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Marco D'Ottavi
Non è Gobert, è che contro questo Jokic non puoi farci nulla
15 mag 2024
15 mag 2024
Contro Minnesota una prestazione irreale del serbo.
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Marco D'Ottavi
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Rudy Gobert è alto 216 centimetri; quando apre le braccia il medio della mano destra e sinistra sono distanti 235 centimetri. Quando alza il braccio arriva oltre i 290 centimetri, cioè, senza saltare o usare scale, potrebbe attaccare un adesivo al tabellone. A questo pacchetto, che già sarebbe spaventoso di per sé, parlando di basket ma non solo, unisce una buona mobilità e soprattutto un grande tempismo quando si tratta di proteggere il ferro. Pochi giorni fa ha vinto per la quarta volta il DPOY, il premio di difensore dell’anno della NBA, raggiungendo Dikembe Mutombo e Ben Wallace in cima alla lista di chi ne ha vinti di più. È e rimarrà un giocatore divisivo, per i limiti in attacco e per una certa antipatia francese che si porta dietro, ma nessuno può mettere in dubbio che, quando si parla di difesa, è già oggi uno dei migliori di sempre in questo gioco. Ieri, ahilui, gli toccava marcare Nikola Jokic. Senza dilungarmi: il miglior giocatore di basket al mondo in questo momento, che ieri, prima della palla a due, ha alzato il terzo premio di MVP della stagione regolare.

Prendendo in prestito una citazione anche troppo abusata: quando l’uomo con 4 premi di DPOY incontra l’uomo con 3 premi di MVP, l’uomo con 4 DPOY è un uomo morto. Prima, però, un breve riassunto: Minnesota è la miglior difesa della NBA. Contro Denver aveva vinto le prime due gare della serie, in trasferta, stritolando l’attacco avversario con un'efficacia che non si era mai vista. Praticamente mai, da quando sono questa squadra, i Nuggets, e soprattutto Jokic, avevano faticato così tanto in attacco. In gara-3 e gara-4 erano tornati ai loro livelli, sia per una naturale stanchezza di Minnesota, ma soprattutto migliorando l’esecuzione in attacco, alzando le percentuali (Aaron Gordon, lasciato libero per scelta, non ha quasi sbagliato più un tiro) e trovando finalmente un Jamal Murray sano, o abbastanza sano da ricordare vagamente la sua miglior versione. Gara-5, allora, si era trasformata in uno swing game, la gara che può far pendere una serie da una parte e dall’altra. Ma dicevamo: Jokic vs Gobert. I due si trovano uno contro l’altro da anni, il miglior attaccante contro il miglior difensore, due centri quasi all’opposto dello spettro di come si possa essere un lungo in NBA per stile e caratteristiche. L’idea che si possa sintetizzare una partita di basket così è sbagliata - difesa e attacco sono due fasi collettive - ma ieri sera è stato difficile non farlo, non focalizzarsi su come Jokic ha mortificato ogni tentativo di Gobert di contenerlo.Prendiamo una delle prime azioni. Con 6 secondi sul cronometro dei 24 Denver va da Jokic dietro la linea da 3 punti. Il serbo gioca un pick and roll con Michael Porter Jr che però è solo un’esca. Col corpo spinge Gobert, che lo sta marcando, fino a sotto canestro come se non pesasse 117 chili. Nessuno raddoppia, perché raddoppiare su Jokic vuol dire che lui troverà l’uomo libero per 2 o 3 facili punti. Gobert pianta i piedi, muove le braccia, usa quello che madre natura gli ha dato e di cui parlavo all'inizio, qualcosa che di solito infastidisce l’avversario di turno. Non Jokic. Gli basta ruotare un paio di volte sul perno, cadere all’indietro e rilasciare un tiro morbido sulla sirena che passa sopra al braccio di Gobert e bacia l’interno del ferro prima di entrare.

Come si marca questa cosa? Al campetto si dice “bravo lui”, cioè si fa il meglio possibile e poi se l'altro segna: bravo lui. Minnesota ha deciso di conviverci con questo rischio, perché forse non voleva prendere un’altra volta 27 punti da Gordon con un 11/12 al tiro. Difendere contro Denver, cioè contro Jokic, è un lavoro usurante. La scelta però è sembrata ritorcesi contro quasi subito. Un minuto dopo, situazione simile, sempre in uno contro uno, Jokic ha usato la mano sinistra e il gancio per altri due punti. Di nuovo: bravo lui, quel tiro non si marca.

Sul 21 pari Jokic fa anche peggio a Naz Reid, superandolo con una specie di sombrero e appoggiando al vetro, più fallo. Questo per dire che Jokic è immarcabile da tutti i centri della lega, ma contro Gobert sembra avere un sadismo speciale. Qualche giorno fa Murray ha ricordato questa storia: durante una partita nella bolla di Orlando, Jokic riceve spalle a canestro marcato da Gobert: dal lato debole arriva l’aiuto ma il francese urla «Ci penso io». A quel punto Jokic si è girato e guardandolo sorpreso gli ha detto: «Fratello, ma ne ho segnati 47…». Come spiegare altrimenti questo canestro?

Siamo arrivati alla fine del secondo quarto e la partita è in bilico, il che è una buona notizia per Minnesota che deve anche fare a meno di Mike Conley e non sta avendo il miglior Anthony Edwards. La partita di Jokic, però, non è neanche davvero iniziata. Apre il terzo quarto con due assist, uno portando palla in transizione - cosa che un centro non dovrebbe poter fare - e l’altro direttamente dietro la schiena. Sembra già tanto, ma non è niente. Sul 62-57 raccoglie un rimbalzo difensivo con le spalle al canestro di Minnesota e un secondo dopo Murray è solo a schiacciare. In mezzo quello che viene chiamato un touchdown pass, un passaggio da quarterback in NFL. I quarterback, però, non giocano di spalle e non sono alti 2.13 per un numero in tripla cifra di chili.

Sono tre assist che scavano il primo piccolo divario tra le due squadre. Tre assist di una partita da 40 punti, 13 assist e zero palle perse, secondo nella storia a riuscirci dopo Chris Paul, uno che viene chiamato Point God magari in maniera un po’ enfatica ma certo non a caso. Uno che, a sua volta, non è alto 2.13 (anzi, forse neanche 1.80) e non arriva in tripla cifra di chili neanche prendendo in braccio i suoi figli.Torniamo però a Gobert. Siamo sul 64-59, Jokic è marcato da Karl Anthony-Towns, perché Minnesota ha almeno tre corpi da mandare contro il serbo che potrebbero fare un lavoro almeno decente se solo quello non fosse Jokic. Gordon fa finta di bloccare per Murray e poi invece porta un blocco proprio per il serbo, per costringere Minnesota al cambio difensivo. Denver sceglie cioè di far attaccare il suo centro in post contro Gobert. In qualunque altro sistema offensivo sarebbe una scelta quantomeno curiosa, qui invece succede questa roba qui.

Jokic cerca di nuovo di confondere Gobert muovendosi sul perno, ma il francese non ci casca. La sua difesa è eccellente, quello allora fa un passo verso destra e con la mano destra appoggia al vetro, da angolo impossibile, un tiro che non saprei neanche definire. Bravo lui (ma qui, se ci fate caso, Gobert dà il primo segno di insofferenza, reagendo come se lo avessero tamponato al semaforo). Insomma c’è tutta una partita intorno, ma è impossibile non concentrarsi su quello che fa Jokic. Subito dopo segna quattro punti in fila, prima lasciandosi alle spalle KAT e poi di forza sotto canestro con Reid, perché comunque è una di quelle serate democratiche: ce n’è per tutti. Dal 55-57 al 71-63 tutti i punti di Denver sono stati segnati o assistiti da Jokic, contro la miglior difesa della lega. Torna a segnare per il 78-68, di nuovo contro Gobert, di nuovo mandandolo al bar con i suoi movimenti spalle a canestro, un fondamentale che prima del suo avvento (e di quello di Embiid) sembrava dovesse perdersi nel vento della rivoluzione dello small ball. Un vantaggio di doppia cifra ha un valore anche simbolico e conservarlo con il passare dei minuti può essere decisivo dal punto di vista mentale. Sul 78-70 Jokic vira intorno a Kyle Anderson e si ritrova davanti l’aiuto di Gobert, che però, visto che quello è Jokic, non è così convinto di abbandonare il suo uomo, Gordon. Ne esce fuori un’altra grande giocata del serbo, che si infila tra il francese e il recupero di Anderson e subisce fallo. Riesce comunque a segnare anche il canestro. Dovete cercarvi il replay per capire come fa, principalmente una questione di polpastrelli.

A 30 secondi dalla fine del terzo quarto è di nuovo Jokic contro Gobert, questa volta in punta, dove le speranze del francese di uscirne bene sono ancora più ridotte. E infatti non ne esce bene. Tiene anche bene i primi passi del serbo, ma è scomposto quando alza il braccio e commette fallo. Il problema è che intanto l’altro, cadendo indietro e tirando col braccio dietro al corpo, segna anche i due punti aiutandosi col ferro, ma non come se fosse fortuna, come se fosse voluto. Bravo lui.

Nel terzo quarto Jokic ha segnato 16 punti da solo, ne ha fatti segnare 9 con 4 assist che pochi altri al mondo potrebbero pensare. Se Minnesota non avesse speso due falli su Gordon e Murray per mandarli in lunetta, il conto sarebbe arrivato a una trentina di punti passati per le sue mani. Jokic per 12 minuti è stato praticamente un attacco da solo, in una partita di playoff decisiva, contro la miglior difesa della NBA, in una gara cruciale per i destini della sua squadra e per certi versi della lega intera. Nel quarto quarto Jokic può quasi lasciarsi andare, perché comunque Denver, dopo lo svarione iniziale, sembra aver ritrovato i 6-7 uomini su cui contare. Segna il +18 con una schiacciata in campo aperto propiziata da un recupero di Murray, la Ball Arena erutta, il pericolo sembra scampato. È il canestro più facile della sua serata, ma paradossalmente il più improbabile, anche più improbabile di quello che arriva dopo. Mancano tre minuti e quindici secondi, Minnesota è tornata a -11 e l’inerzia sembra essersi spostata leggermente dalla sua parte. Jokic riceve con 5 secondi sul cronometro dei 24 secondi. È di nuovo in punta, è di nuovo marcato da Gobert. Il francese questa volta può aiutarsi con la mancanza di tempo, Jokic non potrà spingerlo sotto canestro e torturarlo in post, non potrà neanche cercare di batterlo dal palleggio. Può però sparargli una tripla in faccia, e questo fa. Jokic non è un tiratore da tre punti sublime, ma certe volte sembra diventarlo quando più conta o quanto più l’avversario gli sta addosso e il tiro è difficile (chiedere a Anthony Davis).

È la tripla della staffa, l’ultima goccia della tortura su Gobert, l’accento su una partita memorabile. Jokic ha segnato 40 punti, servito 13 assist, ci ha aggiunto pure 7 rimbalzi, due recuperi e una stoppata. Ha toccato un milione di palloni in attacco, tirato 15 su 22, di cui 8 su 9 ai liberi e 2 su 3 da dietro l’arco. Lo ripeto: in tutto questo ha perso 0 palloni. Il suo plus-minus è stato di + 21 in 40 minuti giocati. Dopo la partita Edwards ha concesso l’onore delle armi a Jokic: «Non riesco neppure ad arrabbiarmi, perché è così forte che mi viene quasi da ridere… Stasera è stato davvero speciale, credo sia giusto da parte mia rendergli onore: non so cosa avremmo potuto fare contro di lui». Gobert, interrogato su cosa avrebbe potuto fare per fermarlo (una domanda di una cattiveria subdola), ha usato un modo di dire americano «He was in the zone», che più o meno vuol dire che era nel pieno della concentrazione, ma che ha una sfumatura più trascendentale, tipo che - insomma - Jokic era lì, qualche metro sopra il resto degli esseri umani, concettualmente ma anche in maniera quasi fattuale.

Internet ovviamente si è divertita a memizzare le difficoltà di Gobert, che però non sono le difficoltà di Gobert sono quelle del pianeta Terra nel marcare Jokic. Il francese resterà sempre un giocatore divisivo, anche per il suo stile difensivo, ma stanotte ha fatto quello che ha potuto. Spesso, però, contro Jokic potere non è volere: non è praticamente nulla.

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