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Gian Marco Porcellini
Come giocava il Parma di Malesani
23 gen 2018
23 gen 2018
Il Parma che vinse la Coppa UEFA nel 1999 poco prima del crac finanziario della Parmalat era una squadra originale e divertente da guardare.
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Gian Marco Porcellini
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C’è stato un tempo in cui Alberto Malesani non era un meme, ma un allenatore promettente e apprezzato per la modernità delle sue idee. Incredibile provare a raccontarlo oggi, specie alle generazioni che lo hanno conosciuto grazie ai suoi sfoghi

o alla sua passione per il

. Parliamo della fine degli anni ’90, un periodo in cui Internet era meno pervasivo e non aveva ancora il potere di annullare la credibilità di una figura professionale, in misura ancora peggiore di quanto abbiano fatto i risultati raccolti negli ultimi 15 anni.

 

Nell’agosto del 1997 il tecnico veneto si apprestava a disputare il suo primo campionato in Serie A. Il presidente della Fiorentina Cecchi Gori lo aveva messo sotto contratto affascinato dal brillante quadriennio alla guida del Chievo Verona, un piccolo quartiere del capoluogo veneto che era riuscito a portare dalla Serie C alla B. Nell’aprile del ’98, dopo alcuni screzi col presidente viola, Malesani, malgrado fosse già in parola col Bologna,

per la stagione successiva con l’ambizioso Parma di Tanzi, con cui ha firmato un triennale. Erano gli anni delle “sette sorelle” in lotta per il campionato, della provincia rampante che provava a tenere testa alle big a suon di miliardi, anche se solo 5 anni più tardi si sarebbe scoperto che la Parmalat, l’azienda proprietaria del club gialloblù, era tenuta in piedi da bilanci “fantasiosi”, per usare un eufemismo.

 

In quell’estate il Parma non si nascondeva: puntava allo Scudetto. La dirigenza aveva inserito nel contratto di Malesani un bonus di 1,5 miliardi nel caso fosse arrivato nelle prime due posizioni. Del resto i “ducali” avevano a disposizione quella che era forse la rosa migliore della propria storia. A Buffon, Cannavaro, Thuram, Dino Baggio, Chiesa e Crespo, si erano aggiunti in estate gli arrivi di Juan Sebastian Veron, del campione del mondo Boghossian dalla Sampdoria, oltre al nazionale Fuser dalla Lazio.

 

La società gialloblù in soli 9 anni di Serie A aveva già messo in bacheca due Coppe Italia, una Coppa delle Coppe, due Uefa, una Supercoppa europea e mirava a compiere l’ultimo passo, consolidandosi come una società di vertice. Per farlo la dirigenza aveva deciso di nuovo di scommettere su un allenatore originale. Dopo che in Emilia nell’ultimo decennio erano stati lanciati due tecnici esordienti che si sarebbero rivelati all’avanguardia, come Arrigo Sacchi e Nevio Scala, Tanzi voleva continuare sulla stessa linea.

 

Alberto Malsani era uno dei nomi più quotati ed eccentrici nel panorama degli allenatori emergenti, artefice di un gioco offensivo che aveva pochi riferimenti con la scuola tattica italiana e si ispirava invece al 3-4-3 di van Gaal.

 

Rispetto alla tradizione italiana, sempre molto attenta alla cura degli equilibri difensivi, il 3-4-1-2 del “Male” era orientato - anzi: sbilanciato - sulla fase offensiva. Il frutto di una formazione originale, asimmetrica nella copertura dei due lati del campo e molto meno ancorata alle posizioni nella fase di possesso se rapportata ai canoni dell’epoca. Il libero era Sensini, che nel corso della carriera ha giostrato tra difesa e centrocampo, il centrale di sinistra Fabio Cannavaro, un marcatore puro, a destra giocava Thuram, centrale solo nominalmente, visto che in fase offensiva giocava da terzino aggiunto. A centrocampo un incursore del livello di Dino Baggio talvolta veniva affiancato da Fiore, che nelle stagioni successive verrà impiegato da trequartista (centrale o laterale), e Veron, fantasista a tutto campo. Ai loro lati Fuser, ala destra capace di percorrere sia tracce esterne sia interne (i tifosi della Lazio accompagnavano le sue discese palla al piede sulle note di Ufo Robot: «Ma lui chi è? Ma lui chi è? Diego Fuser! Diego Fuser! Si trasforma in un razzo missile…») e sulla sinistra uno tra Benarrivo e Vanoli, due laterali da binario. In attacco invece la meravigliosa coppia Chiesa-Crespo.

 


La formazione tipo del Parma 1998/99.


 

Riguardare giocare quel Parma lascia sensazioni contradditorie, una squadra per certi versi anacronistica - per l’estrema libertà lasciata ai singoli - e per altri moderna - per la spinta a giocare sempre ad alti ritmi e in verticale.

 

Per capirla forse vale la pena ricostruire un minimo di contesto tattico su come si giocava a calcio negli anni novanta.

 



Se nel 2018 ormai ci siamo abituati ad un calcio sempre più universale nell’interpretazione dei ruoli (inteso come trasversalità dei compiti a prescindere dalla posizione in campo) in cui anche i portieri devono saper trattare la palla e i centravanti giocare con la squadra, negli anni ’90 la lezione del calcio totale era ancora lontana dall’essere assorbita. Il gioco era, fondamentalmente, meno associativo e più specializzato.

 

La gestione della palla e la costruzione dell’azione erano riservate ai centrocampisti, mentre l’influenza di difensori e attaccanti non si spingeva oltre la definizione del ruolo: i difensori si occupavano sostanzialmente della copertura dei primi 30-40 metri, gli attaccanti della finalizzazione dell’azione. Una dimensione quindi meno collettiva, quasi strutturata per compartimenti stagni, che viveva di iniziative e duelli individuali, in cui i singoli erano più propensi a portare palla e tentare il dribbling, anche in circostanze potenzialmente rischiose.

 

Le azioni, a meno che non venissero ordinate dal regista, difficilmente erano pensate in funzione del terzo uomo o per coinvolgere più giocatori al di fuori della zona palla, e potevano culminare in conclusioni o passaggi lunghi a bassa percentuale di realizzazione. Per questo risultava meno decisiva una situazione di superiorità numerica generata nel corso di una delle due fasi. Le partite avevano le sembianze di scontri frontali, più simili a partite di rugby che non al calcio complesso a cui siamo abituati oggi.

 

Insomma, parliamo di un calcio in cui la squadra sembrava dipendere dalla somma dei valori individuali, ma in cui, in un certo senso, i giocatori erano meno dipendenti dalla squadra di quanto non lo siano oggi. In altre parole: non si era ancora sviluppata del tutto l’idea di gestione degli spazi e della gara, e talvolta era l’inerzia più o meno prolungata a determinarne l’andamento.

 

Il Parma mostrava affinità e divergenze rispetto a questo contesto. Da una parte non voleva ad esercitare nessun controllo sulla gara, dall’altra responsabilizzava i giocatori più della norma, chiedendogli una sintonia e una collaborazione superiore a quella dei tempi. Per capire quanto poco il Parma controllasse le partite basta rivedere il suo percorso in Coppa UEFA.

 

Durante la campagna europea i “crociati” si sono ritrovati per tre volte sotto nel punteggio. Nel primo turno contro il Fenerbahce (2-1 per i turchi all’andata, ko 1-3 nel return match), gli emiliani sono riusciti a segnare il gol qualificazione con Boghossian soltanto al 73’; negli ottavi, dopo l’1-1 in casa dei Glasgow Rangers, gli uomini di Malesani sono passati in svantaggio, salvo poi vincere 3-1 grazie anche all’espulsione di Porrini a fine primo tempo. Nei quarti contro il Bordeaux, dopo l’1-2 subito in Francia, il Parma è riuscito a recuperare con un clamoroso 6-0, malgrado nei primi 35 minuti abbia sofferto l’avversario. Persino durante la semifinale di ritorno con l’Atletico Madrid, in cui il Parma era partito da una posizione piuttosto comoda (3-1 in Spagna), la squadra di Malsani non ha saputo gestire il vantaggio e minimizzare i rischi, concedendo 4 occasioni nitide nei primi 20 minuti.

 

Parma era il contrario dell’idea della squadra italiana cinica e brava a gestire i punteggi e i momenti delle partite. La squadra di Malesani era incapace di interpretare un calcio conservativo e si lasciava assorbire - nel bene o nel male - dalle contingenze della gara. L’unico modo che la formazione di Malesani conosceva per imporsi sull’avversario era quello di aumentare il volume dell’intensità e attaccare. Un po’ come un’automobile che ha problemi a mantenere il regime minimo del motore ed è costretta a viaggiare su un numero di giri elevato per evitare di spegnersi.

 

Quando il Parma riusciva ad aumentare il proprio livello di intensità, attaccando con molti uomini, era una squadra molto difficile da difendere. Quando i ritmi si spegnevano, moltiplicando le situazioni statiche, mostrava invece tutta la propria vulnerabilità.

 

I numeri fotografano queste caratteristiche. Nelle prime 11 partite europee, culminate con la vittorie 3 a 0 in finale contro il Marsiglia, il Parma ha segnato 24 gol e ne ha subiti 11.

 



L’attrazione magnetica per la porta portava il Parma, come la maggioranza delle formazioni di quel periodo, a esprimere un gioco verticale, che non passava dal consolidamento del possesso, ma dalla ricerca dell’opzione più vicina all’area e più in generale dalla densità di maglie che si riversavano (anche in modo disordinato) nella metà campo avversaria, non tanto per ricercare una coralità, quanto per garantirsi una superiorità territoriale.

 

L’unico giocatore che provava a ordinare un po’ la squadra col pallone, rendendo la manovra meno caotica, era Juan Sebastian Veron. A 24 anni, nel pieno del proprio vigore atletico, riusciva a unire la tecnica e la creatività a un dinamismo senza palla che ampliava la sua influenza sul gioco della squadra, specie nell’ultimo quarto di campo. Quando i difensori non lanciavano direttamente sulle punte, permettendo alla squadra di alzare subito il baricentro, si appoggiavano su Veron. Spostandosi sui fianchi l’argentino generava un lato forte, spesso quello di destra, occupato anche da Fuser e Thuram.

 


Veron si apre sulla destra per ricevere palla e forma con Thuram e Fuser il lato forte. Contestualmente Benarrivo sale sulla sinistra.


 

Quando la

Brujita

entrava in possesso di palla, il suo obiettivo era rompere le linee con una conduzione verso il centro del campo che attirasse gli avversari su di sé e innescasse una serie di movimenti dei compagni. Queste le sue giocate in ordine di preferenza:


 

Se invece il Parma risaliva il campo centralmente, un mediano gestiva l’uscita del pallone dalla difesa e l’altro si alzava per favorire l’accentramento di Fuser. Le tracce interne dell’ex laziale, un altro di quegli elementi che erano soliti portare palla e puntare l’uomo, servivano ad aprire il campo alle sovrapposizioni di Thuram. Il francese quando veniva imbeccato sulla corsa diventava un cavallo a briglie sciolte, che travolgeva qualsiasi avversario si trovasse sulla sua strada grazie al suo strapotere atletico. Sulla trequarti era capace persino di chiamare il triangolo e dettare il passaggio di ritorno in zona centrale per arrivare alla rifinitura o alla conclusione. Il fatto che arrivasse da molto lontano pregiudicava poi la precisione sotto porta e in Italia segnerà soltanto 2 reti. Thuram era una scorciatoia preziosa per guadagnare metri, perché quando il Parma doveva uscire da situazioni bloccate, sapeva che con un cambio di gioco sulla destra poteva eludere l’avversario.

 


Qui invece Fuser si allarga mentre Thuram si sovrappone nello spazio interno (quello che gli inglesi definiscono “underlapping”).


 

L’asimmetria dei gialloblù era dovuta al fatto che il difensore centrale di sinistra, Cannavaro, non accompagnava l’azione, e l’ampiezza sulla corsia mancina era data solo dall’esterno di fascia, o eventualmente da Chiesa quando si decentrava per isolarsi col marcatore e avere più spazio per dare sfogo alla sua progressione.

 

Chiesa è una delle tante seconde punte sbocciate nella seconda metà degli anni ’90, una sorta di età dell’oro del calcio italiano per quel ruolo. Il numero 20 - rispetto ad altri pari ruolo di quegli anni - era più finalizzatore e meno rifinitore. Sapeva segnare sia dentro che fuori dall’area, con un tiro micidiale per potenza e precisione, sia col destro che col sinistro.

 

Crespo incarnava invece il prototipo del finalizzatore che viveva esclusivamente dentro l’area. In fase di possesso si limitava a sostenere l’azione con una sponda di prima, salvo poi riapparire sui traversoni, su cui faceva valere la sua tecnica acrobatica e un istinto fuori dal comune per le conclusioni di prima. L’argentino, che

nel 2013 calciatore del secolo del club gialloblù, di cui è diventato oltretutto vice presidente nello scorso novembre, è stato uno dei più grandi interpreti del tiro con il tacco. Non un semplice vezzo, ma un’arma che ne aumentava la probabilità di convertire una conclusione da sotto misura in gol, poiché gli consentiva di prendere posizione con il corpo nei confronti del difensore e indirizzare la palla sul secondo palo anche quando attaccava il primo.

 


Un marchio di fabbrica.


 



Malesani non si faceva problemi a sbilanciare il baricentro in avanti perché sapeva di poter contare su una linea difensiva autosufficiente. La difesa formata da Thuram, Sensini e Cannavaro dava il meglio di sè quando difendeva lontano dalla porta: sia perché accorciando in avanti aveva la possibilità di comprimere gli spazi e

, sia perché il Parma collettivamente aveva problemi a difendere in posizione per spaziature e attitudini, ma anche perché Sensini e Thuram non erano a proprio agio sulle palle alte.

 

A questi tre fuoriclasse si aggiungeva un Buffon all’apice della propria eccentricità. Pur non essendo sempre preciso nelle respinte, era già uno dei migliori portieri al mondo e in quella stagione si apprestava a diventare il titolare della Nazionale.

 

I tre centrali, oltre a quella brillantezza atletica che gli consentiva di assorbire la profondità, avevano un talento innato negli anticipi. Cannavaro è stato un’istituzione mondiale in questa componente del gioco, che ha innalzato a livelli irreali: merito di una sensibilità nelle letture e un’esplosività fisica eccezionali, che lo portavano ad abbandonare la posizione per provare a intervenire sulla palla pure in situazioni sconsigliate, ma da cui ne usciva comunque vincitore. Il difensore partenopeo era una molla pronta a scattare in tutte le direzioni, che sapeva intercettare i passaggi e riusciva ad anticipare l’avversario sul primo controllo con una pulizia magistrale. Lo stesso vale per Thuram, che con un anticipo poteva tramutare una transizione da difensiva a offensiva.

 

Thuram, Sensini e Cannavaro preferivano una difesa alta e aggressiva. Uscivano spesso senza temporeggiare, persino su palla scoperta, per impedire all’altra squadra di consolidare il possesso e avvicinarsi all’area.

 


Thuram esce su Benarbia, la linea difensiva è all’altezza della metà campo. Tutto normale per quel Parma.


 

Uno stile che esponeva la squadra a dei rischi, ma che garantiva più tempo e più metri per rimediare a un eventuale errore, considerato che si difendeva lontano dalla porta. Quando un difensore usciva, Malesani chiedeva ai laterali di stringersi a fianco degli altri due centrali in modo da ottenere una copertura omogenea del campo in larghezza.

 

In fase difensiva, il Parma andava a pressare l’avversario in maniera sporadica, solo quando voleva dare ritmo all’attacco ed era in una situazione favorevole. Per il resto i gialloblù provavano a contestare la costruzione bassa con i due attaccanti, che si posizionavano tra centrale e terzino per evitare che i difensori allargassero il gioco. L’obiettivo era costringerli a giocare internamente indirizzando così l’azione verso i centrali di centrocampo, su cui uscivano in pressione gli omologhi del Parma o in alternativa un centrocampista più Veron, sempre applicato alla partita anche in fase di non possesso.

 


Esempio pratico: Veron chiude la giocata esterna ad Alicarte, che si appoggerà su Diabatè. Il centrocampista del Bordeaux verrà aggredito dai due centrocampisti del Parma e perde palla.


 



Il Parma ha finito il girone d’andata a due punti dalla Lazio campione d’Inverno ed è restato in corsa per il titolo per due terzi di stagione, salvo poi mollare la presa a fine febbraio e concentrarsi sugli altri due obiettivi rimasti, la Coppa Uefa e la Coppa Italia. “Solo”

spense la delusione della proprietà per il quarto posto in Serie A, anche se non saranno sufficienti a far entrare l’allenatore veronese in sintonia con l’ambiente.

 

Già alla vigilia del primo turno di Coppa UEFA Malesani

: «Sin dal primo giorno che sono arrivato a Parma mi è stata fatta una domanda che non capivo e non capisco: se mi sentivo all'altezza di questo incarico, se non pensavo di essere inesperto, eccetera. Io credo che se uno siede su questa panchina è stato giudicato in grado di farlo, la pressione non mi dà fastidio (...). Mi arrabbio perché è il mio modo di difendermi, non ho la penna e devo fare così anche per smentire certe bugie».

 

Nonostante tutto ciò, il 1999 resterà per Malesani e per il Parma il punto più alto delle rispettive storie. Con il crac della Parmalat, il club gialloblù si salverà per il rotto della cuffia da un fallimento che invece si concretizzerà sotto la gestione Ghirardi, nel 2015. Il “Male”, che verrà esonerato da Tanzi l’8 gennaio 2001, imboccherà presto la parabola discendente, fino a sprofondare nel dimenticatoio riservato agli allenatori masticati e rigettati dal calcio. Il web costruirà su di lui un immaginario un po' squallido del web e in pochi ricordano che c’è stato un certo momento della storia in cui poteva essere considerato un tecnico all’avanguardia.

 

Quel Parma aveva moltissimi limiti ma è stato un esperimento interessante e vincente del nostro calcio. Ancora oggi rimane forse una delle squadre più originali da veder giocare.

 

 

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