Western Conference
Houston Rockets-Minnesota Timberwolves
di Dario Vismara
1) L’attacco di isolamenti e pick and roll ossessivi di Houston può avere successo anche nei playoff oppure riemergeranno i limiti mentali della squadra?
Che gli Houston Rockets potessero vincere una valanga di partite in regular season non è esattamente una sorpresa: il sistema di Mike D’Antoni in passato ha reso guardabili persino Chris Duhon e lanciato la carriera dello sconosciuto Jeremy Lin, figuriamoci quali possono essere i risultati con James Harden e Chris Paul a dividersi il volante della squadra. Una volta capito che i Rockets avrebbero veleggiato verso il miglior record della NBA, però, il focus si è concentrato su altro, andando a tirare fuori tutti gli scheletri dagli armadi delle due stelle, che nei prossimi mesi avranno molto da dimostrare sulla loro consistenza nei playoff.
La vera differenza rispetto al passato e alle precedenti versioni delle squadre di D’Antoni è quanto i Rockets riescano a essere incisivi anche nella propria metà campo. Avere il sesto miglior rating difensivo della lega è un risultato assurdo per una squadra con quell’attacco, soprattutto perché è stato basato su una qualità che si fa sempre più importante con l’avanzare della stagione, ovverosia la capacità di cambiare su tutti i blocchi.
Più ancora di quanto riusciranno a fare in attacco o di quanti ostacoli mentali dovranno superare, sapere quanta fisicità mettere sui cambi difensivi, quando aiutare e quando rimanere sui tiratori, come costringere gli attacchi ai peggiori tiri possibili senza concedere mismatch sono qualità importantissime in post-season, dove il gioco si trasforma in una pallacanestro di cambi: conta quanto li sai fare bene in difesa e quanto li sai attaccare bene in attacco.
I Rockets, però, possono contare su due dei migliori giocatori in isolamento di tutta la lega e questo è un vantaggio incalcolabile rispetto al resto della concorrenza: con l’avanzare dei playoff le difese si fanno sempre più sofisticate e sempre più brave a toglierti quello che sai fare bene, costringendoti spesso a “instupidire” il tuo attacco per non finire in un vicolo cieco e mettere punti a tabellone. Gli Houston Rockets però non hanno di questi problemi perché il loro attacco è già “stupido”, ovverosia basato su soluzioni tanto semplici (pick and roll centrali e isolamenti) quanto ad altissima efficienza (uno contro uno, roll a canestro del lungo e tiratori appostati sul perimetro) nel momento in cui sono gestite da giocatori di quel calibro. Una logica quasi binaria, ma che nei playoff funziona quasi più di un sofisticato movimento di palla giocato da squadre di talento inferiore: pensate a quanta strada hanno fatto i Cleveland Cavaliers negli ultimi anni affidandosi al talento individuale di LeBron James e Kyrie Irving circondati di tiratori.
Basterà per arrivare fino in fondo e battere anche i Golden State Warriors? È quello che vogliamo scoprire, anche perché questa squadra ha ancora bisogno di essere “testata” in situazioni mentalmente difficili, e il ricordo di James Harden che molla completamente in Gara-6 contro i San Antonio Spurs privi di Kawhi Leonard è ancora fin troppo fresco nelle memorie di tutti. Ma sarà una delle storie più interessanti di tutti i playoff, e in un modo o nell’altro finirà per definire non solo questa stagione, ma – volenti o nolenti – anche come ricorderemo due giocatori generazionali come Harden e Paul.
Golden State Warriors-San Antonio Spurs
di Dario Ronzulli
2) Fino a dove può ragionevolmente arrivare Golden State senza Steph Curry?
Partiamo dai numeri: con Curry in campo gli Warriors hanno un irreale 120.4 di rating offensivo e 105.7 di difensivo, e il Net Rating a +14.7 è il migliore tra i giocatori di Golden State e tra quelli di rotazione dell’intera lega. Quando invece Steph si siede in panchina o comunque non è in campo, c’è un crollo verticale in attacco – 106.1 di offensive rating e una percentuale reale dal campo che passa dal 61% al 53.9% – con la difesa che migliora seppur di poco, 103.1.
Anche i numeri quindi certificano la sensazione comune, ovvero che l’attacco degli Warriors con Curry sia una cosa e senza Curry sia tutt’altra. È ovvio che sia così: la sua velocità di esecuzione e il range di tiro rendono impossibile per le difese fare delle scelte che escludano la marcatura del numero 30. Senza di lui, Golden State ha un attacco più “prevedibile”, pur rimanendo comunque di alto livello.
C’è un’altra statistica da tenere a mente. I primi due migliori tiratori dell’NBA in situazioni di clutch per percentuale reale sono Kevin Durant (64.1%) e Steph Curry (60.2%). Significa che quando la situazione è in equilibrio – e in post-season capita spesso – Golden State ha due assi terrificanti da poter mettere sul tavolo: altro motivo per cui difendere contro questi due al loro meglio, e specialmente quando vengono coinvolti direttamente nei pick and roll, è un’impresa per chiunque. Gli Warriors restano una squadra d’élite anche senza Curry ma per arrivare a giocarsi il titolo per il quarto anno di fila non possono pensare di percorrere tutta la strada rinunciando al papà di Riley.
Per rispondere alla domanda iniziale, ipotizziamo che il recupero dalla distorsione al ginocchio sia più lento di quanto si augurano nella Baia e di quanto dichiarò Steve Kerr (“Curry non potrà giocare il primo turno playoff”). Contro questi Spurs, i campioni in carica non dovrebbero avere particolari problemi ma già eventualmente contro Portland – ripensando a questo match di regular season e alla stagione di Damian Lillard – le cose si complicherebbero. Superato lo scoglio semifinale e presumendo che vada tutto secondo pronostico, la finale di Conference contro Houston affrontata senza Curry vedrebbe Golden State non favorita – o meno favorita, se preferite -, con il peso dell’attacco quasi tutto sulle spalle di Durant. Che non è uno scenario catastrofico, intendiamoci, ma non si tratta neanche della situazione migliore in assoluto per gli Warriors che hanno bisogno, quest’anno più che mai vista la concorrenza agguerrita, del loro supereroe.
3) Quindi dobbiamo rassegnarci al fatto che San Antonio non avrà Kawhi Leonard?
Eh, temo proprio che Kawhi lo rivedremo dopo l’estate, quando comunque il mistero che lo ha circondato fino ad oggi non verrà svelato interamente. Resterà uno di quei segreti tipici americani come l’Area 51 o le schede per Al Gore in Florida. Per come è andata la stagione, è molto più facile pensare ad una San Antonio senza Leonard contro Golden State e con tanti dubbi sugli anni a venire.
Kawhi Leonard (return from injury management) is out for tomorrow’s Spurs-Pelicans game. pic.twitter.com/fXrFtUH87v
— San Antonio Spurs (@spurs) 10 aprile 2018
Ormai il Social Media Manager va di copia-incolla cambiando solo l’avversaria.
Gli Spurs si sono aggrappati al treno playoff con la forza della disperazione, trascinati da LaMarcus Aldridge che dopo l’All-Star Game si è preso più responsabilità che in tutti i mesi precedenti passati in Texas (27.9 punti e 9.6 rimbalzi sui 36 minuti con 31.3% di Usage). Senza dimenticare l’apporto dei veterani e di Manu Ginobili, che è una categoria a parte, gli Spurs sono stati encomiabili per come hanno reagito alla prospettiva, ad un certo punto molto concreta, di mancare la post-season dopo 20 anni, ma contro gli Warriors hanno chance tendenti al nulla. Detto che è lecito attendersi comunque gare tatticamente interessanti – glielo dite voi a Gregg Popovich di non provarci a mettere granelli di sabbia negli ingranaggi di Steve Kerr? -, al di là di ciò la stagione degli Spurs passerà alla storia per l’affaire-Leonard. Per quanto è stato possibile ricostruire, l’MVP delle Finals 2014 non gioca perché non si sente sicuro, non si sente al 100%, ha paura di rifarsi male al quadricipite: si allena regolarmente ma al momento di giocare dice no e assiste in borghese. Gli inviti dei compagni a mettere da parte i timori sono per ora caduti nel vuoto e l’unico appiglio per vederlo in campo nei playoff è proprio che si tratti dei playoff.
Una eventuale presenza di Leonard nella serie contro Golden State non cambierebbe l’equilibrio generale ma darebbe sicuramente enfasi allo scontro e, probabilmente, contribuirebbe a dare indizi più certi sul futuro di Kawhi. Lui ha dichiarato di voler rimanere Spurs a vita, ma non è detto che la dirigenza o lo spogliatoio abbiano lo stesso pensiero.
Portland Trail Blazers-New Orleans Pelicans
di Daniele V. Morrone
4) Anthony Davis è diventato talmente enorme da poter vincere una serie di playoff da solo?
Il tema principale di questa serie tra Portland e New Orleans ha effettivamente a che fare con l’esplosione di Anthony Davis come uno dei primi cinque giocatori della lega. Dopo aver assistito alla sua definitiva ascesa all’Olimpo della NBA, ora siamo di fronte a un turno di playoff in cui deve farci capire se è arrivato al punto di poter spostare una serie praticamente da solo.
I Pelicans si affideranno totalmente a lui, a partire da come difendere l’attacco di Portland: contando sul fatto che almeno in prima battuta Portland proverà sempre a far partire un pick and roll per mettere Lillard in condizione di tirare, Davis dovrà dimostrarsi in grado di cambiare sul perimetro in maniera distruttiva, anche se la stella dei Blazers ha dimostrato che in questa stagione neanche la mano in faccia lo riesce a fermare. Coach Alvin Gentry potrebbe pensare di togliere Davis del tutto dal pick and roll di Lillard nei momenti freddi della partita, mettendolo dalla parte opposta dell’area per chiedergli solo di intervenire in aiuto e concentrando i suoi sforzi solo nei momenti del bisogno. Bisogna inoltre considerare se Gentry preferirà chiedere a Davis questo sforzo extra per provare a contenere direttamente Lillard o se opterà per distribuire la fatica, magari mitigando soltanto l’impatto di Lillard decidendo di giocare con tanti esterni come piace a lui e accettare di cambiare su tutti i blocchi sempre così da avere Davis più fresco quando si tratterà di attaccare.
Perché alla fine quello che realmente conta per i Pelicans è il trade-off tra quanto un difensore fantastico come Davis deve sforzarsi in difesa senza perdere troppa lucidità poi davanti. Per quanto sia giusto preoccuparsi di come limitare gli avversari più talentuosi, questa serie ha senso per i Pelicans solo ed esclusivamente se Davis porterà tutto il suo potenziale offensivo su ogni singolo possesso. Se insomma potrà attaccare in modo lucido e sfruttare il suo essere un mismatch vivente per la difesa di Portland, che non ha nessuno da potergli mettere contro in grado di stargli dietro dal punto di vista fisico o atletico. Con Davis parliamo di un giocatore in grado di segnare 40 punti contro qualunque difesa anche solo agendo dalla media distanza, l’evoluzione sui due lati del campo di quella che era stata la Rivoluzione di Kevin Garnett. In questo senso non penso neanche che sarà Jusuf Nurkic a doverlo marcare, perché già in stagione Portland si è preoccupata di come nascondere il bosniaco su avversari decisamente meno pericolosi di Davis. Ma anche l’opzione di vederlo marcare da chi come Al-Farouq Aminu non ha il fisico ma ha i piedi per stargli dietro rischia di costare caro, se Davis dovesse essere sempre lucido da poterlo puntare.
Se la stagione di Davis da quando Boogie Cousins è uscito dai giochi è stata Garnettiana, riuscire a passare il turno con questa squadra rappresenterebbe una nuova consapevolezza della sua forza non solo come aspirante dominatore della lega, ma ne cementificherebbe anche la legacy come vero erede di KG.
Oklahoma City Thunder-Utah Jazz
Di Nicolò Ciuppani
5) Oklahoma City ha una “marcia playoff” oppure è la squadra inconcludente vista in regular season?
I playoff sono indubbiamente il momento della stagione in cui lo star power fa tutta la differenza del mondo. Le partite diventano immancabilmente punto a punto perché le squadre si conoscono progressivamente di più e le distanze si accorciano. OKC in questo ha sicuramente un vantaggio, perché avere tre giocatori in grado di prendersi tutti i tiri più pesanti è oro in situazioni di ristagno (sebbene Carmelo Anthony sia ormai in involuzione totale e in una forma fisica forse pure peggiore di quella che aveva ai New York Knicks). Altre due caratteristiche che spesso sono determinanti ai playoff sono il controllo dei tabelloni e una difesa asfissiante. Nel primo caso, benvenuti a Rebound City: i Thunder sono una macchina da rimbalzi offensivi, con Steven Adams che è campione mondiale dei pesi massimi di taglia-fuori, Westbrook che è in grado di prendere qualunque rimbalzo fuori dalla portata di chiunque anche a costo di saltare sopra la testa di un avversario fuori dal campo, e in generale tutta la squadra sembra sopra il par per dominare le plance se decidesse di farlo.
Per quanto la riguarda la difesa… purtroppo per loro non siamo ai livelli del passato. I Thunder non hanno una pessima difesa, ma sono solamente sufficienti. Sicuramente prima dell’infortunio di Andre Roberson erano una difesa ottima, ma dall’infortunio del loro miglior difensore perimetrale si sono assestati su un livello più basso, probabilmente perfino sotto la sufficienza. Questo non solo perché Roberson era in grado di mettere pezze sopra le scorribande insensate di Westbrook, che si perde alla ricerca di rubate dietro la palla o lascia perdere l’uomo cercando di saltare su una linea di passaggio, ma perché la sua presenza dava un tono all’ambiente (meglio del tappeto del Drugo Lebowski) e spingeva tutti a difendere al proprio meglio.
È possibile che ai playoff la musica cambi e che quindi tutti i Thunder decidano spontaneamente di accendere l’interruttore ed essere completamente focalizzati nella loro metà campo, rendendosi una vera e propria mina vagante per la post-season. Tuttavia la miglior qualità dei Thunder (quella di essere in grado di portare qualunque partita punto a punto) è anche un’arma a doppio taglio, nel senso che sono veramente in grado di portare QUALUNQUE partita, anche quelle estremamente facili, punto a punto. Il loro rendimento nel clutch non è stato minimamente efficiente come quello dell’anno scorso, pertanto il rischio di vederli vincere partite in cui sono molto svantaggiati come quello di perdere gare vinte in partenza è reale.
I Thunder insomma sembrano la squadra rischio per eccellenza: potrebbero andare molto avanti nella post-season come bruciarsi molto più rapidamente di quanto ci si aspetta.
6) La difesa di Utah è in grado di mettere la museruola all’attacco dei Thunder, aka Westbrook against the world?
Occorre rimettere le cose al giusto contesto: i Jazz hanno praticamente la miglior difesa della lega, essendo secondi ai Boston Celtics ma distanziati solamente da un decimo di punto, pur dovendo fare a meno di Rudy Gobert per buona parte della stagione. Tuttavia l’anno scorso la difesa dei Jazz collassò ai playoff, anche se per mano dei Golden State Warriors che erano praticamente ingiocabili, mentre al turno precedente fu quella a tenerli in vita contro dei Clippers in una serie più dimenticabile che altro. I Jazz insomma non sono solo in grado di fermare potenzialmente i Thunder, ma di fermare chiunque, almeno all’apparenza.
Questi playoff saranno comunque un banco di prova notevole: gli attacchi avversari punteranno Donovan Mitchell in più occasioni e proveranno a muovere Gobert fuori dal pitturato il più spesso possibile, con i Thunder che dovranno punire continuativamente dall’arco appostando George e Brewer nei due angoli ad aspettare lo scarico o il ribaltamento. Ma nelle serate in cui il tiro non dovesse entrare, i Thunder spesso smettono di eseguire in attacco per affidarsi alle loro stelle e ai loro isolamenti; e se magari gli isolamenti di Westbrook o George sono sufficientemente efficienti per sopportare un periodo di magra, una serie di iso dell’ultimo Melo o di un Raymond Felton in delirio di onnipotenza sono completamente deleteri per l’inerzia della gara. Quante volte Utah riuscirà a costringerli a tiri a bassa efficienza determinerà l’esito della serie.