
«L'ariete non gioca con lo scorpione, lo scorpione non gioca con il toro... Penso che ci creda, è strano». Sono le parole di Philippe Mexes contro il suo ex allenatore in Nazionale, Raymond Domenech, per alimentare la leggenda che lo vedeva scegliere le formazioni in base ai segni zodiacali. «Fa ridere anche solo chiedermelo», ha risposto tempo dopo Domenech: «Mai fatto una cosa del genere in Nazionale, come non ho mai badato ai tanti giornalisti che mi dicevano chi convocare. Quando allenavo il Lione però gli “scorpioni” li mettevo insieme nelle partitelle, per evitare problemi».
Non sapremo mai quanto c'è di vero in questa storia. Domenech, però, non sarebbe certo il primo ad usare metodi non convenzionali - chiamiamoli così - per decidere chi schierare. Nils Liedholm ad esempio si affidava all’astrologo Mario Maggi, soprannominato “il Mago”, a cui si rivolgeva per consigli sui giocatori. L’esempio più famoso è il derby nel novembre 1978. Totalmente a sorpresa Gianni Rivera non venne schierato tra i titolari, al suo posto Giovanni Sartori. Alcuni pensavano che fosse a causa di un infortunio tenuto nascosto. In verità, era stato il consiglio del "Mago". Il Milan, anche senza Rivera vinse il derby per 1-0 e a fine stagione cucì lo Scudetto della stella sulla maglia.
Sempre riguardo Liedholm, c’è anche l’esempio di Giorgio Biasiolo, centrocampista da oltre 200 presenze con il Milan che venne ceduto senza troppo preavviso nell’estate del 1977. «In seguito ho saputo che era stato "il Mago" a dirgli che sarebbe stato meglio non contare più su di me», ha raccontato Biasiolo.
Prendere una decisione di calciomercato seguendo l’astrologia oggi ci appare chiaramente discutibile. Ma provare a trovare un senso che vada al di là, o più in profondità, di ciò che vediamo con i nostri occhi durante una partita è una costante dell'esperienza umana. E se oggi guardiamo all'utilizzo di maghi e astrologi come si guarda all'utilizzo delle sanguisughe in medicina, è giusto avere un occhio critico anche su quello che oggi consideriamo lume della ragione e illuminismo, come l'utilizzo dei dati in sede di calciomercato. Qualcosa che oggi è la base per ogni squadra organizzata che non vuole finire preda degli agenti dei giocatori e su cui pure i punti di vista sono molto diversi.
LA NEW WAVE STATISTICA IN INGHILTERRA
Negli ultimi dieci anni, dal Leicester al Southampton fino ad arrivare al Bournemouth e al Brighton, i piccoli club di successo in Premier (ma non solo) hanno creato un reparto dedicato ai dati per avere un approccio diverso nello scouting. Il titolo vinto dal Leicester di Ranieri con giocatori ignorati dai grandi club come Mahrez e Kanté fece scuola, al tempo.
Certo, da fuori è difficile stabilire quanto peso abbiano avuto effettivamente i dati nel prendere le decisioni, perché i club sono spesso galassie di molte persone che hanno pesi diversi quando si tratta di prendere delle decisioni in sede di calciomercato. Non è facile ricostruire, in altre parole, se i dati raccolti sono stati davvero dirimenti in una decisione o se sono serviti solo a suggellare una decisione già presa. È innegabile però che negli ultimi anni le scalate nella classifica di Brighton e Brentford siano state strettamente legate al modello di scouting improntato sui dati. I proprietari del Brentford e del Brighton provengono entrambi dal settore del gioco d'azzardo e non hanno fatto mistero di aver trovato nell’uso dei dati il segreto del loro successo.
Il Brentford ad esempio ha usato i dati per identificare talenti sottovalutati in campionati minori che possedevano caratteristiche statistiche molto specifiche (per esempio outlier negli Expected Goals o nelle pressioni compiute) che reputavano in linea con lo stile di gioco di Thomas Frank, poi diventato allenatore del Tottenham.
D'altra parte, in un ambiente ultracompetitivo come la Premier League ogni piccolo vantaggio competitivo può essere decisivo nella corsa darwinistica verso la cima della classifica, e ormai i dati lo sono anche per le grandi. È piuttosto noto il caso del Liverpool di Klopp, e di quanto siano stati importanti i dati nel creare quella squadra. Il suo esempio ha creato oggi una vera e propria corsa agli armamenti tra le grandi della Premier per provare a seguire quella squadra.
Solo nell’ultimo anno l'Arsenal ha reclutato Karun Singh, che sta costruendo un modello di deep learning del calcio, mentre proprio il Liverpool ha preso il data analyst Laurie Shaw dal Manchester City. Secondo il sito Training Ground Guru ci sono almeno sette data scientist nel team di Michael Sansoni al Manchester United, mentre il Chelsea ha assunto Javier Fernandez, ex Barcellona con un dottorato in intelligenza artificiale, come responsabile dei dati. Nel Newcastle il nuovo direttore tecnico è Sudarshan Gopaladesikan, ex "mago dei numeri" nell’Atalanta. Trovare squadre in Premier League che non si affidano in una certa misura ai dati per fare il calciomercato è sempre più raro.
Ogni squadra ha una sua metodologia e un diverso peso che il reparto scouting dà ai dati. I club possono scegliere di appoggiarsi ad una società terza per utilizzare la loro piattaforma o più raramente costruirsi un proprio reparto interno. Insomma si possono comprare o raccogliere direttamente statistiche classiche come cross o contrasti, o fisiche come il numero di sprint, oppure algoritmi più complessi, creati per ricavare indici di più dati aggregati. Un esempio è l’OBV (l'On-Ball Value creato da Hudl StatsBomb).
I dati servono a fare una prima scrematura tra i profili che si intendono seguire oppure per comparare giocatori diversi di cui si conoscono già le caratteristiche. Per esempio, possono servire per avere una lista di profili simili a un giocatore che è stato appena ceduto oppure per capire quale giocatore sia il migliore per il gioco del proprio allenatore. I dati insomma possono far da incipit a una ricerca oppure da guida in una scelta. La grande differenza sta nel peso che poi l’area dirigenziale dà all'input che arriva dall’area dati ed è qui sta la differenza principale tra i vari club, più che nell'utilizzo dei dati in sé.
Ci sono i casi estremi come quello del Midtjylland, una squadra danese che cerca di creare profitto attraverso il player trading - cioè la rivendita di giocatori acquistati a basso costo per generare plusvalenza. In questo processo i dati sono decisivi proprio per individuare giocatori che l'occhio degli scout forse ha un po' sottovalutato. Il Midtjylland utilizza i dati anche per prendere decisioni in altre aree, oltre al calciomercato. In questa stagione, nonostante i risultati positivi e dopo appena sette giornate di campionato, per esempio ha esonerato l'allenatore Thomasberg dopo una vittoria per 3-1 in uno scontro diretto per il titolo e ha ingaggiato al suo posto il più giovane Mike Tullberg dal Borussia Dortmund. Il Midtjylland con Tullberg ha perso la partita successiva ma è ancora presto per dire che sia stata davvero la scelta giusta.
Ma torniamo al caso storico del Liverpool e al caso, diventato di scuola, dell'acquisto di Salah. «Klopp aveva molta voce in capitolo sugli acquisti e quell’estate voleva Brandt, per il suo grande talento e l’attitudine che aveva mostrato già in giovane età», ha raccontato Ian Graham, ex chief data analyst del Liverpool di Klopp all’evento di TransferRoom di questo novembre a Lisbona. «Noi, grazie al nostro sistema di analisi dei dati, abbiamo concordato con lui che il giocatore dovesse essere certamente inserito nella shortlist di quattro giocatori come possibile rinforzo in quel ruolo. Secondo noi però non era l’opzione numero uno. Salah aveva dei valori migliori in ogni categoria. Jurgen è stato bravo a farsi convincere e a convincere a sua volta la proprietà che Salah fosse la scelta migliore nonostante il suo passato di scarso successo al Chelsea. La realtà è che in Serie A stava facendo benissimo e che anche in Inghilterra non aveva giocato affatto male. Aveva solo giocato poco, che è diverso. Ma in quel Chelsea era difficilissimo trovare spazio: anche De Bruyne e Lukaku avevano pochissimi minuti. Quindi, in verità, non serviva un genio a capire che Salah fosse forte. Ma i dati hanno certamente aiutato a "giustificare" anche agli occhi della proprietà americana l’investimento di oltre 40 milioni su di lui invece che su Brandt, quattro anni più giovane».
IL DIBATTITO IN ITALIA
Durante la pausa per le Nazionali di novembre, proprio nello stesso periodo della conferenza di Graham, si è tornato a parlare dell’uso dei dati in sede di calciomercato anche in Italia. Ne ha parlato per esempio Damien Comolli, nuovo dirigente della Juve, al Hudl Performance Insights 2025, conferenza sull’uso dei dati che si è tenuta a Londra. Comolli, già noto per il suo entusiasmo nei confronti delle statistiche, ha detto che con il suo arrivo la Juve cambierà stile gestionale e si farà guidare dai dati in tutte le scelte chiave. D'altra parte, il dirigente francese ha lavorato a stretto contatto con la Premier League (prima come osservatore nell’Arsenal con Wenger, poi come DS sia del Tottenham che del Liverpool) e prima di arrivare in Serie A era stato scelto dal fondo d'investimento RedBird per guidare il Tolosa in Francia.
Damien Comolli ha detto che si affida ai dati per praticamente tutti gli aspetti decisionali, dalla scelta dei giocatori, ai calci piazzati, alla prevenzione degli infortuni. E che anche l’allenatore della Juve, chiunque egli sia, deve abbracciare questa filosofia, ha dichiarato.
Quando parla Comolli sembra un positivista di fine Ottocento, una persona affascinata dall’idea di progresso tecnologico come risposta ad ogni problema. Secondo lui, per dire, persino la personalità di un giocatore si può capire dai dati, da quante volte tocca palla (anche se persino lui ammette che c’è una linea sottile tra volere la palla ed essere egoista). Comolli ha anche detto che storicamente si reclutano giocatori nati nella prima parte dell’anno ma che secondo i dati i giocatori che arrivano in alto spesso sono quelli nati nella seconda. Secondo alcuni questo dipende dal fatto che chi nasce più vicino alla fine dell'anno viene iscritto un anno più tardi alle scuole calcio, risultando avanti rispetto al resto dei compagni per sviluppo fisico e neurologico, ma Comolli non sembra uno che si ferma davanti al dubbio. Al Tolosa, ha dichiarato, reclutava la maggioranza dei giovani nati dopo il mese di agosto.
Quanto l'utilizzo dei dati sia un vantaggio continua comunque ad essere oggetto di dibattito. Ian Graham, una volta andato via dal Liverpool, ha scritto un intero libro su come, a suo parere, la fiducia nei dati sia uno dei segreti dietro al successo dell'era Klopp. Lo stesso Graham però ammette che non era certo un metodo perfetto e elenca i nomi dei giocatori che hanno reso meno di quanto i dati avevano fatto sperare: Iago Aspas, Mario Balotelli e Naby Keita.
«Keita era un giocatore che amavo», ha detto Graham «Lo abbiamo pagato 60 milioni dal Lipsia: aveva numeri perfetti e uno storico di infortuni quasi nullo. E invece non è mai riuscito a entrare veramente nelle rotazioni. O almeno non quanto avevamo pensato. Ogni volta che giocava un buon filotto di partite aveva qualche problema fisico: impronosticabile, non ne aveva mai avuti prima. Eppure nel calcio c’è anche questo: i dati sono un grande aiuto, ma non sono infallibili».
La sicurezza che un profilo funzioni in una nuova squadra non può esistere, ovviamente: c’è sempre una dose di rischio, anche utilizzando i dati. Proprio il Liverpool in questa stagione ci dimostra che pur spendendo cifre enormi e avendo il sostegno dei dati si può andare incontro a stagioni disastrose. I tanti nuovi arrivati hanno rotto una squadra che aveva trovato un equilibrio quasi perfetto e peggiorato anche la resa di chi già c’era. Mi viene da dire che il calcio non è Football Manager se lo stesso Football Manager non fosse ossessionato dal realismo.
Proprio negli stessi giorni delle parole di Comolli, quasi fosse stato fatto apposta, su The Athletic è uscita un’intervista al presidente del Como, Mirwan Suwarso, che a sua volta ha parlato di come il suo club utilizza i dati. La squadra di Fabregas, a detta di Suwarso, li usa per avere una prima selezione dei profili, perché ha un’idea precisa di come l’allenatore metterà in campo la squadra e cosa chiede ai singoli ruoli. Per dire, è chiaro che per il Como il dribbling sia alla base della selezione dei profili offensivi da parte dell’area scouting. In ogni caso, l'input dell’area tecnica è ancora preponderante per la decisione finale. «A volte avevamo un giocatore segnalato dal reparto dati. Secondo i nostri dati quel ragazzo non era abbastanza bravo. Ma poi Cesc diceva: "No, no, è perché gioca in modo diverso. Con noi giocherà così, così e così... e posso dimostrare che i dati sono sbagliati. Non sarà come dicono i dati"».
Suwarso fa l’esempio di Lucas Da Cunha, che era stato definito un'ala e per questo, in base alle statistiche che di solito si utilizzano per valutare le ali, messo in fondo alle liste dagli scout. Fàbregas però considerava Da Cunha un centrocampista centrale, dove le caratteristiche più importanti sono molto diverse.
«Lo abbiamo comprato per 250mila euro e ora abbiamo offerte per 15 milioni. È tutto merito di Cesc. A volte i dati sembrano negativi, non perché il giocatore non sia bravo, ma perché ricopre un ruolo o si trova in un contesto sbagliato. Ecco perché è così importante avere nel proprio club persone che capiscano il gioco e sappiano riconoscere il vero valore di un giocatore, anche quando viene utilizzato nel ruolo sbagliato. Questi sono i tipi di giocatori che si possono prendere a poco e rivendere a tanto».

Guardando ora le statistiche di Da Cunha si può vedere come sia un profilo statistico che si sposa benissimo per essere un centrocampista del Como (non perde palla, la recupera subito ed è preciso nei passaggi) ma che non potrebbe essere altrettanto efficace come ala visto che gli manca lo spunto nel dribbling vero e proprio (facile adesso, mi direte). Insomma, Fàbregas ha visto delle potenzialità che dai dati non potevano uscire fuori quanto le debolezze che lo penalizzavano.
«Il futuro dei dati, con o senza intelligenza artificiale, è misurare le ideali connessioni tra gli 11 giocatori. Se capiremo chi si connette meglio con chi, cambieremo tutto», ha detto Comolli, promettendo un futuro in cui i big data permetteranno in sostanza di sostituire quello che ad oggi è uno dei fattori decisivi per chi prende decisioni. Chissà magari un giorno riusciranno davvero a sostituire l'intuizione di Fàbregas e non so se potremo considerarla una buona o una cattiva notizia.
Ne ha parlato anche Pep Guardiola nel salotto di Valdano, che gli ha chiesto proprio quanto i big data oggi condizionano il lavoro di un allenatore. «I dati aiutano come un’informazione aggiunta in più, ma prendere tutte le decisioni con i big data ti fa perdere la sensibilità nell’intuizione che un allenatore deve avere. I big data non ti possono dire che aria si respira nello spogliatoio, con che aria si sono allenati prima di una partita, che aria ha un giocatore che ha avuto problemi personali a casa. Ti possono aggiungere informazioni per avere una base, però c’è una cosa hanno gli allenatori che è l’olfatto e la vista del campo e questo non è riproducibile. Quante volte ho scelto un giocatore invece che un altro o un modo di giocare invece che un altro per quello che ho visto in allenamento, nello spogliatoio. Può succedere che un difensore centrale è più forte singolarmente che una coppia di altri due centrali messa assieme, ma quella coppia gioca meglio perché si connette e la relazione tra i due ti porta a maggiore sicurezza».
L’occhio clinico lo chiama Valdano, che deve essere il pilastro decisionale, rispetto al dato quantitativo che ti possono dare i big data. Che però ti danno la sensazione di poter controllare meglio i tantissimi fattori che entrano in gioco nel calcio.
Le statistiche, in questo senso, hanno un fascino seducente. Come le sirene promettevano a Ulisse di "sapere più cose" (almeno come riportato nel mito antico), i dati promettono di darti talmente tante informazioni da poter prevedere quello che succederà. Le cose, lo sappiamo, spesso però non rispettano quello che ci aspettiamo da loro, e questo alla fine può essere anche una buona notizia, almeno per chi è in grado di leggerla.