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Daniele Manusia

È dura vedere Tony Ferguson così

È giusto che il fighter di origine messicana continui a combattere?

Ai pugili non è mai piaciuto tirarsi indietro. Non c’è un numero di pugni in grado di spingere una persona testarda a smetterla di combattere. Si diceva che Joe Frazier avesse combattuto con un occhio solo tutta la sua carriera, lo ha scritto lui nella sua autobiografia ed è difficile credergli, ma di sicuro non ci vedeva più dal sinistro nella tredicesima ripresa combattuta contro Muhammad Ali, nel loro terzo incontro tenutosi a Manila nel 1975. Eppure ha combattuto quel round – tirandosi indietro con la testa e girando leggermente la testa verso sinistra per poter vedere con l’occhio destro, rendendo la propria testa un bersaglio ancora più semplice per Ali – e quello successivo. Quando il suo allenatore, Eddie Futch (che aveva visto morire quattro pugili sul ring), gli ha messo una mano sulla spalla impedendogli di alzarsi prima del quindicesimo e ultimo round, Frazier ha provato a ribellarsi: «Non puoi farmi questo». 

 

Quando Joe Gould disse a Jim Braddock di voler interrompere l’incontro con Joe Louis (1934) dopo la sesta ripresa, il pugile rispose: «Se lo fai, non ti parlerò mai più per il resto della mia vita». Braddock tornò sul ring per altre due riprese, finché Joe Louis lo mandò di faccia al tappeto, dove il suo sangue, secondo i cronisti, formava «piccole pozze di sangue». Sempre andando contro i consigli di Gould, Braddock ha voluto combattere un altro incontro, prima di ammettere che per lui fosse finita. Mentre Joe Frazier è tornato combattere appena tre mesi e mezzo dopo quella notte a Manila – in cui Ali ha detto di aver vissuto un’esperienza «vicina alla morte» – finendo di nuovo al tappeto contro George Foreman e decidendo solo poi di ritirarsi (tornando sui suoi passi cinque anni dopo, per un ultimissimo incontro). Per non parlare dello stesso Ali, salito sul ring con le mani che già tremavano per il Parkinson e le parole che gli restavano incastrate in gola. 

 

Non c’è sconfitta abbastanza eloquente da spingere un combattente a ritirarsi. Non c’è colpo abbastanza duro da mandarti in un posto da cui torni più saggio di prima. Paradossalmente, superato un certo limite sembra volerci più coraggio per fermarsi che per andare avanti. Col tempo, alla fine, si convincono tutti che è più ragionevole passare oltre, ma l’impressione è che per i veri combattenti sia una consapevolezza dura da acquisire, costosa, e che arrivi sempre con un po’ di ritardo. Costringendo gli spettatori a vedere qualcosa che non avrebbero voluto. Il loro eroe faccia a terra come un bambino che si è addormentato mentre giocava con le costruzioni, solo con la faccia in pozze di sangue. Il loro pugile, o fighter preferito, con la faccia deformata oltre il limite del riconoscibile, ridotto a meme.

 

Foto di Louis Grasse/PxImages/Icon Sportswire via Getty Images

 

In sport che richiedono per la loro stessa natura di andare contro le regole più basilari dell’autoconservazione e dello spirito di sopravvivenza sembra una richiesta impossibile. E in casi come quello di Tony Ferguson sembra ancora più difficile capire quando è il momento migliore di ritirarsi. Anche se ormai sono almeno due anni che ce lo chiediamo. Khabib Nurmagomedov, il suo eterno non-rivale, con cui avrebbe dovuto combattere in quattro occasioni diverse, dopo i cinque round devastanti con Justin Gaethje aveva dichiarato la fine di Ferguson: «Perché quando subisci così tanti danni, non sei più lo stesso di prima». Aveva fatto presto, Tony, a trasformarsi in uno dei suoi avversari: prima di quell’incontro girava un collage con i volti insanguinati dei fighter che aveva sconfitto – Edson Barbosa, Donald Cerrone, Anthony Pettis – ma dopo aver affrontato Justin Gaethje era la sua faccia a sembrare uscita da un film di Tarantino.

 

Khabib ci aveva visto lungo, aveva predetto quello che sarebbe successo? Impossibile dirlo anche dopo altre tre sconfitte in due anni, una più tremenda dell’altra. Di sicuro è crudele il fatto che nel frattempo Khabib abbia potuto ritirarsi da imbattuto, ancora in splendida forma, mentre Ferguson, il fighter che più di tutti gli altri rimarrà nella nostra memoria come quello che avrebbe potuto mettere in discussione il suo strapotere (adesso si comincia a dirlo di Oliveira, ma è come se fossero in due epoche diverse), da quando è saltato il loro quarto appuntamento – a causa della pandemia – non ha fatto altro che perdere. E adesso, da una parte, piacerebbe a tutti vedere Khabib tornare a combattere, mentre dall’altra sta diventando difficile veder Tony combattere.

 

Ferguson è passato di colpo, in un battito d’occhi, da essere il principale rivale di uno dei migliori fighter di sempre, all’essere un veterano verso cui provare apprensione, sperare che non si faccia troppo male prima di capire che i suoi giorni migliori ce li ha dietro alle spalle. Riguardo Khabib, ci si chiedeva se magari Ferguson – con i suoi gomiti taglienti, le capriole e tutto il resto – avrebbe avuto la creatività e la pericolosità necessaria, a terra, per resistere alla sua opera di lenta demolizione. Ma già quando Ferguson ha affrontato Kevin Lee – un wrestler di livello ma non certo al livello di Khabib, con cui Tony ha vinto ma è andato molto vicino a perdere – si era capito che i casi erano due: o avevamo sopravvalutato le sue capacità, o qualcosa in Tony Ferguson era cambiato. L’aveva sfangata in quel caso, come si dice, ma poi – tre anni dopo, con in mezzo il martellamento di Gaethje interrotto dall’arbitro a un minuto dalla fine, con Ferguson che probabilmente sarebbe rimasto indietro a farsi ripassare la faccia come pasta per la pizza per un giorno intero – è arrivato Charles Oliveira che a terra lo ha fatto finire in una leva al braccio che glielo ha quasi spezzato. E ancora, sei mesi dopo, contro Beniel Dariush, che lo ha portato a terra in tutte e tre le riprese dominandolo senza possibilità di appello, Ferguson è finito in una presa alla caviglia che gli ha fatto uscire il ginocchio – solo una distorsione ha detto Ferguson dopo, nessuna rottura dei legamenti: resta comunque un’altra immagine difficile da guardare

 

Infine, è arrivato il calcio in faccia di Michael Chandler, il KO più «vicious» che Dana White abbia mai visto, probabilmente il KO dell’anno. «Hai calciato la sua testa come se fosse stata un pallone, è stato straordinario», ha detto un intervistatore a Chandler dopo l’incontro. «Straordinario… penso si possa definire straordinario. Personalmente lo trovo un po’ spaventoso», ha risposto Chandler, prima di congratularsi con Ferguson e augurargli una pronta guarigione. Perché tutti, oggi, vogliono bene a Tony Ferguson. Si pensava che una sconfitta potesse significare la sua fine, almeno in UFC, anche per via delle interviste precedenti in cui aveva definito Dana White uno spacciatore, per come tiene in pugno i suoi fighter impedendogli di fare qualsiasi altro sport per guadagnarsi da vivere. Eppure proprio Dana White ha sottolineato come prima di prendere un calcio in faccia Ferguson stesse facendo bene. Un calcio in faccia può capitare a tutti, è quello che ci si dice in casi del genere. Tony non è andato KO – per la prima volta in carriera – per un colpo banale. Anzi, non esiste fighter capace di rimanere in piedi dopo un colpo del genere.

 

Si potrebbe persino discutere se Ferguson abbia vinto il primo round, nonostante Chandler lo abbia portato e tenuto a terra per due minuti e mezzo. Era sembrato nuovamente brillante, con i gomiti sciabolanti per intercettare la testa di Chandler se avesse provato a placcarlo, e le sue combinazioni di diretto e gancio che entravano a tempo. Ha mandato giù Chandler dopo i primi scambi e lo ha costretto a prendersi una pausa girando in tondo, respirando a fondo per ossigenare il cervello che gli aveva momentaneamente annebbiato. Quando si combatte al ritmo di Tony Ferguson si può leggere la sorpresa negli occhi dei suoi avversari, deve essere la stessa sorpresa che hanno provato il primo giorno in cui hanno combattuto. Partito largamente sfavorito, anche per i bookmakers, Ferguson aveva cominciato la seconda ripresa con un sinistro sorriso in faccia, un sorriso che ricordava quello sadico dei vecchi tempi. Come se provasse piacere nel bagnarsi col sangue altrui – e magari lo prova davvero. Poi però è successo quel che è successo. 

 

E di nuovo siamo qui a chiederci se Tony Ferguson ha davvero qualche bel ricordo da aggiungere a quelli passati – a quei sette anni senza sconfitta, 12 incontri consecutivi in cui sembrava davvero uscito da un’armadio di notte, con delle lame sulle braccia per trasformare il ring in un lenzuolo insanguinato, più che El Cucuy, il Freddy Krueger della UFC.

 

Forse la cosa più triste è l’incapacità di Ferguson di far sparire Khabib dai propri pensieri. Ne aveva già parlato prima dell’incontro con Dariush, tanto che Dariush ha dovuto ricordargli che avrebbe dovuto affrontare lui, non Khabib. Ma ne ha parlato ancora pochi giorni fa, quando Daniel Cormier – amico e compagno di palestra di Khabib in America – lo ha intervistato. Un’intervista a tratti surreale, con Ferguson seduto come un cowboy su una sedia girata, con gli occhiali neri e l’aria di uno psicopatico che sta facendo il provino per il Grande Fratello. «Come farai ad essere concentrato su quello che hai davanti se non lasci andare il passato?», gli ha chiesto in sostanza Cormier. «Khabib è una troia, Michael Chandler ora tocca a te», ha risposto Tony guardando direttamente in camera. Nurmagomedov, rispondendo al video che Cormier ha postato su Instagram, gli ha risposto con la superiorità antipatica che sarebbe brutto avere anche con chi ti vuole lavare il vetro già pulito al semaforo: «Lasciami stare e concentrati su te stesso, stupido».

 

Foto di Jeff Bottari/Zuffa LLC

 

È drammatico, umanamente parlando, quello che è successo a Tony Ferguson in questi anni. Era sembrato un tipo strano e paranoico fin da quando ha partecipato a The Ultimate Fighter, nel 2010, il reality che ha vinto e che lo ha lanciato in UFC, in cui però è riuscito a inimicarsi tutti gli altri fighter che partecipavano al programma – in una sola notte in cui dopo aver bevuto troppo ha litigato con un compagno tirando in ballo il figlio che non poteva vedere per ragioni legali. A quei tempi era un ragazzo solitario, silenzioso, difficile da interpretare, «cresciuto con molta rabbia dentro», come ha detto lui, di quelli che è meglio non far incazzare. Si vestiva con giacca, gilet e cravatta, diceva di essere stato preso in giro quando si è trasferito in Michigan senza il padre, perché era il piccolo messicano (di origine) con le orecchie grosse, e di aver trovato una via di uscita negli sport. Ha messo KO un compagno di reality con un colpo di tallone, da terra, poi in finale ha rotto la mascella al suo avversario. 

 

Un tipo strano, non necessariamente in senso negativo, originale, che si allenava prendendo a calci i pali o roteando martelli giganti in equilibrio in piedi su una palla da yoga. Dotato di un atletismo sovraumano e di un’artisticità, nell’ottagono, da ballerino. Diceva di non fare sparring per non limitare la propria istintività nel combattimento, ma forse era semplicemente un combattente troppo pericoloso con cui fare sparring: chi vuole prendere gomitate girate un mercoledì pomeriggio qualsiasi? Poi è diventato preoccupante, quando a inizio 2019 ha portato moglie e figlio via da casa, di notte, temendo che stesse arrivando un’alluvione. Ha tagliato alcuni fili e staccato l’elettricità al frigo e al ventilatore pensando di essere spiato, ha rotto i muri e il caminetto pensando ci fosse una botola nascosta. Così come pensava che durante l’operazione al ginocchio di un anno prima gli avessero inserito un chip. Quando hanno provato a portarlo in un istituto psichiatrico è saltato giù dalla macchina, in mezzo al traffico, ed è sparito. Poi però si è ripreso, ha ricominciato a funzionare almeno abbastanza da tornare a combattere, anche se oggi persino la sua resistenza al dolore sembra in qualche modo patologica. 

 

Ed eccoci così di fronte al solito bivio. Una parte di noi vorrebbe mantenere il ricordo, vedere Tony Ferguson passare davvero oltre – oltre Khabib soprattutto – ma un’altra parte di noi ha bisogno di vedere di nuovo Tony Ferguson vincere un incontro un minimo importante. Se avesse battuto Chandler sarebbe tornato nella top 5 di categoria e ancora adesso probabilmente resterà nei primi 10. Perché privarlo di un’altra possibilità, in fondo? Non sta a noi deciderlo, ovviamente, così come non starà solamente all’UFC. Starà soprattutto a lui, e Tony Ferguson sembra aver già deciso, per niente traumatizzato dall’incontro tra la sua faccia e il piede di Chandler. A quanto pare certo cose sono più difficili da guardare che da vivere sulla propria pelle. 

 

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Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020) e "Zlatan Ibrahimovic, una cosa irripetibile" (66th & 2nd, 2021).