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Date una squadra ad Andrea Belotti
14 lug 2022
Un punto sulla carriera del "Gallo", oggi che è svincolato.
(articolo)
11 min
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Nell’azione del secondo gol, se vi siete distratti e lo avete perso di vista quando la palla era lontana, Andrea Belotti neanche si vede. È nascosto dal corpo - di una taglia più grande rispetto al suo - del difensore greco del Bologna Marios Oikonomou. Di Belotti, però, si intuisce la presenza, sotto forma di ostacolo nella corsa di Oikonomou, una forza invisibile che separa il difensore dalla palla. De Silvestri aveva battuto un fallo laterale profondo e Belotti lo stava facendo scivolare davanti a sé in modo da trovarsi in posizione di tiro. Apparentemente Oikonomou era in controllo della situazione, in realtà Belotti lo stava tenendo dietro la propria schiena e, con un’ultima spinta, se l’è messo leggermente dietro così da ricavare lo spazio per il tiro a incrociare.

Questo era Belotti all’inizio della stagione 2016-17 che avrebbe chiuso con 26 gol in campionato. Per la precisione era fine agosto 2016, nella vittoria per 5-1 contro il Bologna aveva segnato la sua prima tripletta guadagnandosi la sua prima convocazione in Nazionale. Questo era Belotti quando aveva così tanta energia in corpo che le sue esultanze avevano la stessa intensità dei suoi gol. Qualche mese dopo sarebbe arrivata la famosa valutazione di Cairo da 100 milioni, da cui persino lui si era in un certo senso dissociato dicendo di non pensare di valere tanto - «nel calcio però le cifre sono aumentate a dismisura», aveva aggiunto, perché insomma è tutto relativo - ma che, a ben guardare, non era poi così campata in aria.

Belotti era semplicemente un attaccante in grado di vincere qualsiasi duello fisico con qualsiasi difensore. In velocità, in altezza, di potenza, d’astuzia. Scoppiava di salute, aveva una tale vitalità addosso che i difensori se li mangiava, li faceva sparire nella nuvola creata dal suo movimento, saltava in testa a difensori più alti di lui, spostava con le braccia quelli che pesavano di più. Non era un pianificatore, un astuto manipolatore degli spazi, né un genio della tecnica. Belotti improvvisava su ogni palla e non temeva le figuracce. Era un attaccante classico, tradizionale, che piaceva proprio per l’assenza di orpelli barocchi, per la mancanza di eleganza e creatività, anche se aveva una capacità tutta sua di sorprendere. Un bravo ragazzo, religioso, risparmiatore, umile, con lo sguardo basso e il coltello tra i denti, senza paura di niente e di nessuno.

Riguardandolo oggi, forse era un giocatore più complesso di come lo ricordiamo, di come lo raccontiamo, con l’ambizione e la capacità di costruirsi i gol da solo, nel caos che lui stesso generava. Riusciva a trovare angoli e spazi in cui infilarsi con la pura forza della propria volontà, soluzioni di tiro inaspettate, colpi di testa violenti come se nel suo collo ci fosse stata la polvere da sparo. Si metteva in situazioni complicate, troppo complicate per i suoi piedi, ma abbastanza spesso trovava il modo di uscirne facendosi largo tra le maglie della difesa avversaria (oppure, alle brutte, proteggeva palla curvandoci sopra, prendendo fallo). In fin dei conti si tratta pur sempre di corpi, di carne, e la carne si sa: è debole. Non quella di Belotti, che sembrava fatto di una materia diversa, più resistente agli urti ma al tempo stesso più elastica.

Questa rovesciata è dell’agosto 2017, al Sassuolo poi ha segnato con una seconda rovesciata due anni dopo, a maggio 2019, per vincere 3-2 a poche giornate dalla fine di una stagione in cui il Toro è andato vicinissimo a qualificarsi direttamente in Europa League.

Gattuso che lo aveva avuto al Palermo aveva parlato di «veleno», una parola che però contiene qualcosa di negativo, un effetto secondario spiacevole, mentre Belotti era positività pura, tutto nasceva dal suo desiderio di avere la palla e di farci qualcosa, qualsiasi cosa, purché non si potesse dire che aveva sprecato un’occasione per quanto piccola. Emanuele Atturo scriveva (ad aprile 2017): «Belotti interpreta ogni piega della sua partita, ogni piccola situazione, come una questione di vita o di morte». E poco più avanti aggiungeva con un velo di pessimismo che poi si sarebbe rivelato profetico: «Togliete a Belotti l’intensità e lo vedrete passare le giornate di campionato a fare su e giù come una tigre allo zoo».

Oggi ci sembra di aver preso un’allucinazione collettiva, che ci faceva vedere nel Belotti 23enne uno dei migliori attaccanti del campionato, se non addirittura uno dei migliori al mondo. E siamo rimasti delusi subito dopo, quando sono cominciati i problemi fisici. A ottobre 2017 Belotti si è fatto male al ginocchio destro (lesione parziale al legamento collaterale), poi è tornato in campo in tempi brevi, troppo brevi, e si è fatto male di nuovo allo stesso ginocchio. In quella stagione Belotti ha segnato solo 10 gol in campionato (il numero più basso dopo quello dell’ultima annata in granata, dove però ha giocato la metà dei minuti) e Marco D’Ottavi scriveva, per addolcire l’amarezza del premio che i lettori dell’Ultimo Uomo gli avevano dato come “Delusione dell’Anno”: «Per segnare il Gallo deve essere più esplosivo degli avversari, sopraffarli con il suo corpo, cosa che non gli è riuscita con continuità dopo l’infortunio».

Da quel momento è come se in noi fossero convissute due idee contemporaneamente: da un parte ci aspettavamo che potesse tornare ai livelli della stagione da 26 gol in campionato, dall’altra ci rendevamo conto che i problemi fisici gli avevano tolto quel poco di esplosività che bastava per renderlo più normale di quanto non fosse prima (comunque un giocatore da una quindicina di gol stagionali). Sembra assurdo a pensarci oggi che Belotti è momentaneamente senza squadra, ma sono almeno quattro stagioni che siamo fermi allo stesso punto. Belotti compierà 29 anni il prossimo dicembre ma la scorsa stagione, quella in cui è arrivato in scadenza e che sarebbe potuta servire per attirare l’attenzione su di sé (in NBA si parla di “contract year” per i giocatori che alzano le proprie performance prima di diventare “free agent”) è stata la peggiore dal punto di vista degli infortuni, stavolta muscolari. Nel Torino di Juric che finalmente è tornato a far divertire il suo pubblico, Belotti è stato per lunghi tratti un corpo estraneo, un giocatore di cui si poteva già fare a meno.

Bellotti Belotting.

E così su Belotti si è venuta a posare una rugiada nostalgica, che forse gli apparteneva da sempre, proprio per via di quel gioco un po’ spartano che lo fa sembrare, come scriveva Tommaso Giagni (a maggio 2016), «un giocatore che viene dal passato», emerso dalle ceneri di un calcio più semplice, come se lo avessimo scavato nella terra, un reperto archeologico di un calcio che non c’è più, in cui anche gli attaccanti migliori non erano così distanti da chi li guardava.

Negli anni la curvatura della schiena (una possibile cifosi) si è accentuata sempre più e con l’ispessirsi del suo profilo Belotti somiglia sempre di più a un pugile con cento incontri alle spalle, la fatica è sempre più evidente. Senza più quella leggerezza che aveva nei primi passi lo sforzo necessario per vincere il duello è in superficie, è la sola cosa che vediamo di lui. Sembra la conclusione più logica, per uno che a inizio carriera diceva: «Mi piace fare fatica, che non significa solo correre»; che il padre ha cresciuto dicendo: «Se non esci dal campo stanco morto, non hai dato tutto».

Anche in questo caso forse abbiamo un’idea di Belotti che non corrisponde totalmente alla realtà. Almeno a giudicare dai suoi gusti, la pesca di lago, in cui lotta con pesci da 70kg e quando ne parla sembra descrivere il modo in cui duella con i difensori - «Ci vuole forza e strategia (...) Quando sono loro a tirare, devi lasciare un po’ di filo, poi tiri tu e così via, fino a stancarli e riuscire a tirarli fuori (...) A volte vinco io, a volte vince il pesce» - i vini che elenca come se fosse un personaggio di Proust, alcune cose che dice su Torino che lasciano intravedere una sensibilità inaspettata - «Prima di uscire di casa, fosse anche solo per fare la spesa, ti viene voglia di vestirti bene, quasi a non sfigurare di fronte all’eleganza della città».

Qui era l’aprile del 2021, il Toro doveva salvarsi e la Roma si era appena qualificata per la semifinale di Europa League.

E la sensibilità di Belotti aveva incrociato perfettamente quella del pubblico granata, legandosi alla storia e all’identità del club in un modo che non verrà dimenticato e che qualsiasi capitano che verrà dopo di lui farà fatica a pareggiare. Persino quando paragona il Toro a un Barolo va oltre la paraculaggine, arriva a darne una definizione commovente - o meglio, che sembra commuoverlo (come pare commosso quando c’è da commemorare Superga): «Il Barolo è un vino unico, non si può omologare agli altri. Va sentita l’intensità, la complessità dell’odore, la profondità, senza abbinarci nulla. Il Barolo basta a se stesso, sa invecchiare molto bene e vale la pena aspettarlo. Il Barolo è un mondo a parte, proprio come il Toro».

Incontri del genere, che vanno al di là della nascita, del tifo da piccoli, sono rari. Una corrispondenza simile tra i valori e l’identità di un calciatore e un club, fuori da ogni retorica, vale quanto cinque o sei stagioni da più di venti gol, almeno per chi in quella squadra, e in quel giocatore, ci si rivede. E dico fuor di retorica perché se c’è un calciatore che sembra sincero quando parla, e che se nasconde qualcosa è per pudore e non per furbizia, quello è Belotti - «Ci tengo a farmi conoscere più come persona che come calciatore. E che si voglia bene alla persona, non al calciatore».

È chiaro, oggi, che quella stagione 2016-17 è stata un’eccezione all’interno della carriera di Belotti (il dubbio c’era anche allora), se non altro per via dei problemi fisici che lo hanno limitato. Ma quello che è rimasto di Belotti è stato comunque sufficiente a fare di lui un giocatore sopra la media, che ha segnato 113 gol in 7 stagioni (100 tondi tondi in campionato) e ha sviluppato le sue qualità nel rapporto con i compagni, imparando a fare da raccordo (l’unica statistica in cui eccelle è quella relativa ai passaggi ricevuti che fanno avanzare la squadra di più di nove metri) e sacrificandosi a volte per una sponda, per una palla protetta che fa salire la squadra, come un tempo faceva per trovare la strada verso la porta.

In senso assoluto può arrivare meno lontano da solo, ma sa fare più cose e sotto porta resta un finalizzatore pericoloso, non precisissimo ma capace di calciare con entrambi i piedi da quasi ogni posizione. Se i problemi alla coscia lo lasciano in pace, Belotti è tutto tranne che un giocatore finito.

Mi rendo conto che per qualcuno, in realtà, Belotti non è mai cominciato. Sono le stesse qualità che lo hanno fatto amare ad alcuni che portano altri a non prenderlo troppo sul serio (un discorso simile vale per Ciro Immobile, di cui alcuni vedono solo i difetti). Per quanto mi riguarda però resta uno dei migliori attaccanti dell’ultimo decennio di Serie A, uno dei migliori italiani della generazione di quelli nati tra il 1990 e il ‘94. E ci vedo del genio nel modo in cui si getta letteralmente sul pallone senza sapere, prima di arrivarci, cosa vuole farci, scoprendolo ad azione in corso.

Ha segnato qualche gol bellissimo e difficile, moltissimi gol normali da finalizzatore navigato (tiri a incrociare in diagonale, deviazioni sotto porta, rigori) e una manciata di gol che poteva segnare solo lui in quel modo. Il gol con cui lo ricordo - che se smettesse di giocare oggi probabilmente ricorderei anche tra vent’anni - è il secondo segnato al Milan nel settembre 2019. La prima parte dell’azione è pulita e mostra la completezza di Belotti, che viene a prendere palla tra le linee, si gira e serve con un filtrante Zaza. Poi va in area e si trova al posto giusto per mettere dentro la respinta di Donnarumma sul tiro del compagno. A quel punto però Belotti mastica la palla di sinistro, non riesce a colpirla di piatto e la schiaccia a terra, facendola impennare alle sue spalle, costringendosi da solo a segnare con una rovesciata bassa e veloce, una specie di capriola all’indietro.

Un gol che ricorda la rovesciata di Ronaldinho contro il Villareal privata però di ogni eleganza e artisticità. Che va all’osso di quello stesso gesto tecnico e che nasce dal casino, dall’imprecisione. Tutto quello che ha fatto Belotti, lo ha fatto provandoci, per di più con l’aria di uno che ci stesse provando per la prima volta. La sensazione che niente fosse scontato per Belotti camminava sotto braccio con lo stupore successivo alla realizzazione di quasi ogni suo gol, facile o difficile che fosse. La sua gioia, subito dopo, è sempre stata quella di chi ha scoperto in quel momento cosa significa fare gol.

È tanto difficile immaginarlo fuori dal Toro quanto sarà dura vederlo con una maglia diversa da quella granata (e sarà dura anche per lui indossarne un’altra) ma non possiamo che augurarci che Belotti torni se stesso. E cioè un giocatore a cui è quasi offensivo contare i gol, che vive ogni momento in campo come se fosse speciale, un privilegio alla portata di pochissimi. Perché lo è. Lo sappiamo noi, e lo sa anche lui.

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