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Marco D'Ottavi

Alzati e cammina vol. 2

Da Giuseppe Rossi ad Alberto Paloschi: giocatori a cui serve il miracolo, edizione 2017.

Risurrezione

Risurrezione
ri·sur·re·zió·ne/
sostantivo femminile

 

Per onorare la Pasqua 2016 scrissi di quei giocatori che potevano – o che almeno meritavano di – risorgere, così come accaduto a Nostro Signore circa duemila anni fa. Una Quaresima dopo, molti di loro risultano ancora sportivamente morti, ma alcuni, se non proprio risorti, hanno risollevato le proprie carriere dal fango almeno un po’: Fernando Torres ha vissuto un grande finale di stagione lo scorso anno e ancora trova spazio e qualche gol nell’Atletico Madrid, Quagliarella si è riscattato come uomo (quanto è cristologica la sua storia?) e anche Macheda – chi lo avrebbe mai detto – è tornato tra noi indossando la maglietta del Novara (in alcuni casi bisogna accontentarsi).

 

Perché sia bene augurante vale la pena onorare anche questa di Pasqua scandagliando l’abisso di quei giocatori che crediamo finiti, che si credono finiti, che invece no, forse, insomma, dai che se ti sforzi puoi dare ancora qualcosa a questa religione bellissima chiamata pallone.

 

 

 

Giuseppe Rossi

Giuseppe Rossi è Gesù Cristo se solo si fosse rotto i legamenti del ginocchio per cinque volte camminando sulle acque. Nei momenti integri ha compiuto veri e propri miracoli come realizzare 3 reti alla Juventus di Buffon, Barzagli, Bonucci e Chiellini in 15 minuti; salvare il Parma dalla retrocessione non ancora ventenne con 9 gol in 19 partite o segnare un gol a partita prima che Higuain la facesse sembrare una cosa semplice.

 

Giuseppe Rossi è stato un’eterna promessa di felicità senza lieto fine. A differenza di molti altri casi simili, però, per lui è stata tutta una questione di sfortuna: non è colpa della testa o dell’attitudine, ma sono i limiti fisici che ci hanno impedito di vederlo brillare quanto avrebbe meritato. Se infatti l’integrità è parte della carriera di un calciatore, la rottura dei legamenti è un episodio violento come una crocifissione senza colpe. Giuseppe Rossi è Cristo dove accanto a lui Cassano e Balotelli sono i ladroni: tutti meritano il paradiso, ma solo lui merita di risorgere.

 

Contro l’Eibar si è rotto nuovamente il crociato, questa volta il sinistro. Dopo l’ennesima operazione lo aspettano altri lunghi mesi di stop, altro dolore, altra fisioterapia, altra paura di un contrasto. Ma tutti tifiamo per lui: se Cristo ha potuto catechizzare i suoi discepoli per un’ultima volta, perché Giuseppe Rossi non dovrebbe poter segnare di nuovo alla Juventus sotto la Fiesole?

 

Paul Pogba

 

Non lo sapevi, Paul, che era così facile morire? Morire a ventiquattro anni inchiodato su di una croce costata 105 milioni di euro? Morire perché non sei stato il miglior giocatore del mondo, quando il prezzo del tuo cartellino diceva il contrario. Perché tornare a casa sarà anche bello, ma mica è facile, nessuno ci ha raccontato la seconda parte della parabola del figliol prodigo, quando si trova invischiato in una squadra mal costruita. Paul Pogba è morto, o forse ha scelto di morire, perché anche il calcio ha bisogno dei suoi martiri, meglio se cambiano taglio di capelli tutti i giorni e fanno la dab.

 

 

Se non è ancora davvero morto, sta di certo morendo un’idea che abbiamo di lui, un’idea di grandezza che si era costruito durante gli anni alla Juventus. Possiamo pensare che sia diventato uno dei migliori giocatori al mondo per puro caso, perché quella era la Juventus, il campionato scarso, i compagni forti, la stampa amica, eccetera eccetera e che ora la Premier l’abbia rimesso al suo posto; oppure possiamo guardare oltre l’astio che possiamo avere per lui: Pogba ha lavorato duramente, più duramente di altri, perché il talento è un soffio, il fisico non cresce sugli alberi e i numeri non mentono e non mentiranno.

 

 

 

Ogni piccolo passo falso di Pogba allo United è stato amplificato. La sua stagione, non così negativa, è diventata il pretesto per ogni tipo di sberleffo. Che doveva essere Kantè quello a costare tutti quei soldi, che Marcos Alonso ha segnato più gol in Premier, che pensa solo a ballare, addirittura Mourinho – il suo più strenuo difensore – lo ha accusato di pensare troppo alle emoji, come se fosse una cosa possibile. Eppure Paul rimane dritto, a prendersi tutte le offese che Cristo sì è preso mentre portava la croce sul Gòlgota, perché tanto lo sa: col tempo e col lavoro tornerà ad essere il giocatore incredibile che abbiamo visto in Serie A e – soprattutto – mancano solo tre giorni e qualche altro povero Cristo si beccherà la croce del giocatore più pagato della storia.

 

Alessio Cerci

Voglio davvero che Alessio Cerci risorga? Non lo so, però mi sforzo di essere un buon cristiano (anche se da questo articolo non si direbbe) ed essere fedele al motto “ama il prossimo tuo come te stesso, anche se questi dovesse essere Alessio Cerci”. C’è infatti del masochismo nell’essere disinteressatamente benevoli verso un giocatore che ha fatto di tutto per lasciarsi dietro solo nemici, anche dove ha fatto bene.

 

Non lo sapeva Cerci, ma la folla ha scelto lui al posto di Barabba quando ha lasciato scrivere alla fidanzata “Saluti Serie A, noi ce ne andiamo nel calcio che conta”. Il calcio che poi l’ha ha messo sulla croce, per mano di Simeone, che non lo ha neanche visto; per mano del Milan, che l’ha allontanato, per mano di tutte le squadre che potevano prenderlo in estate, ma non lo hanno preso; per mano propria, evidentemente, perché ha pensato di valere più di quello che vale veramente, l’Henry di Valmontone.

 

 

Per risorgere, però, servono le occasioni: nel recente derby contro il Real Madrid, sotto di un gol e pieno di infortunati, Simeone aveva deciso di affidarsi ad Alessio, che prima di quel momento contava solo 29 minuti in Coppa del Re contro una squadra di terza divisione. Lo ha mandato a scaldare, gli ha dato le indicazioni del caso, lo ha caricato come immagino Simeone carichi chiunque debba mettere piede in campo per la sua squadra, anche se questi è Alessio Cerci. Insomma aveva fatto tutte quelle operazioni propedeutiche l’ingresso di un calciatore quando Griezmann, uno chiamato il piccolo diavolo mica per caso, ha segnato il gol dell’uno a uno, rimandando la resurrezione di Cerci. Nell’ultima partita dell’Atletico, sul 3 a 0 al novantesimo, hanno preferito far tirare un rigore a Thomas che affidarsi a lui, quindi direi che la resurrezione di Cerci all’Atletico non sembra prossima.

 

Cerci è un Cristo un po’ sfortunato, nel senso in cui la sfortuna te la devi andare a cercare tanto quanto la fortuna. Un Cristo che deve ripartire dal calcio che conta meno, ripulirsi l’ego, magari iniziare ad usare anche il destro, trovare la piazza adatta a lui, una piazza dove se possibile non lo odiano, dove lo prendono per quello che è: un Cristo antipatico, ma con un sinistro di Cristo.

 

Marko Marin

Probabilmente non ve lo ricordate, ma c’è stato un momento in cui potevamo inserire Marko Marin ed Edin Hazard all’interno dello stesso discorso senza essere presi per pazzi. Succedeva neanche troppo tempo fa, nell’estate del 2012, quando entrambi venivano acquistati dal Chelsea fresco campione d’Europa con l’etichetta di nuovi Messi nel limite in cui quello che facevano tutti e due era accelerare, saltare l’uomo, partire dall’esterno per accentrarsi e creare gioco, essere bassi.

 

 

Oggi c’è un oceano tra Hazard e Marin, con il primo che si è realmente avvicinato a Messi – per quanto sia possibile avvicinarsi a Messi – mentre l’altro è impegnato nella Via Crucis del suo talento sprecato, o forse è più corretto dire scomparso, o ancora meglio dire mai avuto davvero, che lo scarto tra queste tre possibilità è davvero poco. Mentre la generazione di talenti tedeschi cresciuta insieme a lui vinceva Champions League e Coppe del Mondo, Marko Marin girava l’Europa come loan player del Chelsea: prima a Siviglia per diventare uno dei soli tre calciatori a vincere l’Europa League consecutivamente con due maglie diverse (sai che record se non giochi); poi la Fiorentina, senza che Montella ne sapesse nulla, dove viene trattato come un Paria. Fino a scavare sempre di più: Anderlecht in Belgio e Trabzonspor in Turchia, senza mai lasciare il più che minimo segno del suo passaggio.

 


L’ultimo momento in cui Marko Marin era un giocatore vivo.

 

Quest’anno Marin si è definitivamente liberato del giogo del Chelsea per firmare con l’Olympiakos. Un calciatore tedesco che va in Grecia per ritrovarsi, sembra la trama di un film di Wim Wenders. Forse a 28 anni Marko Marin può davvero risorgere, se non come nuovo Messi, almeno come nuovo Marko Marin, lontano dalle luci, dalla ribalta. Guadagnarsi da vivere dribblando terzini greci che cercano di fargli saltare le caviglie, ma farlo per davvero, come a vent’anni quando solo Robben saltava più avversari di lui.

 

Alberto Paloschi

Chissà cosa pensa Alberto Paloschi ogni domenica mentre guarda Andrea Petagna vivere la vita che doveva essere la sua. Messo in croce da uno che è il suo esatto opposto, a volerli mettere uno accanto all’altro. Uno che gioca nel ruolo di Paloschi, ma che non è Paloschi, non fa gol come Paloschi, che ha spedito in rete il primo pallone toccato in Serie A.

 

Chissà cosa pensa del fatto che tutti e due erano promesse del Milan, ma che mentre lui si è dovuto fare la gavetta – tutta la gavetta – una vita di gavetta, l’altro si è preso la testa della squadra più fresca del campionato dopo aver sparacchiato qualche pallone in Serie B. Che mentre lui ha passato tutta la vita con l’Under 21 senza mai andare coi più grandi, all’altro è bastato pesare quanto un piccolo trattore per esordire in Nazionale. Chissà se lo sa Paloschi di essere morto quando ha pensato che Swansea fosse meglio di Chievo per uno che c’ha scritto Paloschi dietro la schiena. Che alzarsi e vedere l’Oceano è meglio di alzarsi e vedere Pellissier.

 


Lo so che è difficile ammetterlo, ancora più difficile farlo, ma Alberto, capisci a me, nel mondo c’è anche gente che per risorgere deve andare fino a Chievo, frazione di Verona.

 

Juan Manuel Iturbe

Se Gesù Cristo ha predicato per 3 anni, Juan Manuel Iturbe lo ha fatto per uno solo. La sua carriera dopo il primo ottimo anno a Verona sembra finita tra le mani di Kafka. Iturbe si è perso nel labirinto delle responsabilità, dopo essere stato oggetto del contendere tra Roma e Juventus, con i giallorossi che l’hanno reso uno degli acquisti più costosi della loro storia. Dopo il primo gol in Champions alla prima presenza, dopo un gol proprio alla Juventus che lasciava presagire che fosse solo questione di tempo per Iturbe di sbocciare come sbocciano quelli come lui, Iturbe si è inceppato.

 

Il suo calcio è diventato un calcio della paura, ogni sua giocata rimanda un senso d’ansia così forte che semplicemente non possiamo accettarlo da un calciatore professionista.

 


L’esultanza particolarmente disperata, i compagni che lo celebrano come un figlio, le lacrime: nella spirale di Iturbe il gol nel derby è la speranza di resurrezione rimasta tale.

 

La Roma ha provato a liberarsene prestandolo al Bournemouth, ma neanche la Premier l’ha riportato tra noi (strano). Eppure non sembra esserci nulla che non vada in Iturbe, o almeno nulla che non vada nelle cose che ci aspettiamo da un calciatore. È riuscito a mandare in confusione anche Spalletti, che in questa intervista ben sintetizza lo scarto tra l’Iturbe giocatore in allenamento e quello che poi effettivamente scende in campo. Anche se forse anche l’Iturbe in allenamento…

 

A gennaio hanno pensato che la persona adatta a rimettere in sesto un giocatore psicologicamente finito fosse Mihajlovic, che è come spararsi in testa per curare il mal di testa: magari riesce però… Anche questo tentativo non sembra essere andato a buon fine: dopo qualche prestazione decente, Iturbe si è fermato per un infortunio, ed è probabile che in estate torni mestamente a Roma, dove non sembra esserci un posto per lui se non sull’affollata croce degli acquisti sbagliati dei giallorossi, un genere letterario profondo e variopinto, ma che non possiamo augurare al povero Juan Manuel.

 

Credere nella resurrezione calcistica di Iturbe richiede una grandissima fede. Ma non è poi la fede il motore principe del nostro amore per questo sport? Tifare per Iturbe, ma anche per Rossi o Marin o Paloschi vuol dire tifare per il calcio, per quella mistica che lo avvolge e che non è sempre facile catturare; tifare l’idea che non esistano punti di non ritorno, ma solo miracoli da aspettare comodamente sul divano.

 

 

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Marco D'Ottavi è nato a Roma, fondato Bookskywalker e lavorato qui e là.