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Federico Principi

L’anno della Formula Uno

Cosa ci ha raccontato il Mondiale appena concluso.

 

La Formula Uno è morta, secondo alcuni. O meglio, la si segue, ma giusto così, per devozione. E la cosa più preoccupante è che non sembra interessare ai giovani. Intrappolata nelle logiche commerciali (le stesse che minacciano Monza) e in futuristici e indecifrabili regolamenti tecnici, la massima categoria dell’automobilismo mondiale ha perso gran parte del suo ascendente presso il pubblico di massa. Che si aspetta più duelli in pista e meno dietro ai software o alle gallerie del vento.

 

Eppure chi ha avuto il coraggio di aggiornarsi, prendendosi la briga di seguire qualche—anche rudimentale—analisi tecnica, riesce ugualmente ad apprezzare il prodotto. La Formula Uno regala in realtà agli occhi dello spettatore un nuovo tipo di talento del pilota, più invisibile: la costanza, la cultura ingegneristica, l’adattamento alle soluzioni meccaniche per tirare fuori la massima velocità. L’obiettivo di una carriera, di una vita. E la stagione appena conclusa di spunti ed elementi ne ha regalati parecchi: molti di essi piuttosto rilevanti ai fini dell’approccio al 2016. Anno in cui la Ferrari punterà con decisione, dopo nove anni di astinenza, ai due titoli mondiali.

 

La Ferrari adora le gomme morbide

Se è vero che tutte le prestazioni migliori sul giro secco si ottengono con compound morbidi, in ottica passo gara, sulla lunga distanza, non è sempre così: milioni di fattori (temperatura, degrado, costanza) incidono sulla scelta di quella che deve essere la mescola maggiormente utilizzata durante la gara. “Maggiormente”, perché da regolamento vanno utilizzati entrambi i compound che vengono portati dalla Pirelli durante il weekend.

 

Una constatazione importante in questo senso l’aveva fatta il Team Principal della Ferrari, Maurizio Arrivabene, dopo la vittoria del Gran Premio di Ungheria: «Quando potremo scegliere noi le nostre gomme, probabilmente sarà più dura per tutti». Passata un po’ sottotraccia e forse un tantino sottovalutata in un panorama 2015 dominato dalla Mercedes, l’esternazione di Arrivabene ha un suo fondamento e costituisce una reale minaccia per la concorrenza a partire dal 2016.

 

Si è molto discusso sul regolamento della nuova stagione in materia di gomme. L’orientamento prevalente conduce a una revisione delle attuali norme: la Pirelli consegnerà tre compound da asciutto per ogni weekend, di cui almeno due—a scelta dei team e dei singoli piloti—da utilizzare in gara esclusi i casi di corsa bagnata: facile ipotizzare che Ferrari opterà sempre verso mescole più morbide possibili. A partire dall’ultrasoft, la vera novità della Formula Uno per il 2016, che sarà ancora più morbida dell’attuale supersoft, apparsa fin troppo poco soggetta a degrado durante la stagione 2015, e che potrebbe ulteriormente favorire Vettel e Räikkönen.

 

 

In Ungheria le Ferrari sono schizzate subito in testa alla prima curva e, a parità di gomme (soft), con Hamilton nel traffico dopo l’errore al primo giro, hanno imposto un ritmo insostenibile per la Mercedes di Rosberg, distante di oltre 9 secondi (foto sopra). Lo stesso Rosberg che invece non si scollava dall’alettone posteriore di Vettel (foto sotto) dopo la Safety Car, a parità di gomme (medie) e nonostante la minaccia di un Ricciardo che montava invece le soft.

 

Il perché è presto spiegato: la SF15-T, la prima dell’era Vettel, è contemporaneamente la prima creatura plasmata, anche se non interamente, dal noto progettista inglese James Allison a Maranello, famoso per le Lotus del 2012 e del 2013, quelle del ritorno di Räikkönen in Formula Uno, che poco sforzo richiedevano ai propri pneumatici, riuscendo quasi sempre a compiere un pit stop in meno, soprattutto nei confronti di Red Bull e Mercedes e in particolar modo nella prima metà del 2013.

 

Il telaio di “Eva” (il soprannome dato da Vettel alla sua prima Rossa) è poco aggressivo sulle coperture: le conserva più a lungo delle rivali, favorito anche da due piloti con uno stile di guida piuttosto pulito, ma al tempo stesso fa fatica a mandarle in temperatura. Le gomme soft sono però molto più facili da scaldare rispetto alle medie e soprattutto alle hard: emblematico, in questo senso, il disastroso stint con le hard in Spagna.

 

Vettel in Spagna non riesce a portare in temperatura le hard, a differenza delle Mercedes. A parità di mescola, questo è il gigantesco gap di passo gara.

 

La Ferrari adora il caldo

Obiezione importante al paragrafo precedente: la Ferrari ha vinto tre Gran Premi (Malesia, Ungheria e Singapore, in ordine cronologico). Il più agevole dei tre si è rivelato il primo e non certo per problemi di affidabilità altrui: spulciando con attenzione i dati salta però all’occhio il fatto che a Sepang fosse proprio previsto l’utilizzo di quella gomma hard arancione che tanto ha fatto soffrire la Ferrari specialmente a Barcellona e Silverstone. Per quale motivo Vettel ha invece compiuto una piacevole e indisturbata passeggiata verso la vittoria?

 

Il caldo torrido malese, mai ripetutosi in stagione con quella intensità, ha fatto emergere elementi confortanti per la Ferrari sulla diretta rivale. Nonostante la presenza degli pneumatici hard (utilizzati comunque da Vettel solo per la parte finale di gara), la temperatura tropicale dell’asfalto ha magicamente risolto i problemi che per natura il telaio di Allison crea nel riscaldamento delle gomme. Smascherando invece la Mercedes che, con un telaio che crea molto carico aerodinamico e calore (anche sui freni), ha invece avuto il problema opposto: il surriscaldamento. Lo stesso che sembrerebbe averla frenata a Singapore (guarda caso vittoria di Vettel), dove le pressioni più elevate degli pneumatici, imposte dopo le polemiche sullo scoppio occorso a Seb in Belgio, hanno peggiorato la situazione della Mercedes, preoccupata già di suo della temperatura ambientale, nonostante l’oscurità.

 

La pole mancava da oltre tre anni alla Ferrari e a Singapore le Mercedes erano lentissime in qualifica (un secondo e mezzo da Vettel), ma anche in gara. Un unicum della stagione—nella quale le frecce d’argento sono sempre state le più veloci—creato dal caldo asiatico e dalle nuove pressioni elevate che hanno surriscaldato gli pneumatici di Hamilton e Rosberg anche sul giro secco.

 

Gomme 2015: troppo dure, poco degrado

Il cerchio si chiude con la constatazione che la Pirelli si sia eccessivamente cautelata nella costruzione degli pneumatici 2015. Preoccupata per le evoluzioni dei motori turbo-elettrici che, dopo un anno di apprendistato (tranne il Mercedes, che già nel 2014 faceva la differenza), avrebbero aumentato la coppia motrice nella loro seconda stagione dopo la rivoluzione tecnica prevista dai regolamenti. Sforzando in misura maggiore le gomme, specie quelle posteriori a cui la trazione si trasmette direttamente.

 

La sensazione che resta, tuttavia, è quella che in poco tempo si sia passati da un estremo all’altro. A inizio 2013 (e ne facevamo riferimento sopra parlando di Allison e della sua Lotus) Pirelli aveva decisamente ammorbidito tutti i compound, portando addirittura la hard 2013 sullo stesso livello della media 2012. Pneumatici in ogni caso abbandonati a metà stagione dopo i ripetuti problemi di delaminazioni, ma che avevano costretto alcuni team perfino alle quattro soste a Barcellona, premiando sul podio quelle vetture (Ferrari e Lotus) che soffrivano molto meno delle altre quanto a degrado. Fenomeno già verificatosi nella gara di apertura dove, nonostante la convincente pole della Red Bull di Vettel, il tedesco soffrì di degrado in gara e concluse, anche lì, alle spalle di Räikkönen e Alonso.

 

Progettate per aumentare il consumo del battistrada e rendere così più vivace l’attività ai box durante la gara, le coperture Pirelli 2013 hanno trovato la propria nemesi in quelle di due stagioni più tardi. Nonostante l’utilizzo della supersoft, più facilmente degradabile, in ben quattro gare si è assistito a strategie con un’unica sosta con il compound più morbido possibile. E non solo in tracciati storicamente poco severi con i battistrada come Montecarlo o Sochi. Chi ne ha pagato le spese maggiori è stata proprio la Ferrari.

 

Ricciardo non è ancora un top driver

Quando Mark Webber annunciò la fine della propria carriera in Formula Uno, al termine della stagione 2013, fu scelto Daniel Ricciardo come suo successore in Red Bull. La decisione non sorprese più di tanto, essendo anche lui sotto l’ala protettiva di Helmut Marko, che tanta fretta ha di lanciare, ma anche di cestinare giovani promesse da lui ingaggiate nello stesso Red Bull Junior Team del quale fanno parte il passato e il presente della casa madre (Vettel, Kvyat) e, forse, il futuro (Verstappen e Sainz, o Gasly della GP2).

 

Ricciardo aveva mostrato buoni risultati quando fu chiamato in Toro Rosso, una sorta di team satellite della stessa Red Bull dal 2006. C’è una costante nel confronto con il compagno di squadra delle stagioni 2012 e 2013, quell’ultrasottovalutato Vergne, cacciato con poca decenza dallo stesso Marko: Ricciardo ha mostrato di essere costantemente più veloce del francese in qualifica, andando a cogliere numerosi piazzamenti in Q3 culminati con il quinto posto di Silverstone 2013. Anche se poi i risultati in gara sono stati piuttosto equilibrati nel raffronto: ma con un compagno come Vergne, non è poi così male.

 

C’era tuttavia da giurare che la condivisione del box con il pluricoccolato Sebastian Vettel avrebbe potuto creare qualche difficoltà nell’autostima di Ricciardo che molti, ingiustamente, ritenevano inadatto a un top team. Già dopo una manciata di gare, e ancor di più dopo tre vittorie (unico non Mercedes in stagione), il carro dell’australiano era pieno anche di tutti quelli che ne avevano predetto un futuro da semplice spalla del grande campione. Vettel è invece andato in crisi tecnica: mutilato dei freni tradizionali posteriori (dei quali era il più grande interprete) a vantaggio del nuovo break by wire, messo in crisi per le nuove restrittive regole sul consumo dal suo stile di guida naturale, con il quale tiene la farfalla del gas leggermente aperta anche in staccata aumentando le sue emissioni di benzina.

 

 

Cina 2014: Vettel è in difficoltà con i consumi. Non solo nei confronti di una vettura nettamente più efficiente anche in quello specifico parametro (la Mercedes, foto sopra), ma anche al cospetto del compagno di squadra (foto sotto) che è più veloce di lui e lo sorpasserà, scappando via.

 

Lo stravolgimento delle regole tecniche all’alba del 2014 aveva obbligato tutti i piloti a resettare ogni dato accumulato in anni di esperienza. Vettel era fin troppo abituato a una vettura perfettamente bilanciata—che difettava solo in velocità di punta—anche e soprattutto per via delle geniali trovate (su tutte, gli scarichi soffianti) del titolato progettista Adrian Newey. Lo sforzo che ha dovuto compiere per riadattarsi a una realtà difficile da mettere a punto è stato sicuramente maggiore rispetto a Ricciardo, proveniente da una monoposto più problematica e quindi già soggetto a meticolose preparazioni di set up per portarla al limite, cercando il migliore risultato possibile.

 

Ricciardo a Monza 2014 compie una rimonta formidabile portandosi alle spalle di Vettel. L’australiano tira fuori dal cilindro la propria specialità: il sorpasso con finta. Alla staccata della Roggia approfitta del fatto che Vettel stia già frenando e quindi smetta di guardare negli specchietti, cambiando improvvisamente direzione e fulminandolo.

 

Il problema di Ricciardo nel 2015 è però sembrato simile a quello avuto da Vettel nei suoi confronti nella stagione precedente, con particolare accento sulla condizione psicologica. L’underdog del team è infatti diventato il suo nuovo compagno Kvyat, con tutte le facilitazioni che ne comporta: meno pressioni, nulla da perdere nei confronti di un diretto avversario che può solo confermarsi. E nonostante una classifica che premia teoricamente il russo, pur con qualche problema tecnico di troppo per Ricciardo, e nonostante Ricciardo stesso abbia in realtà avuto anche in questa stagione concrete opportunità di vincere almeno un Gran Premio, il suo rendimento non si è in ogni caso allineato agli standard richiesti a un caposquadra.

 

Verstappen e Pérez: talenti in riga

Accomunare due piloti che all’anagrafe registrano sette anni di differenza rischia di essere fraintendibile e pericoloso. Eppure le parabole delle carriere di due talenti puri come il figlio d’arte olandese e l’esuberante messicano sembrano allo stesso punto, al vertice alto della maturazione, nonostante tutto.

 

Per Verstappen, che finora ha avuto una carriera precoce, sarà fondamentale dare continuità alle prestazioni che sta sfoderando dall’estate in poi. Ma quello visto in pista nella seconda metà di stagione è un pilota che 18 anni li mostra esclusivamente sulla carta d’identità. Verstappen sta instradando il suo talento verso la giusta via. Che più o meno è questa:

 

 

O magari questa:

 

 

E non è invece un’esagerazione sostenere che il teenager sia già uno dei migliori (il migliore?) staccatori al mondo. Del suo talento in frenata ha fatto le spese lui stesso, a Montecarlo, quando con le supersoft nuove andò letteralmente addosso a Grosjean, che con soft consumate (e forse una dose minore di incoscienza e di abilità in frenata) possedeva uno spazio di capacità di arresto sicuramente più ampio. «Ho un po’ modificato il mio limite dopo Monaco» disse Max, ma con quella faccetta irriverente e spocchiosa non gli credette nessuno. Da lì in poi, invece, solo gare e sorpassi capolavoro. E una nuova intelligenza, che gli ha ad esempio suggerito di non battagliare con Vettel ad Austin lasciandogli intatti gomme e gap sugli inseguitori, sufficienti per un altro quarto posto stagionale.

 

Montecarlo: Verstappen disse che il riferimento della sua frenata era corretto. Ma esistono anche gli avversari.

 

Prima della stagione 2015 Sergio Pérez era invece noto principalmente per due motivi: perché insieme a Maldonado era l’imperatore degli autoscontri e per il fatto che alla prima chance con un top team—McLaren nel 2013—venne immediatamente licenziato al termine della stagione. Come vere e proprie etichette incollate sul suo biglietto da visita erano rimaste le manovre oltre il limite, specialmente a Montecarlo nel 2013 o quando, in Canada nel 2014, tamponò Massa cambiando drasticamente direzione in fase di frenata provocando una spaventosa collisione.

 

Concetto rimarcato anche dai telecronisti spagnoli.

 

Pérez era stato in realtà reso celebre da quella possibile vittoria—che aveva in tasca e nelle proprie corde—in Malesia nel 2012, sfumata per un errore a pochi giri dalla fine. La migliore stagione della carriera con tre podi—di cui due secondi posti—con una Sauber che non era di certo una vettura di vertice. Quel sapore del podio che ritroverà con la Force India in Bahrain nel 2014 e nell’ultima edizione del Gran Premio di Sochi, dopo un secondo stint da gara endurance. Nonostante la maggiore visibilità di un compagno di squadra come Hülkenberg, campione di Le Mans e più volte accostato alle lenti d’ingrandimento di top team, i migliori risultati per la macchina di Vijay Mallya li ha in realtà portati in dote il messicano. E con essi la supremazia interna nel Mondiale piloti, sancita prevalentemente nella seconda metà della stagione: da quel pomeriggio canadese di un anno e mezzo fa, Pérez non ha sbagliato più nulla. E non è più solo la vetrina del magnate Carlos Slim, ma un vero e proprio pilota di spicco.

 

Questione di pacchetti

A metà degli anni Duemila si era insediata in Formula Uno una colonia di costruttori integrali, che producevano l’intero pacchetto vettura sotto la stessa sede. A quei tempi Mercedes si limitava alla fornitura dei potenti motori per la McLaren, ma oltre a Ferrari c’erano anche Renault, Honda, BMW (che aveva di fatto rilevato il team Sauber) e quella Toyota che, pur stanziando veri e propri salassi alla ricerca della competitività, si ritirò a fine 2009 con tredici podi in otto stagioni, mai oltre il quarto posto nel Mondiale costruttori. Nonostante, insieme a Brawn GP e Williams, fosse l’unica a montare il famigerato diffusore (forse irregolare) a inizio 2009.

 

L’epoca delle power unit ibride avrebbe enormemente facilitato la vita ai tutti questi team che progettavano il materiale sotto un unico tetto. Il regolamento complesso dei nuovi motori ibridi ha enormemente aumentato l’incidenza del propulsore come fattore decisivo per stabilire le gerarchie nella competizione. Non è infatti un caso che il presente e il futuro del vertice della Formula Uno si chiamino Mercedes e Ferrari, unici rimasti a produrre telaio e motore contemporaneamente. E desta grande curiosità l’ormai certa acquisizione dell’indebitato team Lotus da parte della Renault, che fornirà a Palmer e Maldonado una monoposto che, come le due di vertice, fabbricherà l’intero materiale sotto un unico marchio.

 

La tanto odiata e invidiata Red Bull è stata scacciata nel purgatorio, dopo un interminabile periodo (quattro anni) in cui ha fatto ingoiare bile alla concorrenza. I problemi alla power unit Renault, tanto di potenza e prestazioni quanto di affidabilità, hanno mutilato la competitività di un pacchetto aerodinamico firmato Newey, che—nonostante l’assenza di vittorie nel 2015—è sembrato di per sé estremamente competitivo. Sia nei circuiti lenti e guidati (Montecarlo, Ungheria, Singapore), sia sotto la pioggia (prove libere Suzuka, weekend Austin) la RB11, con la sua eccezionale guidabilità, era una costante minaccia al duopolio Mercedes-Ferrari. Da qui nasce la necessità, per il 2016, di una power unit efficiente per correre alla pari con i top team: a Maranello e a Stoccarda, però, non ne hanno voluto sapere.

 

 

Ad Austin, nella prima parte di gara, l’asfalto è bagnato. Le Red Bull sono fin da subito vicinissime alle Mercedes, per poi scappare incredibilmente via (con Ricciardo) qualche giro prima del passaggio alle gomme da asciutto.

 

Lewis Hamilton e Honda: il campione e il flop

Lewis Hamilton ha spaccato le opinioni dei tifosi, ma non quelle degli intenditori: pazienza se disponeva di una monoposto superiore rispetto a chi, come Vettel o Alonso, viene accostato all’inglese quanto a talento e completezza di guida. Il tamarro di Stevenage, ormai trentenne, ha distrutto il compagno di squadra Rosberg e ha evidenziato una continuità probabilmente inedita nella sua carriera.

 

 

Hamilton aveva mostrato per tutto il 2014 di essere superiore a Nico in materia di passo gara, ma la maggiore velocità in qualifica del finnico-tedesco e qualche sventura meccanica gli avevano fatto sudare il titolo mondiale fino all’ultima gara. Nel 2015 Lewis è partito immediatamente a razzo e fino al Gran Premio di Singapore il testa a testa in qualifica—quello intestino nel box Mercedes—gli era clamorosamente favorevole per dodici a uno. Impossibile per Rosberg lottare per il Mondiale, nel momento in cui viene meno quella che doveva rappresentare l’unica certezza favorevole.

 

Quella di Spa, a detta di Hamilton, è una delle migliori pole della sua carriera. Eau Rouge in pieno a oltre trecento all’ora, tra l’altro.

 

Almeno Rosberg pare essersi svegliato nel finale di stagione. O magari si è addormentato Hamilton, che recentemente ha lamentato difficoltà a guidare con le nuove sospensioni montate nell’ultima parte di stagione. Ma coloro che erano attesi come la vera novità dell’anno, ovvero gli uomini Honda di ritorno in Formula Uno, si sono trasformati in una delle più brucianti delusioni dell’intera storia dell’automobilismo.

 

C’è da fare una doverosa premessa: in realtà non è completamente vero, grossolanamente parlando, che i giapponesi non siano stati capaci di costruire una power unit adeguata. I più informati sostengono infatti che la parte termica del propulsore (quella “classica” alimentata a benzina, per intenderci) si attesti su livelli di potenza vicini—qualcuno azzarda perfino superiori—al PU106B Mercedes, che ormai tutti elevano allo status di riferimento. Il vero problema di Honda sarebbe invece l’incapacità della power unit di recuperare energia elettrica e trasformarla in potenza, mancando di tutti quei cavalli che la hanno costretta a subire umilianti sorpassi nel corso dell’intera stagione.

 

Perfino nei videogame qualcuno ha pensato di creare una parodia del famoso team radio di Alonso a Suzuka, che accusava Honda di fornirgli un “motore da GP2”.

 

L’autostima dei tecnici Honda, decisi a realizzare l’intero progetto senza alcun aiuto da strutture o fornitori esterni, non è stata sufficiente. Sono arrivati risultati principalmente in tracciati tortuosi (Montecarlo o Budapest) o in condizioni bagnate (Silverstone e Austin), in scenari dove il telaio prodotto dal team McLaren ha in ogni caso mostrato una buona competitività e dove senza dubbio l’incidenza del motore sui risultati era ridimensionata.

 

Saranno attesi inevitabili miglioramenti (peggiorare è impossibile) per il 2016. Ad Austin, Alonso aveva portato in pista gli aggiornamenti della power unit che avrebbero costituito la struttura portante del propulsore del prossimo anno, e Button si diceva impaziente di essere asfaltato dal compagno di squadra, bramando miglioramenti tecnici. E chissà se saranno sufficienti a fungere da Maalox per i continui mal di pancia di Fernando.

 
 

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Federico Principi nasce nel 1992 e si ammala di sport. È telecronista della Serie C su Eleven Sports Italia. Ha scritto "Formula 1 2016: The review", un libro completo sulla stagione 2016 di Formula 1.