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Illustrazione di Federico Manasse
NBA Lorenzo Bottini 20 febbraio 2018 12'

Collegiali: DeAndre Ayton

Nella nostra rubrica di avvicinamento al Draft, andiamo a scoprire pregi e difetti del talento dell’università di Arizona.

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Il prossimo Draft NBA 2018 si preannuncia pieno di talenti, specialmente nella top-5: con la rubrica “Collegiali” vogliamo farvi scoprire in anticipo i giovani giocatori che promettono di rubarvi il cuore negli anni a venire.

 

Nell’agosto del 2014 Roy Williams, allenatore dell’Università di North Carolina, organizza il viaggio estivo che ogni ateneo effettua ogni quattro anni nella paradisiaca cornice caraibica delle Bahamas. Per la nuova classe di UNC è l’occasione perfetta per sfoggiare i costumi blu-cielo e sfidare in ciabatte le mediocri rappresentative locali, di solito parecchi gradini sotto un programma d’élite della Division I. Invece la versione balneare dei Tar Heels viene malmenata da un ragazzo di soli 16 anni che chiude  con 17 punti e 18 rimbalzi: DeAndre Ayton appare sul palcoscenico del basket statunitense come un ologramma, uscito da non si sa dove. L’anno successivo quel ragazzo sarebbe diventato il miglior prospetto della nazione a livello di high school – non soltanto della sua classe, ma tra tutti quelli che dovevano ancora andare al college.

 

Nonostante venisse ritenuto da tutti un talento di-quelli-da-non-mancare-per-nulla-al-mondo, DeAndre però non riceve nessuna offerta dalle migliori università nazionali. La piccola scuola per la quale giocava all’epoca, Balboa City School a San Diego, non aveva mai formato un atleta di Division I e in molti avevano paura che i suoi corsi non sarebbero stati approvati dall’NCAA. Prima dell’arrivo di Ayton, Balboa non aveva neanche un programma sportivo, figuriamoci una squadra di basket: la prima viene cucita su misura per il giovane bahamense, che però intanto cresce a dismisura fino a sgualcire il suo nuovo vestito sartoriale. Diventato troppo grosso – fisicamente e simbolicamente – per quella piccola scuola, Ayton abbandona presto la dimensione familiare di Balboa per la competitiva Hillcrest Prep durante il suo anno da senior – dove per un paio di mesi divide il frontcourt con un’altra sicura scelta top 5 del prossimo Draft, Marvin Bagley, prima che questi a novembre si trasferisse a Sierra Canyon -, mettendo in mostra tutto il suo strabordante dominio viaggiando a medie di 29.2 punti, 16.7 rimbalzi e 3.8 stoppate a partita.

 

Numeri che non passavano inosservati davanti agli occhi di Sean Miller, che dalla vicina Tucson, dove in mezzo al deserto rosso sorge l’università di Arizona, prende nota e inizia un corteggiamento aggressivo, fatto di like tattici e DM ben oltre la mezzanotte. DeAndre decide di fare un salto al campus a due passi da casa e ne rimane piacevolmente impressionato (come avevo già scritto per Ben Simmons, i prospetti che vengono dall’estero non amano spostarsi troppo una volta atterrati in un luogo). Sotto la guida di Sean Miller, l’ateneo dell’Arizona è tornata ad essere una macchina del recruiting, proponendosi come il regno degli one & done sulla West Coast: dopo Aaron Gordon, Stanley Johnson e Lauri Markkanen, la classe che comprende DeAndre Ayton è la terza della nazione, a un’incollatura di distanza da Duke e Kentucky. Il pezzo forte è ovviamente il centro bahamense, che sbarca a Tucson tirato a lucido, con i deltoidi che sembrano disegnati da uno scultore neoclassico.

 

Arizona Junior

Le aspettative attorno a questo atleta che sembra estratto da un unico blocco di marmo sono enormi. I Wildcats, nonostante l’alto livello espresso nelle ultime stagioni, hanno costantemente mancato il bersaglio grosso, ovvero la partecipazione alle Final Four del Torneo NCAA. Il viaggio a San Antonio per l’ultimo weekend di marzo è anche l’obiettivo dichiarato di Ayton, che non nasconde di certo le sue ambizioni: vuole vincere il titolo NCAA ed essere il primo a stringere la mano ad Adam Silver nel Draft del prossimo giugno.

 

L’impatto con il college è stato molto positivo per Ayton, che ha chiuso in doppia doppia le sue prime partite con i Wildcats, come da tradizione giocate contro squadre modeste. Poi la squadra di Sean Miller si è imbarcata con destinazione Nassau, Bahamas, per l’annuale edizione della Battle For Atlantis. Nella sua città natale Ayton ha vissuto i primi momenti di difficoltà della sua carriera, con Arizona che ha perso tre partite in tre giorni contro NC State, SMU e Purdue in shocking fashion, come dicono in America. Arrivati nei Caraibi con il numero 2 del ranking vicino al nome, i Wildcats tornano nel deserto con la coda tra le gambe e unranked, una situazione praticamente mai accaduta prima. Un crollo verticale e inaspettato, imputabile più all’assenza di alcuni giocatori cardine (Rawle Alkins su tutti) e i sussurri provenienti dalle investigazioni FBI in corso piuttosto che alla inesperienza di Ayton, che invece si dimostra uno dei giocatori più regolari nel roster di Sean Miller. Infatti, appoggiandosi spesso e volentieri sul suo dominante freshman, dopo l’inizio turbolento Arizona mette a posto le cose nelle partite di Conference, veleggiando comodamente in cima alla Pac-12 e riconquistando posizioni in vista della Selection Sunday.

 

Una vetrina importante per il centro bahamense, che sta dimostrando quanto a volte bisogna credere all’hype: DeAndre Ayton è una macchina da 20+10 (viaggia a 19.5 punti e 10.7 rimbalzi di media) a cui aggiunge un assist e mezzo e quasi due stoppate a partita, tirando con un eccellente 60% dal campo. È il secondo freshman per Player Efficiency Rating (27.5) dopo Jaren Jackson di Michigan State ed è uno dei principali indiziati a stringere per primo la mano di Adam Silver nel prossimo giugno.

 

Se non lo avete mai visto prima, questa è una breve presentazione.

 

 

Misurato in 216 centimetri per 114 chili, Ayton è un perfetto ibrido tra il centro anni ‘90, imponente e dall’erculea potenza fisica, e il lungo moderno, agile e versatile, in grado di muoversi a suo agio anche lontano dal pitturato. È davvero un pacchetto full optional fatto di eleganza, coordinazione e wingspan chilometrico: associa un corpo statuario made in Wakanda alle qualità perimetrali ormai necessarie per un centro del terzo millennio, che deve saper muoversi da guardia e leggere il gioco come un playmaker aggiunto.

 

La scelta di Miller di giocare sempre con due lunghi, affiancandolo al senior serbo Dusan Ristic, sta forzando Ayton a sviluppare un gioco più elaborato, dando una nuova dimensione al suo talento. Nonostante la netta superiorità fisica, non è un giocatore che si esalta nello scontro corpo a corpo ma preferisce lavorare di fioretto, affidandosi al suo jumper dalla media distanza e all’agilità negli spazi stretti. Ama giocare fronte a canestro per poi scegliere se punire tirando sopra il proprio marcatore o attaccarlo sfruttando la sua esplosività. È già un attaccante di alto livello, capace di segnare a tutti e tre i livelli (al ferro, dalla media e oltre l’arco) con estrema efficienza: con 1.18 punti per possesso e il 63% di percentuale effettiva è nel 98° percentile offensivo della nazione, dimostrando che a volte i numeri servono solo a certificare uno strapotere già visibile a occhio nudo.

 

L’efficacia offensiva

 

Ayton è inarrestabile in situazioni di post-up, dalle quali arrivano quasi un terzo delle sue soluzioni offensive, sfruttando un vasto assortimento di movimenti potenti ed eleganti. Nelle ricezioni al gomito può scegliere come mettere in crisi esistenziale il diretto marcatore: la prima soluzione è quella di partire frontalmente, usando un lavoro di piedi che, pur necessitando di alcune limature, complessivamente è piuttosto avanzato per un ragazzo di 19 anni che ha iniziato tardi a giocare a basket.

 

 

Due partenze in post alto da far saltare la testa: la prima usando il corpo del difensore come il cardine di una persiana per poi concludere con la mano debole; la seconda battendolo con un trucco di magia eseguito con l’arroganza di chi stappa le Peroni con gli incisivi.

 

Su posizioni più profonde sfrutta il semplice fatto di essere più grosso di praticamente qualsiasi essere umano gli venga messo davanti, mangiando spazio con le sue spalle fino ad arrivare dentro il canestro. Da quella posizione non ha alcuna difficoltà nello spingere il malcapitato difensore fino a sotto il ferro per un comodo appoggio.

 

 

L’altra opzione che ha è quella di tirare direttamente sopra il difensore, una scelta che Ayton usa molto spesso, forse troppo spesso, accontentandosi di una soluzione che è ampiamente nelle sue corde ma che la difesa gli lascerà sempre con entusiasmo, invece di prendersi una schiacciata in testa. Il gioco di Arizona passa anche attraverso la sua capacità di spaziare il campo e quindi gli concede di prendersi tutti i tiri che vuole, giustificando in qualche modo la sua pigrizia. Finora Ayton sta tirando 23/48 dentro l’arco, dimostrando di poter essere un volume scorer in tale situazione di gioco, sia con i piedi per terra che ricevendo dopo il blocco Il suo jumper è già materiale pregiato per il livello superiore: il rilascio è alto e pulito, impossibile da disturbare per il difensore e allo stesso tempo troppo morbido per essere rifiutato dal ferro.

 

 

Ayton non tira molto da dietro l’arco – 29 triple prese e solo 10 mandate a bersaglio in stagione -, ma nonostante i numeri non lusinghieri c’è la possibilità che possa diventare una minaccia considerevole anche da quella distanza. La meccanica di tiro è più avanzata rispetto a quella dei suoi coetanei e rivali in vista Draft come Mo Bamba, Jaren Jackson e l’ex compagno Marvin Bagley, grazie a un movimento compatto, rapido e costante. A dare ulteriore forza alla convinzione che possa essere un tiratore anche al piano di sopra, Ayton realizza i suoi liberi il 75% – un riferimento sempre più utilizzato per misurare l’effettiva capacità dei prospetti al di là delle percentuali dall’arco.

 

 

 

Vedendolo infilare un tiro dopo l’altro non si può non sognare Ayton come il prossimo unicorno pronto ad infiammare l’NBA. L’hype per Joel Embiid, Kristaps Porzingis e altri giocatori fantastici ci porta a reagire in maniera sconsiderata a ogni talento sopra i due metri e venti che fa cose moralmente non giustificabili nei confronti degli avversari. Ayton sta mettendo insieme una stagione impressionante, ma quello che spaventa realmente sono i suoi margini di miglioramento.

 

Nonostante le sue impressionanti doti fisiche e atletiche, Ayton a volte è in difficoltà a finire dopo i contatti, come se non si aspettasse che esista qualcuno in grado di contrastarlo al ferro. Si fa ancora spostare troppo spesso una volta conquistata una posizione profonda e non ha ancora la forza nella parte alta del corpo per resistere contro i chili dei giocatori più esperti e pesanti.

 

La sensibilità nei polpastrelli lascia presagire che la qualità delle sue conclusioni salirà in breve tempo, mentre per trasformare il suo fisico già ai limiti della credibilità umana in qualcosa di ancora superiore servirebbe un effetto speciale in CGI. Prima di arrivare in Arizona, Ayton non aveva mai alzato un peso in vita sua e già la sua muscolatura raggiungeva gradi di definizione da libro di anatomia; ora, dopo sei mesi nelle mani di uno dei migliori centri per strenght and conditioning d’America, il bahamense ha portato la sua massa grassa ad un ridicolo 5.4%, giusto in tempo per la prova bikini della March Madness. Ci ha messo ancora meno a frantumare i record delle precedenti scelte al Draft NBA passate per la stessa facility, arrivando a spingere oltre 400 chilogrammi con le sue gambe di gomma.

 

Non sorprende poi che sia in grado di arrivare a spolverare il tabellone con la naturalezza di un rappresentante della Folletto.

 

 

Ayton è davvero un freak che trascende la categoria dei freaks, un atleta futuristico per fluidità, potenza e coordinazione. La sua falcata marziale da Prima Repubblica non deve però trarre in inganno, perché è piuttosto mobile sia lateralmente sia quando deve ricoprire tutto il campo in pochi passi. Non ha l’elasticità motoria di altri lunghi, ma è capace a cambiare sui giocatori perimetrali e tenerli di fronte per più di tre palleggi.

 

 

 

I dubbi difensivi

Come tutti le figure mitologiche, il suo tallone d’Achille è nascosto dove meno ce lo aspetteremmo: Ayton, nonostante la sua impressionante figura e i suoi mezzi atletici, è un pessimo rim protector, o almeno così dicono le statistiche. La sua percentuale di stoppate è al di sotto del 5%, praticamente in zona Jahlil Okafor tra i peggiori centri scelti in Top-10 di questo millennio e non intimidisce gli avversari al ferro come ci si aspetterebbe. Spesso sembra non essere coinvolto mentalmente nei possessi difensivi, specialmente quando si trova vicino al canestro invece che sul perimetro, e non ha gli istinti corretti per effettuare rapidamente una rotazione o muoversi attraverso il pitturato per alterare la parabola di un tiro. In alcuni momenti si avverte quanto i tempi della comprensione e della reazione di ciò che gli sta accadendo intorno siano separati, impedendogli di compiere una giocata sulla palla in tempo utile. Alcuni scout sono preoccupati dall’atteggiamento “da high school” di Ayton per quanto concerne la fase difensiva, come se non avesse la stessa importanza della metà campo offensiva.

 

Fin dall’inizio della sua carriera è cresciuto con la convinzione di essere un giocatore perimetrale e quest’idea infantile è stata accettata da molti dei suoi allenatori, buon ultimo Sean Miller che giocando con due sette piedi inefficaci nel proteggere il pitturato sta vivendo una delle peggiori stagioni difensive della sua carriera.

 

Le qualità difensive di un lungo sono diventate davvero il silver lining in fase di Draft: è ormai chiaro quanto i centri che fanno del gioco in post basso il loro unico punto forte siano sempre più ai margini della Lega, mentre sono sempre più richiesti quelli sulla falsariga dei Clint Capela. Ayton ha le qualità per essere qualcosa di più di un semplice realizzatore interno e un tiratore dal mid-range, mostrando qualità di passatore notevolissime quando si è trovato ad uscire dai raddoppi e ha i mezzi per essere un ottimo bloccante. Inoltre è un rimbalzista di alto livello, con capacità di recuperare il pallone anche fuori dalla propria area di competenza, saltando anche due o tre volte nello spazio di un battito di ciglia.

 

Allo stesso tempo bisognerà armarsi di pazienza e considerare quanto tempo sia necessario per trasformare un teenager appena uscito dal college in un’ancora difensiva in NBA. Karl-Anthony Towns, uno dei più brillanti talenti usciti dal college negli ultimi anni, sta facendo una fatica immane a inserirsi nello schema difensivo di Tom Thibodeau; Andre Drummond, al sesto anno da pro, sta finalmente confermando le aspettative riposte su di lui ai tempi di UConn. Entrambi erano più avanti di Ayton durante il loro unico anno di college, ma il prodotto di Arizona ha tutti gli strumenti fisici per diventare un difensore quantomeno accettabile, sperando in un suo contributo offensivo di altissimo livello.

 

Sarà davvero interessante capire quanto Ayton avrà la capacità di giocare stabilmente da 5 come il basket moderno imporrebbe o se avrà bisogno di condividere il parquet con un rim protector più tradizionale. Ovviamente questo modificherebbe profondamente le valutazioni dei General Manager in sede di Draft: un conto è avere un mostro capace di impattare su entrambe le fasi di gioco non inficiando sulle spaziature in campo, un altro è doverlo necessariamente affiancare ad uno shot-blocker e tornare indietro di vent’anni, congestionando gli spazi in attacco. Personalmente credo che qualsiasi squadra lo scelga tenterà in ogni modo a svilupparlo da centro perché nessuno vorrà rinunciare alle sue qualità in grado da sole di sbloccare un attacco, scommettendo che prima o poi quelle lunghissime braccia si trasformeranno in tentacoli.

 

Ayton è forse la scelta più sicura del prossimo Draft, specialmente tra le prime chiamate: è improbabile pensare che non avrà una carriera di alto livello in NBA, anche considerando quanto rapidamente cambiano gli skillset richiesti ai lunghi. Un sette piedi con quel corpo e quel range di tiro fa subito viaggiare la mente verso futuri lontani, in una versione Black Mirror di Space Jam in cui le jersey sono fatte in vibranio e ogni giocatore che non tira da quattro punti è considerato una seria liability per la squadra. Per ora DeAndre è un piccolo passo in avanti verso l’atleta definitivo, ma la strada da percorrere è ancora molta.

 

A volte sembra il personaggio di un videogioco in 8 bit, con le supermosse perfette ma a cui mancano le transizioni tra una e l’altra. Deve trovare un modo per essere costantemente coinvolto nel gioco, cosa non facile per un giocatore che supera i 215 centimetri, e dimostrare di poter mantenere un alto livello di concentrazione e impegno per tutti i minuti in campo. Ci arriverà, perché Ayton è un workaholic compulsivo, uno di quelli che non abbandona la palestra senza aver ricordato a tutti chi è il migliore lì dentro.

 

In un Draft pieno zeppo di lunghi che sembrano esperimenti della CIA, il giovane bahamense è qualcosa di raramente visto prima in natura. Prendendo in prestito le parole di Bill Walton, Ayton corre come un ghepardo, svetta come un’aquila, ha il footwork di una capra di montagna, ha la visione di un falco, schiaccia come un elefante e difende come un grizzly. Un incrocio tra David Robinson e Clark Gable pronto a dominare i canestri di tutto il mondo.

 

 

Tags : deandre aytondraft nba

Lorenzo Bottini nasce nel 1989 a Roma. Si laurea in Storia del cinema interessandosi soprattutto dei rapporti con i nuovi media. Folgorato sulla via di Detroit dai due Wallace, ritiene lo sport uno dei pochi modi rimasti per creare modelli comunitari.

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