-NBA, MVP, top-5 nella lega) per porre le basi con cui procurarsi opportunità di guadagno anche fuori dal campo (signature shoes, spot commerciali, ecc…). Solamente dopo aver raggiunto tutto questo passano in modalità “Ring”, anteponendo a tutto il resto la possibilità di vincere un anello — la miglior aggiunta possibile al loro “brand”.

 

A Kyrie Irving questo non è stato concesso per l’arrivo di LeBron James, che gli ha tolto le luci della ribalta e ha spostato la sua modalità in “Win Now” prima di quanto probabilmente Irving avrebbe immaginato o voluto. Di fatto, dopo essersi già tolto la soddisfazione di vincere un anello, ora Kyrie vuole riprendersi le annate perdute a livello individuale, vuole avere il riconoscimento che altri della sua generazione come Damian Lillard e John Wall hanno a Portland e Washington (dove sono indiscutibilmente uomini-franchigia pur avendo attorno un contesto vincente) e dimostrare a tutto il mondo di cosa è capace, producendo un’annata da MVP. Verrebbe da chiedersi: perché non può avere tutto questo a Cleveland, che sarebbe più che disponibile a darglielo dal 2018 se, come pare, LeBron James decidesse di andarsene — per di più con la possibilità di dargli un’estensione da Designated Veteran Player pari al 35% del cap se raggiungesse un quintetto All-NBA?

 

Innanzitutto perché non è così scontato che LeBron se ne vada, visto che i Cavs potrebbero offrirgli un quinquennale che nessun altro può dargli, oltre a una conference decisamente più abbordabile rispetto alla Western. Poi bisogna anche pensare al fatto che evidentemente Kyrie non è poi così felice di essere a Cleveland e di sicuro non apprezza l’instabilità di una franchigia che non riesce a tenere un GM per più di un contratto. In ultima istanza, come scritto da Adrian Wojnarowski, c’è anche l’idea di prendere in mano la propria carriera e non subire più le scelte altrui, anticipando di fatto le scelte di James e cercando di creare da solo la propria narrativa.

 

Ciò nonostante, il fatto che abbia deciso così deliberatamente di lasciare un biglietto quasi sicuro per le Finali NBA ogni anno ci dice qualcosa sulle motivazioni che lo spingono, che evidentemente sono più legate alla soddisfazione del suo ego rispetto al sacrificio delle statistiche personali o dei riconoscimenti sull’altare della vittoria di un anello. Non so perché Irving senta la necessità di dimostrare al mondo di cosa è capace: ogni giocatore dentro di sé è animato dalla brama di avere “qualcosa in più”, di sbloccare parti del proprio talento che fino a quel momento erano state limitate per tutta una serie di ragioni. Ma davvero Kyrie pensa che il mondo non sappia di cosa è capace? Oramai dopo sei anni di carriera e tre finali consecutive, più o meno tutti abbiamo un’idea chiara di che tipo di giocatore sia, di quali siano i suoi difetti e di quali siano i suoi pregi. Perché rinunciare alla possibilità di competere per il titolo ogni anno per dimostrarci che può segnare 30 o più punti a partita? Cosa aggiungerebbe un risultato del genere al suo curriculum?

 

 

La vista della situazione da casa James

 

In tutto questo, bisogna considerare la posizione di LeBron James, il quale sostanzialmente per la prima volta in carriera ha visto qualcuno dirgli di non voler giocare più con lui. Di solito era sempre stato lui a prendere questa decisione, mentre ora è dall’altra parte della barricata: non avendo espresso la sua opinione in prima persona, come è nel personaggio, dall’esterno sono arrivate solo notizie contrastanti e molto spesso esagerate sul suo stato d’animo. È pacifico pensare che LeBron James sia arrabbiato e deluso per la scelta di Irving, ma non è plausibile che il suo camp voglia «prenderlo a calci in culo», come detto da Stephen A. Smith. È pacifico pensare che LeBron voglia voltare pagina il prima possibile e non perdere ulteriore tempo, ma non è plausibile pensare che ritenga il solo Derrick Rose abbastanza per sostituirlo degnamente.

 

Viene da chiedersi: quante colpe ha davvero James nella scelta di Irving? Avrebbe dovuto cedere di più le luci della ribalta per accomodare l’ego del suo giovane compagno? Avrebbe dovuto limitarsi di più in campo e/o diminuire la sua influenza sulla franchigia? Di sicuro uno come LeBron James è una presenza ingombrante ovunque vada, ma nell’ultima stagione ha chiuso tirando meno volte, tenendo il pallone per meno tempo e utilizzando meno possessi rispetto a quanto fatto da Irving — una cosa mai successa per nessun suo compagno nei precedenti 12 anni di carriera. James poi, dopo un inizio di relazione balbettante, ha avuto solamente parole di elogio per ogni grande prestazione di Irving, dicendo che lo avrebbe voluto vedere vincere un MVP prima o poi. Soprattutto, James gli ha ceduto uno dei possessi più importanti di una gara-7 delle finali, andandosi a piazzare in un angolo e lasciando che Irving segnasse il tiro che poi ha deciso il titolo del 2016. Se non sono investiture queste, cos’altro avrebbe dovuto fare?

 

Con ogni probabilità, almeno agli occhi di Irving, avrebbe potuto limitare le sue richieste fuori dal campo, che fosse con i subtweet nei confronti dei compagni, nelle richieste a gran voce alla dirigenza e nel generale controllo mentale ed emotivo su tutto quello che succedeva all’interno della franchigia. Forse a Irving non era tanto la presenza fisica di James a dare fastidio, ma l’ombra che stagliava su tutto il resto. E, dopo tre anni vissuti intensamente e alla prima sconfitta in una serie con tutti i membri dei Big Three al completo, ha deciso di averne abbastanza.

 

 

Cosa faranno ora i Cleveland Cavaliers?

 

Pensare di ricomporre i pezzi della frattura tra Irving e James, a questo punto, non è plausibile. Pensare di iniziare un training camp e affrontare anche solo una parte di stagione con questa situazione all’interno dello spogliatoio, anche. Eppure i Cavs non hanno ancora premuto il grilletto su nessuno scambio, pur essendo a conoscenza della situazione da quasi 20 giorni. Perché?

 

I recenti scambi di DeMarcus Cousins, Jimmy Butler e Paul George ci dicono che scambiare una stella è più difficile di quanto sembri in questa epoca. Eppure, rispetto agli altri, Kyrie Irving possiede delle caratteristiche che innalzano il suo valore di mercato e fanno pensare ai Cavs di poter ragionevolmente ottenere un pacchetto dal livello tale da mantenere competitiva la squadra nel presente e nel futuro. Innanzitutto Irving ha solo 25 anni, e i giocatori del suo talento di solito non arrivano sul mercato così presto; inoltre il suo contratto ha due stagioni piene prima dell’uscita nel 2019 a un prezzo più che ragionevole (anche considerando il 15% di bonus in caso di trade), visto che è stato firmato prima dell’esplosione del cap; per concludere, il suo potenziale extra-campo in termini di marketing, biglietti e merchandising è immenso, dato che è conosciuto a livello internazionale grazie ai suoi spot di Uncle Drew (pare stia anche girando un film), la sua linea di scarpe e il suo gioco estremamente fan-friendly.

 

Per tutti questi motivi e per il fatto di poter fare quello che vogliono con il suo contratto (Irving non possiede una no-trade clause), i Cavs sono nella posizione di fare quello che vogliono — anche, se non soprattutto, aspettare che si crei una specie di asta tra le squadre interessate, che potenzialmente potrebbero anche essere tutte le altre 29. A svantaggio di Irving gioca il fatto che ci troviamo nell’epoca d’oro delle point guard e diverse squadre hanno già investito tempo e soldi nella posizione in giocatori di livello simile o superiore. A peggiorare ancora la situazione, il fatto che si sia mosso solo il 7 luglio ha fatto in modo che diverse squadre (tra cui anche una di suo gradimento come i Minnesota Timberwolves) abbiano cercato sul mercato dei free agent la loro soluzione per il ruolo. Le altre tre squadre sulla sua lista — i San Antonio Spurs, i Miami Heat e i New York Knicks — non possiedono o non intendono cedere i pezzi necessari per rendere ragionevolmente fattibile una trade, perciò i Cavs con ogni probabilità si concentreranno sulle offerte dalle altre squadre. Molte di queste, reali oppure immaginarie, sono state descritte da Zach Lowe nel suo pezzo di lunedì, da cui emerge che la principale richiesta di Cleveland sia un blue-chipper, un giovane con talento da All-Star e sotto controllo per il futuro a livello contrattuale. In pratica, un altro Kyrie Irving.

 

Non è semplice prendere un giocatore del genere, specialmente considerando allo stesso tempo il fit al fianco a LeBron James (perché il Re ha già fatto sapere che il suo piano è di ripresentarsi al training camp per guidare i compagni alla quarta finale, «indipendentemente da chi sia») che il futuro nel caso in cui se ne vada. I Cavs devono riuscire a trovare allo stesso tempo un giocatore che sia vice-re ed erede al trono, ed è un’impresa complicata — specialmente con le crepe che si sono venute a creare negli ultimi anni.

 

Sembrava che il regno dei Cavaliers non dovesse interrompersi fino a quando King James non avesse deciso di far finire la festa, ma con la ribellione di Kyrie Irving quel momento è arrivato prima di quanto immaginato. Starà al proprietario Dan Gilbert, al GM Koby Altman fare in modo che il castello non crolli su se stesso lasciando delle macerie ancora peggiori rispetto a quelle del 2010. Il resto della lega, intanto, osserva con grande attenzione i segnali del crollo nel regno di Cleveland.

 

 

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Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).