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Fabrizio Gabrielli

Come sta il calcio africano

La Coppa d'Africa ha mostrato un'arretratezza dalla quale sembra difficile uscire.

Nel momento in cui è sceso in campo per la semifinale della Coppa d’Africa tra il suo Egitto e il Burkina Faso, Essam El-Hadary aveva quarantaquattro anni, sedici giorni e una manciata di ore. Da un lato, probabilmente il più vistoso, la sua parabola in questa edizione della competizione è così perfettamente allineata a ogni direttrice classica della narrazione sportiva africana da farsi quasi macchiettistica: ultraquarantenne, è stato aggregato alla rosa nonostante mancasse da due anni dalla Nazionale. Già solo esserci sarebbe dovuto essere il suo premio. Invece il portiere titolare El-Shenawy si è infortunato, El-Hadary ha fatto il suo ingresso contro il Mali e da quel momento l’Egitto ha inanellato 4 vittorie e un pareggio.

 

El-Hadary, di lì in poi, in buona sostanza ha:

 

– blindato la porta dell’Egitto (4 clean sheets in 5 partite)

– parato i due rigori fondamentali che hanno permesso ai Faraoni di sbarazzarsi dei burkinabé guadagnando una finale che mancava da sette anni

– regalato, anche solo in virtù della sua presenza, una generale sensazione di sicurezza, o di ineluttabilità a seconda del punto di vista.

 

El-Hadary possiede tutto ciò che serve per elevarsi a metafora di un calcio che fatica a metabolizzare il processo di trasformazione da baco a farfalla e che vive imbalsamato in una parentesi di procrastinazione, apparentemente eterna, della fase-bozzolo. Di un calcio, insomma, vecchio. E senza troppa voglia di ringiovanirsi.

 

Un calcio che fatica a non essere reazionario. Riponendo ogni velleità sui concetti di creatività e fantasia, ha finito per atrofizzarsi e diventare poco spettacolare (con evidenti ripercussioni anche sull’appetibilità del prodotto “Calcio Africano” in termini, ad esempio, di vendita dei diritti televisivi), a tratti goffo, che si sforza di essere estremamente pragmatico, che vive di rendita sui suoi lati più mitopoietici.

 

 

Mediocrità

 

Il livello medio della Coppa d’Africa appena terminata è stato decisamente mediocre: non c’è stata squadra che abbia dimostrato un progetto di sviluppo di gioco a lungo termine. Costa d’Avorio e Algeria, due tra le favorite principali, sono uscite al primo turno vittime di una carenza di impostazione dei propri piano-gara annichilente; ma non si può dire che Ghana, Egitto e Camerun, tre delle semifinaliste con una tradizione internazionale altrettanto florida, siano state protagoniste di performance più esaltanti.

 

L’involuzione, mai così evidente nella fase a gruppi, è diventata davvero eloquente a partire dai Quarti, da quando cioè il tasso di spettacolarità normalmente è portato ad elevarsi.

 

L’impressione generale è stata che comunque fosse andata, ci saremmo comunque trovati di fronte alla finale più noiosa dell’ultimo decennio di calcio africano per nazioni.

 

Alla fine non è stata così: Camerun ed Egitto hanno dato vita a un incontro vivacizzato dal ritorno ad alti livelli dei “Leoni Indomabili”. Dall’altra parte però la partita è stata anche la dimostrazione più limpida di tutti i limiti che strozzano lo sviluppo del calcio continentale.

 

Molte squadre, anche le più quotate, hanno sposato un canovaccio-non-canovaccio riassumibile in tre semplici punti: schermature difensive nell’ordine dello snervante; impostazione dei propri piani-gara su un livello di complessità infimo, mai troppo lontano dal grezzo schema compattare le linee + affidarsi con piena fiducia alle individualità (almeno il Camerun ha l’attenuante di aver messo in atto una lievitazione esponenziale, nel corso della manifestazione, di uno spirito di squadra che trascendeva la banale forza del gruppo); attendismo portato fino all’estrema conseguenza dei calci di rigore, il momento che meglio di ogni altro ha rappresentato il fatalismo nel quale il calcio africano ha dato l’impressione di versare.

 

Per rendere l’idea, basti pensare al percorse delle finaliste. Il Camerun è riuscito a imporsi nell’arco dei 90’ solo due volte su 5 partite giocate prima della finale (contro la Guinea-Bissau e poi in semifinale contro il Ghana); l’Egitto, dopo uno 0-0 deludente all’esordio, ha vinto sempre per 1-0, tranne che in semifinale con il Burkina Faso che l’ha costretto ai rigori, senza peraltro mai dimostrare di potersi spingere oltre la creazione di una o due occasioni da rete a partita.

 

 

Stagnazione

 

La stagnazione del calcio africano sta assumendo dei contorni patologici preoccupanti. Il processo di crescita si è arrestato, o forse non è davvero mai partito, ed è complicato mappare in maniera efficace tutte le componenti; per non parlare dello sforzo mostruoso che dovremmo fare nello scindere le problematicità veramente calcistiche dalle zavorre contingenti, e cioè dalle ingerenze politiche o economiche. Tutto ciò rende impossibile stilare una diagnosi per lo stato di salute del calcio continentale, figuriamoci una prognosi.

 

La mancanza di un apparato davvero professionistico si ripercuote sul livello tecnico generale del gioco: e non solo sui calciatori, ma anche sugli allenatori e di conseguenza sulla filosofia di calcio che si professa in Africa.

 

In un’intervista di Jonathan Wilson ad Avram Grant – una figura per molti versi archetipica dello scollamento, forse indotto o forse semplicemente endemico, dell’Africa dall’epicentro concettuale del gioco, cioè l’Europa – il tecnico israeliano del Ghana racconta come non può esserci crescita se non c’è contaminazione: «Ho fatto alcuni incontri con gli allenatori locali in Ghana», racconta, «e le domande erano pure buone domande. Ma potevi vedere che c’era una grande inesperienza, e questo dipende dalla mancanza di esposizione al mondo. Non è che non siano intelligenti: certi di loro lo sono, e molto, ma non sanno come si gioca al calcio e come ci si allena negli altri paesi».

 

Un esempio didascalico di confusione e mancanza di idee è in quest’azione di Bancé: prima esalta il cliché del giocatore di rottura, fascio inestricabile di connotazioni fisiche e atletiche; poi però sbaglia il passaggio in maniera ingenua, e nel punto più alto del suo egocentrismo non trova migliore soluzione offensiva di scaricare in porta un tiro pretenziosissimo. Un bignami del calcio visto in questa Coppa.

 

Liberarsi dai cliché

 

Se da una parte il talento, innestato in Europa, riesce spesso a vivere un processo sistematico di sgrezzamento e quindi di crescita, dall’altra è il gioco in sé, in Africa, che sembra risucchiato da una corrente che cerca di spingerlo verso una semplicità grezza.

 

Da un punto di vista strettamente calcistico, progredire significa arrivare a condividere un set di conoscenze che siano in grado di avvicinare l’Africa all’Europa, o alle Americhe. È solo progredendo che il calcio africano potrebbe svincolarsi da una serie di cliché incentrati sulla sua pochezza tattica, che non può essere dipinta come un genius loci impossibile da modificare.

 

Paulo Duarte, il tecnico del Burkina-Faso, dopo la prima gara ha detto: «Sfortunatamente i miei calciatori non hanno capito la strategia. Erano confusi». L’egiziano Elmohamady ha raccontato che Cuper, nella riunione tecnica prima della partenza, ha comunicato alla rosa che non sarebbero andati per giocare bene, ma solo per vincere.

 

Grant dice di aver scelto di allenare in Africa perché voleva «capire perché da tutto questo talento non si è riusciti a tirare fuori neppure un grande successo». E ciò che ha scoperto è che «nessuno ha talmente tanto talento da potersi permettere di vivere di solo talento».

 

Un motto dal quale, nonostante la consapevolezza della giustezza, affrancarsi è meno scontato di quanto sembri: soprattutto il Ghana, ma anche l’Egitto, hanno spesso dato l’impressione, piuttosto, di credere all’esatto contrario, affidandosi alle intuizioni dei fratelli Ayew (o alle folate di Salah) nella speranza che le loro stelle potessero brillare fino a contagiare il resto della squadra.

 

Nella nuova struttura della Coppa del Mondo, è probabile attenderci un’espansione dei posti a disposizione della CAF. Non è ancora chiaro quante delle 48 Nazionali saranno africane,ma è plausibile che i posti aggiuntivi per la confederazione continentale possano essere quattro, quindi una quota attorno al 20%.

 

Trovare oggi nove candidate credibili, non soltanto competitive ma anche capaci di rendere giustizia all’estetica, alla filosofia, agli aspetti più tecnici (e meno a quelli folkloristici) del gioco, sembra complicato. A giudicare da questa Coppa d’Africa, addirittura impossibile.

 

Forse la più grande sfida del calcio africano non è focalizzarsi su dove arrivare, ma da dove partire.

 

 

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Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.