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Dario Vismara
Tanto rumore per nulla?
15 dic 2017
15 dic 2017
I Cleveland Cavs hanno avuto un inizio di stagione altalenante, ma dopo aver trovato il loro equilibrio stanno per voltare pagina di nuovo.
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Dario Vismara
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In un certo senso, Kyrie Irving aveva previsto tutto: era facilmente immaginabile che la stagione 2017-18 dei Cleveland Cavaliers sarebbe stata ancora più assurda rispetto a un triennio che tutto è stato tranne che normale, culminando in tre finali consecutive e lo storico titolo del 2016. Ma la scadenza del contratto di LeBron James a fine giugno ha gettato una luce del tutto diversa su questa annata in “The Land”, con tutto un carico di voci, indiscrezioni, domande, silenzi e in generale drama che circonda un personaggio delle proporzioni di “King James" ovunque vada o qualsiasi cosa dica. Per questo e per mille altri motivi Irving ha deciso che ne aveva abbastanza, cambiando la stagione stessa dei Cavs con la sua decisione e dandole ancora di più una dimensione di transizione.


 

E in effetti la stagione dei Cavs finora è andata esattamente nel modo in cui Irving se l’era probabilmente immaginata: un sacco di eventi, di momenti di confusione, di dichiarazioni da interpretare, di momenti controversi, di provocazioni non necessarie, perfino di post sui social network da dover decriptare. C’è stato un periodo, specialmente nelle prime dodici partite cominciate con un record di 5 vittorie e 7 sconfitte, in cui ogni singola partita diventava un affare di stato — tanto nel bene quanto soprattutto nel male, visto che i Cavs sono stati battuti nettamente da squadre tutt’altro che competitive come Orlando, Atlanta e Brooklyn e hanno mostrato dei momenti di pallacanestro rivoltanti per mancanza di interesse e di impegno.


 

Tutte le difficoltà del training camp


In realtà poi andando un minimo in profondità si trovano diversi motivi, al di là della mancanza di voglia, per cui i Cavs sono usciti così male dai blocchi di partenza della stagione. I veterani NBA sono abituati a prendersela con molta calma a inizio stagione e l’accorciamento del training camp — periodo in cui, ai bei tempi, era demandata l’intera preparazione fisica per tornare in forma dopo un’estate di bagordi, cosa che oggi non succede così spesso con questa generazione di giocatori ma che comunque rimane di sottofondo — non ha aiutato i giocatori più in là con gli anni di cui il roster di Cleveland è pieno. Lo stesso LeBron James era palesemente scontento delle sue condizioni fisiche ad inizio stagione, avendo dovuto saltare quasi tutta la pre-season per un fastidioso problema alla caviglia che ha fatto deragliare il suo certosino piano di avvicinamento alla regular season.


 

Se a questo aggiungiamo che Tyronn Lue non è esattamente un coach che punta tutto sugli allenamenti intensivi di due ore (anzi, si può dire che i Cavs non si allenano mai durante la stagione) e la curiosa situazione per la quale Kevin Love ha scoperto di dover giocare da “5” solamente a training camp iniziato, chiedendo lumi sulla copertura di un pick and roll (con LeBron a comunicargli il suo spostamento dicendogli anche “Ma che non lo sapevi?”), ecco spiegate alcune delle difficoltà in campo dei Cavs. Oltre a tutto questo, non bisogna dimenticare che il roster è stato fortemente cambiato dall’estate, aggiungendo non solo i giocatori arrivati dallo scambio di Irving (Isaiah Thomas, Jae Crowder e Ante Zizic) ma anche free agent al minimo salariale come Derrick Rose, Jeff Green e José Calderon.


 

A questi sei si è poi aggiunto anche Dwyane Wade a training camp già avviato, una firma che ha messo in crisi la chimica interna allo spogliatoio. L’arrivo dell’ingombrante miglior amico di LeBron James ha rotto dei legami molto forti che si erano creati tanto in campo quanto fuori, avendo un impatto enorme sulle stagioni di almeno cinque giocatori: J.R. Smith inizialmente ha dovuto lasciargli il posto in quintetto, cosa che non ha preso affatto bene; Kevin Love ha dovuto scalare da “5” per assicurare spaziature migliori a un quintetto che schierava contemporaneamente due non-tiratori come Rose e Wade; Tristan Thompson di conseguenza è stato spostato in panchina e Channing Frye è uscito del tutto dalla rotazione, non avendo più minuti in cui poterlo schierare.


 

Soprattutto, l’aggiunta del contratto di Wade ha costretto i Cavs a tagliare Richard Jefferson per creargli un posto a roster, un addio molto pesante a livello di spogliatoio visto che il vecchio “RJ” era amatissimo da chiunque gravitasse attorno alla franchigia ed era sorprendentemente diventato uno degli eroi di culto del titolo del 2016, per il quale riceverà amore imperituro da tutto il Northeast Ohio. Normale allora che l’arrivo di un singolo giocatore, peraltro voluto fortemente da James ma non altrettanto dal resto della squadra, abbia rotto un clima e dei legami che si erano formati all’interno della squadra negli ultimi tre anni in cui i Cavs non hanno sempre spiccato per unità e coesione. Una situazione intricata che hanno ammesso anche i diretti interessati in un pezzo molto interessante di Jason Lloyd su The Athletic, in cui Wade ha concesso che “qui avevano uno stile di gioco in cui io non mi inserisco bene, anche se ora è una squadra diversa”. Ben meno diplomatico è stato James, che ha ammesso che un paio di giocatori non avevano apprezzato l’arrivo di Wade e ha aggiunto: “Non capisco per quale motivo uno non vorrebbe volere un giocatore che sa stare in campo e porta una mentalità da vincente in spogliatoio. Perciò ovviamente mi ha dato fastidio quanto successo, ma chissenefrega. È andata come è andata”.


 

Il record iniziale di 5-7 si spiega quindi per tutti questi fattori: chimica di spogliatoio rotta, rotazioni completamente saltate per aria, condizione fisica risibile, interesse per quello che succedeva in campo pari a zero — ben testimoniato dal rotondo 30° posto su 30 nel rating difensivo, a cui un attacco solamente mediocre a livello di efficienza non riusciva a sopperire.


 

Il cambio di marcia


Paradossalmente, le cose hanno cominciato a migliorare quando ciascuno di questi quattro fattori sono stati affrontati tanto dai giocatori quanto dagli allenatori. Dwyane Wade ha avuto la sensibilità di andare da coach Lue e chiedergli di essere spostato nel ruolo di sesto uomo in uscita dalla panchina, mettendosi una mano sul cuore (perché il risentimento di J.R. Smith nei suo confronti per avergli “rubato” il posto in quintetto era tangibile) e l’altra sulle ginocchia (perché, per sua stessa ammissione, non è più in grado di sostenere i minutaggi di un titolare se vuole arrivare nel quarto quarto ancora in condizioni decenti). Questa decisione, anche solo come gesto di buon senso e di “umiltà”, ha aiutato a distendere un po’ i rapporti col resto dello spogliatoio che non si chiamasse James, anche perché poi dalla panchina Wade sta avendo un rendimento al di sopra delle aspettative.


 

Ad aiutare ulteriormente Tyronn Lue ci hanno pensato, paradossalmente, eventi che di base dovrebbero essere negativi come gli infortuni. I problemi fisici di Derrick Rose (che ha aggiunto un’ulteriore dose di drama passando due settimane a chiedersi se aveva senso continuare con la pallacanestro, prima di rientrare nei ranghi per curarsi la caviglia), di Tristan Thompson (con uno stiramento al polpaccio) e di Iman Shumpert (ginocchio in disordine) hanno normalizzato le rotazioni e permesso a Lue di scoprire combinazioni di quintetti che probabilmente nemmeno pensava di avere.


 

L’inserimento di José Calderon tra i titolari, ad esempio, ha aiutato i Cavs ad avere un quintetto base finalmente stabile (+10.7 di Net Rating) e, sorprendentemente, una comunicazione difensiva migliore. I limiti del 36enne spagnolo sono noti e ben visibili, ma in attacco non sporca il foglio prendendosi solo i tiri strettamente necessari e muovendo il pallone, facilitando la farraginosa circolazione di palla di una squadra comunque basata sugli isolamenti; in difesa poi ovviamente non è in grado nemmeno di rimanere davanti a buona parte dei lettori de l’Ultimo Uomo (ho grande fiducia in voi, ragazzi), ma è un veterano che sa leggere il gioco e sa farsi trovare al posto giusto nel momento giusto all’interno delle rotazioni difensive, sopperendo come può ai difetti di comunicazione di una difesa che ha in Kevin Love il suo centro titolare.


 


 

 

In attacco, poi, basta solo sapersi appostare sul perimetro per ricevere un cioccolatino dalle mani di James.




 

La vera notizia rispetto al passato però è l’ascesa di una panchina incredibilmente solida e produttiva. Negli ultimi anni i Cavs — anche per i difetti da “ansia di prestazione” di Irving, che voleva dimostrare a tutti i costi di poter vincere i minuti senza James — avevano grossi problemi ogni volta che LeBron andava a sedersi in panchina, subendo parziali su parziali e non vincendo praticamente mai ogni volta che il Re si prendeva una partita di pausa per gestire il suo preziosissimo fisico. Negli anni passati, specialmente nei playoff, Lue aveva cercato di far fronte al problema semplicemente eliminandolo, facendo giocare un quantitativo di minuti spropositato a James in modo che potesse prendersi carico anche dei minuti dei panchinari, circondandolo di tiratori e lasciando che il suo talento facesse il resto.


 

Di fatto la panchina di Cleveland è sostenibile perché c’è lui, anche se la coppia formata da Dwyane Wade e Kyle Korver — come già scritto qualche settimana fa — è una delle migliori di tutta la NBA e la combinazione di atletismo e tiro data da Jeff Green e Channing Frye funziona bene contro le panchine avversarie, anche perché con LeBron James al fianco tutto diventa più facile. Il quintetto formato da Wade, Korver, James, Green e Frye è il terzo più utilizzato dai Cavs in questa stagione e vanta un Net Rating assurdo di +26.1 in 72 minuti, il terzo migliore di tutta la NBA tra quelli con minutaggio paragonabile dietro a — e qui rientriamo nel discorso delle anomalie statistiche — uno di Dallas e uno di Brooklyn.


 

L’ennesima stagione da MVP di LeBron James


A questo punto conviene spendere qualche parola su che diavolo di stagione sta giocando LBJ. Se partiamo dal presupposto che abbiamo già visto più minuti in regular season di James piuttosto che di gente come Shaquille O’Neal, Scottie Pippen o Michael Jordan, quello che sta facendo con quel chilometraggio sulle gambe è assolutamente insensato. Uno che ha giocato più di 42.000 minuti in carriera — a cui si aggiungono i 9.000 ai playoff, con gli ultimi sette anni sempre in finale — non dovrebbe essere in grado di essere ancora a questo livello, a trascinare la sua squadra sera dopo sera e a dominare il gioco contro gente anche 10 anni più giovane di lui. Tolto forse l’altrettanto incredibile James Harden che gli sta contendendo il titolo di MVP, se una qualsiasi delle altre superstar della NBA producesse la stagione che sta facendo ora James lo osanneremmo ogni singolo giorno, dedicandogli fiumi e fiumi di articoli su come abbia fatto “The Leap” ascendendo a un livello superiore. Pensate solo se Giannis Antetokounmpo, che pure sta giocando a livelli élite, facesse quello che sta facendo James.


 


Giusto stanotte è arrivata l’ultima dimostrazione.




 

Invece, il fatto di aver visto LeBron fare queste cose da 15 anni lo fa passare quasi per scontato, ma non c’è nulla di normale in questa annata: con 28 punti a partita è al suo massimo dai 29.7 del 2009-10, quando però aveva 25 anni e non 33; anche a livello di assist con più di 9 a partita è a livelli mai toccati prima in carriera, così come l’efficienza (63.7% di percentuale effettiva, il record precedente è 62.2% nel 2013-14) è a livelli assurdi, grazie soprattutto a un 41% da tre mai tenuto prima. Considerando l’offensive rating di basketball-reference, poi, con 125 punti per 100 possessi è alla pari del suo terzo anno a Miami, quello delle 27 vittorie consecutive, e il suo PER è a quota 31.7, anche qui allo stesso livello della miglior stagione in carriera (2008-09, quella del primo MVP). Mettendo a paragone questa stagione con la media delle quattro in cui è stato nominato come miglior giocatore della lega, il paragone è più che lusinghiero: 28.2 punti contro 28.1; 58% dal campo invece del 52%; 41% da tre invece di 35.6%; 8.3 rimbalzi invece che 7.7 e 9 assist invece di 7.4.


 

L’addio di Irving ha messo nelle sue mani le intere sorti dei Cavs non tanto nel corso della gara — anzi, il suo Usage è salito di meno di mezzo punto rispetto allo scorso anno — quanto soprattutto nei finali di partita, in cui è stato semplicemente spaventoso. Nessuno in NBA ha segnato più dei suoi 81 punti totali in 61 minuti con il 57% dal campo, peraltro aggiungendo anche 25 rimbalzi e 15 assist nei 61 minuti “in the clutch” giocati finora per un rotondo +40 di plus-minus. (L’unico a tenergli testa è proprio Irving, che lo tallona a quota 79 punti in 53 minuti e con un curioso zero alla voce palle perse e +47 di plus-minus). Il fatto però che Cleveland abbia avuto bisogno di così tanti straordinari da parte di King James è il primo segnale che qualcosa, nonostante il record di 21-8 e la striscia di 13 vittorie consecutive, ancora non funziona. Ma soprattutto che tutto questo sta per cambiare un’altra volta.


 

Voltare pagina, di nuovo


La vera domanda a cui i Cleveland Cavaliers dovranno rispondere da qui alla fine della stagione in realtà dipenderà pochissimo, per non dire nulla, da quello che è successo finora. I rientri di Isaiah Thomas e di Tristan Thompson, infatti, cambieranno il volto della squadra in maniere non ancora prevedibili.


 

L’atteso ritorno in campo del primo, in particolare, getterà una luce del tutto diversa non solo sulla stagione 2017-18 dei Cleveland Cavs, ma anche sulla valutazione dello scambio che lo ha coinvolto per Kyrie Irving e sul suo futuro nella squadra. Se Thomas si rivelasse di nuovo il giocatore da secondo quintetto All-NBA ammirato nella scorsa stagione, i Cavs potrebbero addirittura azzardare di aver pareggiato quello scambio (mentre al momento sembra sbilanciatissimo in favore di Boston, al netto di dove finirà la scelta dei Nets); se invece i problemi fisici all’anca, il fit al fianco di LeBron James o gli scompensi difensivi provocati dalla sua presenza in campo dovessero rivelarsi di difficile soluzione, ecco che la sua situazione diventerebbe immediatamente una delle storie principali della lega — anche perché il suo contratto è in scadenza a luglio e la sua voglia di guadagnarsi il “Contratto della Vita” è nota a tutti.


 

Se il suo inserimento in quintetto al posto di Calderon non comporta particolari scossoni a livello di posto in rotazione, ben diversa è la situazione di Thompson: il canadese ha iniziato la stagione in panchina prima di essere inserito di nuovo al fianco di Kevin Love, ma da quando è uscito i Cavs hanno scoperto la formula magica della panchina con i bombardieri Frye e Korver, trovando un equilibrio che viene difficile pensare di toccare. Allo stesso modo, inserendo Thompson da 5 titolare (anche per coprire le mancanze difensive di Thomas) vorrebbe dire cambiare di nuovo il posto in rotazione a Jae Crowder, forse la nota più negativa di questo inizio di stagione in cui ancora non è riuscito ad avere l’impatto sperato tanto in attacco quanto in difesa. Crowder però è una pedina fondamentale sulla scacchiera del possibile quarto episodio in Finale NBA contro i Golden State Warriors, in quanto l’unico a roster in grado di dare quei minuti di qualità in marcatura su Kevin Durant, risparmiando a James gli straordinari della scorsa stagione in Finale.


 

Immaginandosi un quintetto base formato da Thomas, Smith, James, Love e Thompson e una panchina da cui si alzano Wade, Korver, Green e Frye, il ruolo di Crowder potrebbe essere quello di primo cambio di James nella seconda metà del primo quarto, in modo da giocare insieme a Thomas (con cui ha creato un’ottima chimica dai tempi di Boston) e contemporaneamente far rifiatare il Re in attesa che rientri per guidare la second unit. Nel caso le cose funzionassero bene Crowder potrebbe anche rubare dei minuti a Green da 4, pur senza poter assicurare lo stesso quantitativo di atletismo in una squadra che — tolto l’androide col 23 — fa molta fatica a giocare sopra il ferro. Ma vorrebbe dire cambiare per l’ennesima volta il ruolo e i punti di riferimento a un giocatore di sistema per antonomasia, che ha bisogno di compiti precisi per rendere al meglio e che sta attraversando un momento personale complicato, avendo perso la madre nello scorso agosto proprio nel giorno in cui veniva spedito a Cleveland.


 

Tutto questo senza considerare le condizioni di Rose e Shumpert, che in questo momento si ritroverebbero fuori dalle rotazioni anche se fossero al 100% della forma fisica, e per i quali — specialmente il secondo — è difficile immaginare un futuro a Cleveland fino a fine stagione. In definitiva, i Cavs nei primi due mesi di regular season hanno fatto tantissimo rumore per quasi nulla: tutto quello che è successo finora ha importanza relativa, visto che tutto è destinato a essere sconvolto di nuovo dal rientro di Thomas e Thompson per capire quali sono le reali potenzialità di questa squadra. Che ha difetti chiari e una chimica quantomeno sospetta, ma che ha anche un giocatore in grado di nasconderli sotto il mantello di un talento con pochissimi eguali nella storia del gioco.


 
 

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