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Valdanito
26 mar 2020
26 mar 2020
Ritratto di Hernan Crespo.
(articolo)
17 min
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Nel ritorno degli ottavi di Copa Libertadores 1996, il River Plate ospita i peruviani dello Sporting Cristal. All'andata ha perso a sorpresa, ma quella sera si impone senza grosse difficoltà. Alla mezz'ora Hernán Crespo, vent'anni, sulle spalle il numero 11, si solleva e colpisce la palla in rovesciata. È un gol bellissimo, memorabile. Lui esulta ma continua a non capacitarsi – si porta le mani alla testa, la scuote incredulo.

Increduli sono tutti, per come pare inarrestabile questo giovane attaccante che sintetizza caratteristiche consuetamente slegate nei giocatori di punta: massiccio e insieme agile, potente ma svelto, fisico ma mobilissimo. Di una modernità a cui gli anni Novanta, il Novecento, non sono abituati.

Nell'immaginario sono pochi gli attaccanti degli ultimi anni che vengono collegati al gol con questa inesorabilità. Crespo spiegava di lavorare tutta la settimana, e tutta la partita, per arrivare pronto al momento di segnare – alla «situazione determinante», così la chiamava. Spiegava pure che di occasioni non ce ne sono tante, perciò raggiungere l'obiettivo è straordinario, gratificante.

D'altronde, in un'altra occasione, sottolineava come il gol non fosse tutto, che vedere i tifosi felici lo facesse sentire meglio del gol. Non dev'essere casuale la difficoltà, in qualunque piazza sia stato, di trovare un tifoso che non lo ricordi con stima, o almeno con rispetto.

Nel 2012 a Rovinari, nel sud della Romania, diecimila abitanti e un'economia che ruota intorno a una centrale elettrica, Crespo ha inaugurato una fabbrica di videocamere di sorveglianza. Figurava come investitore, convinto dalla suocera – rumena ma in Italia da trent'anni. Lui ha tagliato il nastro, ha ricevuto le chiavi della città in dono. Sembra un bel contrappasso: un uomo che per lavoro doveva sfuggire al controllo, adesso, per lavoro, si occupava di dispositivi di controllo.

Foto di Michael Steele/Getty Images

 

Il 29 ottobre 1986 il River Plate ospita i colombiani dell'América de Cali nel ritorno della finale di Copa Libertadores. Il gol del “Búfalo” Funes decide la gara. El Monumental impazzisce, nella folla c'è un ragazzino delle giovanili che si chiama Hernán Crespo e quella sera inizia a dar forma a un sogno: vincere la coppa più importante del Sudamerica da giocatore. Il 26 giugno 1996, dieci anni dopo, il River Plate ospita i colombiani dell'América de Cali nel ritorno della finale di Copa Libertadores. A decidere la gara è una doppietta di Hernán Crespo.

Ha studiato in un istituto privato cattolico del suo barrio, Florida, un sobborgo della classe media nei bordi settentrionali della megalopoli di Buenos Aires. Resterà credente, pur senza praticare, e quando incontrerà il papa, negli anni della Lazio, lo definirà il giorno più bello della sua vita – confidando di non essere tipo da emozionarsi spesso.

A pochi isolati da casa gioca il Platense, dove si forma e arriva in prima squadra un ragazzo che ha due anni meno di lui, figlio di argentini ma con un nome e un futuro decisamente francesi: David Trezeguet. Crespo non passa per il Platense. Il suo debutto in Primera, negli stessi mesi di Trezeguet, arriva con la maglia del River, la squadra più titolata del Paese, che l'ha accolto nel settore giovanile quando aveva sei anni.

Ai Millonarios era arrivato in prima squadra senza passare per l'equivalente della nostra Primavera. Era stato un collaboratore del tecnico Passarella a chiamare a casa per comunicargli che lo aspettavano in ritiro, ma aveva risposto la madre e aveva buttato giù il telefono ridendo – pensando a uno scherzo. L'uomo aveva richiamato. Crespo aveva diciott'anni e non sapeva come bisognasse vestirsi per andare in ritiro.

Tra il 1993 e il 1996 polverizza i tempi che intervallano un ordinario cursus honorum. Da promessa a talento, da talento a stella. Vince due campionati, a diciannove anni si laurea capocannoniere del torneo di Clausura. Al suo primo derby col Boca, segna: il River vince il Superclásico dopo quasi cinque anni, sugli spalti c'è suo padre – che è entrato alla Bombonera per la prima volta. La doppietta in finale di Libertadores nel 1996 è una consacrazione. E sono anche gli ultimi due gol da calciatore del River, quindici anni dopo, e l'addio precoce ma definitivo al calcio argentino. Neanche il tentativo del presidente della Repubblica, Carlos Menem, tifosissimo dei Millonarios, riesce a bloccare la trattativa.

Negli anni in prima squadra guadagna abbastanza da permettere al padre, ammalato, di girare per i migliori ospedali del Paese. Per questo, Hernán Crespo spiegherà che secondo lui i soldi fanno la felicità. E articolando il concetto farà una sovrapposizione interessante: «I soldi, oppure il calcio, mi hanno dato indietro mio padre».

Crespo ed Enzo Francescoli brindano alla vittoria della Libertadores 1996.

In una puntata che “I signori del calcio” di Sky gli ha dedicato nel 2008, Crespo sceglie per autodefinirsi l'aggettivo «perseverante».

Dai nove ai sedici anni aveva fatto panchina nelle giovanili del River. Passava parte della serata con gli amici, poi tornava a casa perché il giorno dopo aveva la partita, e gli amici gli chiedevano cosa gliene importasse – visto che avrebbe fatto panchina. Può essere significativa allora quella volta, ne ha raccontato lui, di quando era appena arrivato in prima squadra e i compagni più grandi l'avevano fatto ubriacare, e Crespo inseguì il tecnico Ramón Díaz urlando: «Devi farmi giocare, figlio di puttana».

La prima vera delusione da professionista arriva al Sanford Stadium di Athens, durante le Olimpiadi statunitensi del 1996. Crespo aveva condotto alla finale un'Argentina fortissima, e quel pomeriggio è il più giovane tra i giovani talenti dell'Albiceleste (tra gli altri Zanetti e Almeyda, Claudio López e Ortega). La Selección viene sconfitta dall'inattesa, sbalorditiva Nigeria di Kanu, Babayaro e Okocha.

La seconda delusione, due anni dopo: un infortunio in campionato contro il Lecce che gli impedisce d'arrivare bene alla Coppa del Mondo 1998. Sarebbe stato il titolare del CT, Passarella, l'uomo che l'ha lanciato al River e che ha guidato la selezione giovanile alle Olimpiadi '96. Dovrà accontentarsi di 52 minuti in campo, e di una brutta percezione: «Mi ero preparato per quattro anni, e mi sentivo un estraneo pur stando lì».

Si rifarà poi con altri due Mondiali, benché siano una disfatta nel girone, dopo un dominio nella fase di qualificazione (2002) e una bruciante uscita ai calci di rigore nei quarti (2006). In totale, con la nazionale maggiore realizzerà 35 reti in 64 presenze – quarto marcatore nella storia dell'Albiceleste.

C'è una zona d'ombra nella sua carriera. Un'irresolutezza. Forse è per questo che non lo si considera fino in fondo al livello dei migliori, pur essendo un fuoriclasse e pur avendo vinto molto. «Provo a fare tutto il possibile per essere considerato il migliore al mondo» dichiarava nell'estate 2001. E certo, è stato un idolo, in Argentina la gente gli rubava il numero civico di casa come souvenir. Eppure non ha brillato quanto altri attaccanti con cui ha diviso lo spogliatoio – da Shevchenko a Batistuta, da Vieri a Drogba a Ibrahimović. Proprio con Ibra empatizzò per la beffa di trovarsi a giocare nel tempo di Messi e Cristiano Ronaldo: «È quasi un'ingiustizia dover competere con due extraterrestri...» disse Crespo.

Spesso il suo colore è stato l'argento. Quello delle Olimpiadi 1996, della Copa América 2007, della Scarpa che lo premiò ai Mondiali 2006 come secondo marcatore del torneo. Quando chiuse da capocannoniere della Serie A 2000/01, poi, giocava nella Lazio e il campionato lo vinse la Roma. A lungo in Italia lo Scudetto, lui, l'ha solo sfiorato: stava per compiere trentadue anni quando finalmente ci riuscì, con l'Inter di Mancini. E poi quella notte di maggio nel 2005 a Istanbul, ovviamente: nove anni dopo la finale di Libertadores da protagonista, una finale di Champions League. E una doppietta, inutile.

In Nazionale si è trovato a competere con Batistuta, ha dovuto più volte sedersi in panchina. Quando domandano a Crespo come si faccia a tenersi pronti per subentrare, a livello psicologico, lui risponde: «Non dimentichiamo il bambino che abbiamo dentro di noi. Da bambino sognavo di giocare in Nazionale, è difficile dimenticare quel sogno». E poi c'è il soprannome, così prezioso nelle culture sudamericane: il suo, Valdanito, piccolo Valdano, non è che la riduzione di un'altra individualità.

Nell'ultimo tratto della carriera da calciatore, spiegò la sua filosofia: «Do tutto per arrivare al massimo. Non sempre ci si arriva. Però ho la tranquillità di aver dato tutto, questo sì». Si direbbe una saggezza che porta i segni delle delusioni, e del loro superamento.

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Bueno, ¿este hermoso nene creció? 🤣 GRACIAS A TODOS POR LOS SALUDOS DE CORAZON.. Hernan

A post shared by Hernán Crespo (@hernancrespo) on Jul 5, 2018 at 10:47am PDT

Un bambino argentino di sette anni se ne sta incantato a guardare alla TV Paolo Rossi e gli azzurri che vincono il Mondiale 1982. Ha radici nell'infanzia di Crespo il rapporto con l'Italia, questa affinità elettiva che lo fa parlare di «seconda patria». Distingue obiettivo da sogno. E se il suo sogno era giocare nel River, i club italiani li considerava addirittura un'utopia. La cittadinanza l'avrebbe presa nell'estate 2006, di ritorno dal primo segmento dell'unica esperienza fuori dall'Italia e dall'Argentina – nel Chelsea. Quando i Blues, dopo il secondo segmento, gli proporranno il rinnovo del contratto con l'idea di finire la carriera lì, lui dirà di no: «La vita non è solo pallone. Io ho bisogno del mio posto».

Arriva a Parma nell'estate 1996 e gli dànno la casa dove abitava Hristo Stoichkov, ancora coi suoi mobili. Durante un'intervista a “La Nación”, Crespo chiede di fotografare il letto non rifatto, in modo che la madre si rassicuri che dorme effettivamente in casa. Gianfranco Zola gli prepara una grigliata di carne per farlo sentire a casa, ma Crespo è un ragazzo lontano da tutto quello in cui è cresciuto. E la separazione ha lasciato un'impronta. Lo dice lui stesso, oggi: «Non mi piacciono gli addii. Quando vado via dalle feste, lo faccio con discrezione, salutando da lontano. Gli addii sono difficili per me. È come se mi fosse rimasto dentro qualcosa che ha sofferto il ragazzo venuto in Europa, da solo, a ventun anni».

Fatica ad ambientarsi, nel Parma e nel calcio italiano. Ma l'allenatore, Carlo Ancelotti, insiste: lo schiera ogni domenica, anche se lui non segna (da agosto a febbraio, un solo gol). E dalla coda di quella stagione si sblocca.

Con l'arrivo di Malesani, poi, l'esplosione. Tutti gli allenatori nelle interviste gli riconoscono, insieme alla serietà e alla determinazione, una grande disponibilità. Crespo racconta che in quel periodo gli bastava mettere la testa sul cuscino per addormentarsi, talmente era consapevole di aver dato il massimo. Per il Parma, si mette in porta in Coppa Italia, finiti i cambi, nei quarti del 1998/99. E vince quella coppa, segnando in entrambe le finali, e la settimana seguente vince la coppa UEFA, ancora segnando. È la squadra di Thuram e Verón, di Chiesa e Buffon, di Cannavaro e Boghossian.

Il ragazzo che si emoziona di rado, una volta sola piange per un gol. È la sua ultima stagione a Parma, nella tribuna del Tardini ci sono i suoi genitori. I ducali sono ridotti in nove e stanno perdendo con la Juventus che pare destinata a vincere lo scudetto 1999/2000. Si gioca oltre il novantesimo, Crespo si avventa su una palla in profondità, dribbla Ferrara, infila sul palo opposto tirando in un angolo strettissimo. È solo un pareggio, solo un punto, eppure – dopo la corsa sfrenata per esultare – crolla dalla commozione.

Foto di Grazia Neri/ALLSPORT

Ci sono giocatori che dopo un gol restano freddi. Aprono le braccia in un gesto che inibisce qualunque sorpresa, come se meravigliarsi di quelle capacità fosse offensivo. Oppure fanno un'esultanza che li rappresenta, sempre la stessa, guadagnando in iconicità ma perdendo nel carattere spontaneo della gioia.

Crespo appartiene all'altro tipo di giocatori. Ne è un rappresentante esemplare, anzi. Perché è naturale, febbrile, fuori controllo. C'è una sensualità, nelle sue esultanze gioiose e brutali – in quella combinazione di riso e violenza. Dopo ogni gol si direbbe costretto a liberarsi di una sorta di carica elettrica: con un salto verso l'alto, o con le braccia che strattonano l'aria e non riescono a star ferme.

Quando gioca alla Lazio, segna un gol straordinario alla Fiorentina: arriva in corsa su una ribattuta del portiere e si coordina svelto, con una mezza rovesciata impatta il pallone di sinistro e gonfia la rete. Dopo, non mantiene l'equilibrio: cade e rotola su sé stesso, pare dover scaricare a terra la potenza accumulata per compiere quel gesto.

Alla Lazio ci era arrivato nell'ambito del trasferimento più costoso del calcio mondiale fino a quel momento: si parla complessivamente di 110 miliardi di lire. A 25 anni, arrivava nella squadra campione d'Italia, in una metropoli, e nella sua percezione era un po' come tornare al River. Come ha spiegato, la difficoltà era trovarsi col suo carattere tranquillo in un ambiente di grande intensità, pressione, attesa. Avrebbe vinto la classifica cannonieri. Avrebbe conosciuto Alessia, la donna italo-romena che sarebbe diventata sua moglie. Venti giorni dopo l'incontro, convinto d'aver messo radici, d'improvviso viene acquistato dall'Inter e deve lasciare Roma.

La coppia avrebbe retto a quel colpo di scena, poi avrebbe avuto tre figlie, sarebbe rimasta unita per oltre quindici anni – lo scorso dicembre Crespo ha annunciato la separazione.

Foto di Claudio Villa /Allsport

Il suo pragmatismo lo invitava a essere bello solo quando strettamente necessario, efficace sempre. Lui dice che il tempo gli ha insegnato il cinismo, insieme a guadagnargli esperienza.

Centravanti da battaglia, forte e tignoso, ma di una correttezza esemplare. Non è un caso che non abbia mai ricevuto un cartellino rosso nella sua carriera. La maturità, i suoi genitori gliel'hanno riconosciuta fin dall'infanzia. Un bambino responsabile, tifoso del San Lorenzo, appassionato di calcio, capace a quattro anni d'alzarsi di notte e svegliare il padre per guardare insieme il FIFA World Youth Championship che si disputava in Giappone. A vincere il torneo fu l'Argentina di Maradona e di quel Ramón Díaz che quindici anni dopo – nella prima squadra del River – Crespo avrebbe inseguito da ubriaco.

«Non potevo essere Maradona» ha spiegato una volta. Il genio, come gridò il padre inginocchiandosi dopo il secondo gol all'Inghilterra nel 1986 – lui, uomo misuratissimo, sobrio. Non poteva essere Maradona: così, da ragazzino, Hernán Crespo si è innamorato di Gary Lineker, uno che «amava l'area di rigore».

Per spiegare il suo ritorno in Italia, al Milan di Carlo Ancelotti, dopo un anno di flessione al Chelsea, Crespo offre due chiavi. La prima è che alle grandi squadre non si può dire di no. Lo dicesse in inglese, userebbe il verbo to must. Di nuovo arriva in una squadra che si è appena laureata campione d'Italia.

La seconda chiave è più affascinante e riguarda la sua idea di allenatore, in tempi non sospetti da che quello diventasse il suo mestiere: «Quando uno è in difficoltà, la prima cosa che fa è andare dai suoi genitori, no? E il mio genitore, come allenatore, è Ancelotti».

All'arrivo, chi si occupa della preparazione gli dice che dal 15 novembre volerà. Non prima. Crespo non ci crede. Ma in effetti le sue prestazioni nei primi mesi saranno mediocri, non trova neanche un gol. Nelle tre gare che seguono quella data promessa, realizza 4 reti. E arriverà a 18 complessive, di lì a maggio.

Al Milan rimane una sola stagione, ma lui è pieno di gratitudine quando ne parla. Lo ha rimesso in sesto, gli ha dato una nuova carriera, dice. Nonostante ci sia stata di mezzo la finale di Istanbul. Alla quale dà una lettura a posteriori che dice molto della sua psicologia, e di quel senso d'ombra che lo accompagna: «Era troppo bello per essere vero. Era il sogno, era il massimo che potevo avere».

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Al cospetto della medaglia per la vittoria della Premier 2005/06, il suo primo titolo nazionale in Europa.

Il ritorno all'Inter è una soddisfazione: a richiamarlo sono gli stessi dirigenti che gli avevano detto di andar via. Ne parlerà come di una scelta umana, da parte sua, prima che professionale. Viene da una stagione più che positiva, il Chelsea bis, con Mourinho e la conquista della Premier 2005/06 – il suo primo campionato vinto in Europa. Anche la seconda esperienza all'Inter è un'esperienza migliore della prima. Di parecchio. Non solo vince lo Scudetto, ma ci riesce da miglior marcatore della rosa.

Poi inizia il tramonto. All'Inter viene accantonato già nella stagione successiva, e nella terza (2008/09) avrà a disposizione la miseria di 611 minuti. A marzo segna contro la Roma, Crespo nell'intervista che segue si commuove, dedica il gol alle figlie, di quel gol dice: «È frutto dello sforzo di mantenermi sempre vivo».

Un passaggio al Genoa, per sei mesi, e il romantico ritorno a Parma, quasi dieci anni dopo. Durante la conferenza stampa di presentazione, con la sciarpa al collo, la voce gli si rompe dall'emozione. Farà una stagione e mezza di buon calcio, poi sei mesi per tirare il sipario e rescindere. Lascerà i ducali con 201 presenze totali e 94 reti.

Potrebbe firmare col River, a quel punto, un altro ritorno romantico, ma non se la sente di correre il rischio d'offuscare il ricordo («Non ho avuto le palle per accettare» dirà). Sembra poi destinato a qualche mese in India, nel Bengala Occidentale, con i Barasat Euro Musketeers, ma non se ne fa più niente. A trentasette anni Hernán Crespo si ritira.

E appena smette col calcio giocato, diventa allenatore. A Coverciano, insieme all'abilitazione (anno 2012/13), riceve la lode dalla commissione d'esame.

La sua tesi (Il calciatore moderno: identità, nazionalismo e internazionalizzazione) ragiona sulle sfide poste al calcio dalla globalizzazione e sulla necessaria formazione per rendere i calciatori completi, adatti a giocare ovunque – in un mondo che si è uniformato nella richiesta d'un ampio ventaglio di caratteristiche. In un passaggio scrive: «Non basta più per essere un “Campione” primeggiare nel proprio campionato, nella propria Nazione. Occorre vincere a livello Globale, essere protagonista in Campionati diversi».

Foto di Valerio Pennicino/Getty Images

Crespo allenatore dice di sognare in grande come ha sempre fatto. Di ambire a vincere la Champions League. Dopo una buona stagione (2014/15) con la Primavera del Parma, il debutto in prima squadra è a Modena, in serie B. Beffardamente è il club contro il quale aveva subito l'infortunio nel 2003 che aveva spezzato la sua prima esperienza all'Inter. Verrà esonerato a marzo, la squadra non si risolleverà e finirà in C. Negli strascichi, il presidente Caliendo sosterrà che Crespo allenasse un'ora al giorno («Mi diceva che non era importante la durata ma l'intensità») e se ne andasse a casa di nascosto. La moglie si scaglierà contro i giornalisti in sala stampa: «Crespo ha lavorato gratis, merde».

Dopo quell'esperienza, il suo nome viene accostato alla panchina del San Lorenzo. Crespo non nasconde la speranza di allenare il club che tifava da bambino. Invece la chiamata non arriva e lui sta fermo per quasi tre anni. Sul finire del 2018 torna in Argentina, al Banfield. Viene esonerato nell'arco di otto mesi, dopo appena due vittorie in campionato.

Ancora a novembre scorso sembra vicino al San Lorenzo, e il 25 gennaio torna effettivamente ad allenare in Superliga argentina, ma stavolta è il Defensa y Justicia. La squadra rivelazione del campionato precedente, una bella opportunità.

Fin qui ha avuto un buon impatto (3 vittorie e 3 pareggi in Superliga). Il 3 marzo il club ha esordito in Libertadores, nel girone. È stato un debutto anche per Crespo, o un ritorno – là dov'è iniziato il suo cammino da calciatore. La gara era proibitiva, in casa del Santos. Dopo il vantaggio iniziale, il Defensa Y Justicia si è arreso a una rimonta. Il gol decisivo l'ha segnato Kaio Jorge, diciott'anni, già accostato a club europei (dal Chelsea alla Juventus), che è nato il 24 gennaio 2002 – quando Crespo era al giro di boa della carriera da calciatore.

Il 29 febbraio è tornato al Monumental per la prima volta, e per la prima volta da avversario. L'Halcón gialloverde ha interrotto con un pareggio la striscia di vittorie del River capolista. Prima dell'incontro, un'assordante ovazione ha salutato Crespo dagli spalti e il club lo ha omaggiato di una targa. Lui aveva un'emozione visibile: «Questa targa non è per un uomo di 44 anni, ma per Hernán, il ragazzo di venti» ha detto.

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