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Alessio Di Chirico combatte meglio nelle difficoltà
02 mar 2021
02 mar 2021
Un'intervista al fighter romano, finalmente sereno.
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Un uomo entra in un bar e chiede: «Salve, vorrei un calcio in testa». L’ho fatto davvero, ho usato questa battuta scema per salutare Alessio Di Chirico, che qualche settimana fa ha abbattuto Joaquin Buckley con un calcio in testa, nella serata più importante della sua vita professionale. Di Chirico, alla cassa del bar di proprietà della famiglia della compagna, da cui ha avuto un figlio un anno fa e ne aspetta un’altro tra poche settimane, mi ha sorriso interdetto, poi si è scusato di non avermi riconosciuto con mascherina e zuccotto. È fine febbraio e a Roma è arrivata l’ultima – si spera – ondata di freddo dell’anno. È mattina presto e, dato che il bar è davanti a una scuola elementare, c’è molto via vai. Prati è un quartiere borghese, di professionisti, Di Chirico è gigantesco e la pedana della cassa lo rende ancora più enorme, in tuta della UFC stona un po’ con l’ambiente. Mi chiedo quanti clienti abbiano idea di quale sia la sua prima occupazione, la sua identità segreta.

Alessio Di Chirico è, insieme a Marvin Vettori, il volto delle MMA italiane, l’eccellenza di uno sport di cui si parla ancora poco e male, se non addirittura malvolentieri. Uno sport che, anche al massimo livello, è fatto soprattutto di sacrifici. Oggi Di Chirico è rilassato e sereno, ma ha passato un periodo difficile. Nei due anni che separano questa intervista da quella precedente, sono successe molte cose: ha perso due incontri, poi è arrivata la pandemia, si è separato dal suo team e dal suo allenatore, ha lasciato la palestra che aveva fondato, e poi ha perso un terzo incontro, la scorsa estate. «Prima di tutto c’erano difficoltà economiche. Non combattevo da agosto, non avevo neanche più la palestra, o il sostegno di Stato durante il lockdown. A Natale hanno chiuso anche i bar… insomma il conto andava giù, allora ho chiamato il manager e gli ho detto: “Senti mi riesci a far combattere, mi servono soldi?”».

Con tre “L” consecutive e un record complessivo in UFC di 3 vittorie e 5 sconfitte, è arrivato a un passo dall’essere tagliato dalla promotion. Quando gli è stato proposto, Joaquin Buckley era uno dei combattenti con più hype nei Pesi Medi, autore del KO più spettacolare del 2020, un calcio girato volante che lo ha reso famoso. Era chiaro che si trattava dell’ultima possibilità per Alessio, e che, nei piani della UFC, l’incontro non doveva servire a rilanciarlo quanto, semmai, a consolidare le aspettative del fighter americano.

Ma Di Chirico in quel momento avrebbe accettato qualsiasi incontro. Se l’UFC glielo avesse proposto avrebbe combattuto a mani nude con un orso polare. «Sì, avrei accettato qualsiasi cosa. Ho chiamato subito Michele (Verginelli, il suo allenatore, ndr) e gli ho chiesto se sarei riuscito ad arrivare in forma. Lui è stato super motivante, mi ha detto: “Questa è la nostra occasione, ce la dobbiamo fare”».

Jeff Bottari/Zuffa LLC

Avevano meno di un mese per prepararsi, in mezzo a mille difficoltà dovute al momento storico in cui ci troviamo, tipo le zone rosse: «Se mi avessero fermato, che ne so, il 6 gennaio, mi avrebbero fatto una multa così. Che ti garantisco in quel periodo sarebbe stato un problema. Ma non mi hanno fermato per fortuna». Le MMA sono, ovviamente, uno sport dove non conviene ammettere debolezze, ma Di Chirico ha sempre fatto eccezione. Anche prima dell’incontro, ad esempio, non aveva nascosto che affrontare Buckley lo spaventava: «Ho avuto una grossa paura, non mi vergogno a dirlo. Avevo paura che mi mandasse KO. Lo ha detto anche lui in un’intervista: Di Chirico è un fighter completo, tosto, ma ha dimostrato contro Cummings che non ha la mascella…».

Lo scorso agosto, nell’incontro con Zak Cummings, dopo tre riprese equlibrate e che sarebbero forse bastate a garantirgli la vittoria a giudizio dei giudici, Di Chirico è stato raggiunto da un calcio al volto giusto pochi secondi prima della campana. È caduto, l’incontro è finito e sarebbe potuto restare a terra, invece ha provato a rialzarsi subito ma le gambe non lo hanno tenuto ed è finito di nuovo in ginocchio. Alla fine ha perso per decisione unanime, anche se molti lo ricordano come un KO. «Mi ricordo dopo il match ho chiamato Sara (la compagna, ndr) che stava piangendo. Era scioccata. È stato brutto anche che mi sono rialzato, poi sono ricaduto, no? Anche per me, sentirla in lacrime, è stato brutto. Che poi io dopo quel match ero persino contento, perché almeno non avevo combattuto come contro Spicely (dove è stato finalizzato). Ero in una situazione analoga: avevo appena cambiato allenatore, team… ero contento di non aver fatto male male. Alla fine con Cummings sono riuscito a esprimermi, anzi se non avessi preso quel calcio alla fine avrei pure vinto il match».

Come detto, Di Chirico non s’è fatto sfuggire la sua ultima occasione, rubando la scena a Buckley con un calcio alto che lo ha spento dopo appena due minuti, è che gli è valso il suo primo bonus per la Performance of The Night. «Se non avessi vinto questo match sarebbe stata troppo pesante». Certo, la sua carriera di fighter non sarebbe finita, non esiste solo l’UFC. «No però, mi sarei tenuto dentro una grossa insoddisfazione. E poi te mi conosci, sai come sono andati i miei match… ma immagino magari mio figlio, un giorno, che magari lui è orgoglioso del padre che combatte e lo prendono per il culo… Adesso metto in campo anche il fatto che ho delle persone che dipendono da me. E quando uno combatte contro di me combatte anche contro di loro. C’è stata una svolta nella mia carriera, ora combatto anche per i soldi. Una cosa che se l’avessi pensata un giorno mi sarei fatto schifo da solo».

Una differenza che ho notato intervistando ogni tanto dei calciatori e ogni tanto dei fighter, è che se un calciatore può disinteressarsi totalmente del calcio una volta uscito dal campo, e non guardare neanche le partite dei propri avversari (recentemente tra l’altro Cristiano Ronaldo ha detto che se deve scegliere tra guardare calcio o MMA sceglie le seconde), tutti i fighter che ho incontrato sono degli studiosi minuziosi e ossessiva dell’arte del combattimento.

A un certo Di Chirico mi dice: «Hai visto il KO che ha fatto Gervonta Davies, che è mancino come Buckley? Secondo me Buckley voleva fare la stessa cosa». Ovvio che non l’ho visto. Me lo mostra sul telefono, ma io vedo solo un bellissimo montante sinistro, non capisco che intende. «Vedi che prima ci sono due diretti dell’avversario? Anche io avevo portato due diretti, allora lui voleva uscire e mettere il montante. Solo che nelle MMA lì c’è lo spazio per il calcio alto. Ci ho pensato mentre facevo una lezione privata. Ho fatto fare questa tecnica al mio allievo e mentre colpiva ho capito che magari era questo che voleva fare».

Il calcio improvviso che ha steso Buckley è arrivato come una manna dal cielo, ma già in passato, quando si è trovato spalle al muro, Di Chirico ha trovato una via d’uscita in modo creativo. L’altro highlight della sua carriera in UFC è arrivato contro Oluwale Bamgbose, con una ginocchiata al volto che ha chiuso il match nella seconda ripresa. Anche allora (era il dicembre 2017) Di Chirico veniva da una brutta sconfitta, quella con Eric Spicely, che aveva messo in discussione il suo posto nella più importante promotion mondiale. «Non lo so. Forse mi impegno davvero tanto quando si fa difficile. È una cosa intrinseca mia. Anche Alessio Fabbri, il mio mental coach, me lo dice: più la situazione è difficile più te sei fatto così. Infatti l’unico rimpianto che ho è quando, dopo il match di Bamgbose, il mio entourage mi ha spinto a rifiutare il match con Israel Adesanya, che mi era stato offerto. Il match che poi ha preso Marvin».

Al suo posto ci ha combattuto Vettori, che ha perso per decisione non unanime dopo un match tirato che ancora oggi è ricordato come uno dei più difficili per Adesanya, che nel frattempo è diventato il campione dei Medi (e sta per combattere un super-fight con il campione dei Massimi Leggeri). «È un’occasione che io sento di aver perso. L’ho raccontato al mio mental coach, con cui lavoro da un annetto, e insomma è stata una cavolata. Se vuoi combattere devi volerlo fare coi più forti no?».

Le MMA italiane vivono un curioso paradosso: se dall’esterno sono demonizzate con discorsi vecchi di almeno trent’anni, internamente sono spaccate da continue faide e antipatie. Una sorta di tutti contro tutti che proietta nelle arti marziali le abitudini del tifo calcistico, le continue divisioni da clima derby. Anche se tra di loro c’è un ottimo rapporto, persino Di Chirico e Vettori vengono spesso messi in opposizione l’uno con l’altro. «Ora tutti mi dicono: combatti con Marvin, combatti con Marvin», dice Di Chirico scuotendo la testa. Il contrasto tra i due si basa più che altro su quello che rappresentano per il movimento italiano: Vettori ha lasciato l’Italia per avere successo, Di Chirico non lascia volentieri neanche Roma. Le loro vittorie, quindi, confermano le opinioni di chi pensa sia meglio una cosa o l’altra.

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«Sopporta i sacrifici, ti formeranno».

Adesso che vengono entrambi da vittorie importanti non ci sono polemiche, ma se Di Chirico avesse perso qualcuno avrebbe detto che è colpa del fatto che non si allena all’estero, perché non ha voglia. «Ma è vero, non mi va. Uno non deve fare cose contrarie alla sua emotività. Poi per carità, io in vacanza ci vado ad allenarmi fuori». Certo è anche una questione di soldi, allenarsi fuori costa molto. Se uno sponsor gli pagasse un mese in California ci andrebbe? «Un mese… dovrei portarmi la famiglia. Come fai a stare un mese senza tuo figlio? A me già i nove giorni per il match con Buckley sono sembrati un’eternità». Gli sembra troppo persino andare a Milano quando Vettori è in Italia, per allenarsi con lui. Ma il treno ci mette tre ore! «Sì ma per andare lì e fare sparring dovrei comunque dormire un giorno prima, e con un bambino piccolo come faccio, con Sara che sta all’ottavo mese?».

Ma sbaglia chi pensa sia pigrizia romana, quella di Di Chirico. Allenarsi in Italia, è una cosa che lui chiama «la mia battaglia». «Fa parte di me. Partire comunque da una posizione svantaggiata, con meno risorse, con meno benefici. È una cosa mia, che fa parte della mia carriera. Combattere è un verbo che si addice a situazioni di difficoltà. Se ci pensi, si combatte per sconfiggere qualcosa, per proteggere qualcosa, contro l’ingiustizia».

Quello che le persone dimenticano, quando identificano Vettori e Di Chirico con due posizioni rigide, è che ogni atleta ha una visione estremamente specifica di cosa significa combattere, con una morale e una psicologia dietro che non è possibile semplificare. Vettori si è sacrificato per diventare un atleta di alto livello, lasciando la famiglia da giovane e facendo una vita quasi monacale, pensando al combattimento ogni ora di ogni giorno. «Ma per Marvin sarebbe stato un sacrificio anche restare in Italia. Penso che lui si trova bene in California, come si trovava bene a Londra», dice Di Chirico.

«Marvin ha fatto la scelta migliore per sé, come io ho fatto la scelta migliore per me. Ogni allenatore sa che è sbagliato somministrare lo stesso programma a due atleti diversi. Anche nell’allenamento siamo diversi, lui regge volumi di allenamento altissimi, io ad alti volumi ho un rischio maggiore di infortuni. Siamo due macchine completamente diverse. E io lo rispetto, lo stimo e faccio sempre il tifo per lui».

Molte persone si identificano maggiormente nel successo di Vettori, che ha creduto in se stesso e scommesso tutto quello che aveva per arrivare in alto. Ma per Di Chirico vincere con Buckley, dopo le critiche che aveva ricevuto per la sua ostinazione a restare in Italia, dopo aver cambiato allenatore per la seconda volta, dopo aver scelto di avviare una famiglia, è stata una soddisfazione «totale». «E poi guarda che alla maggior parte dei fighter non va bene come a Marvin. Molti vanno fuori, magari si fanno male e tornano indietro, fanno un match e lo perdono, gli allenatori non li considerano… È un rischio andare fuori, come è un rischio restare qua, a questo livello».

Nell’intervista successiva al KO di Bamgbose, Di Chirico è diventato virale per aver imitato Peter Griffin. Stavolta gli è bastato rifiutarsi di essere intervistato, perché secondo lui è ingiusto intervistare solo i fighter vincenti (ammesso che quelli sconfitti siano in grado di farlo). Poi Dana White, il presidente della UFC (l’uomo con le forbici in mano, che può decidere quando vuole chi tagliare dal roster) ha raccontato che quando è andato a congratularsi con lui, Di Chirico lo ha guardato male. Alessio ha già raccontato ai media americani di non averlo riconosciuto, ma insomma ha dimostrato un senso dello spettacolo niente male per uno che dice di non amare la componente di “show-business” che fa parte delle MMA.

«Non sai da quanto tempo volevo dirla, quella cosa. Mi è dispiaciuto ripeterla cinque volte: “Basta, non voglio interviste per questo motivo…” Io penso che lo show vende i biglietti di una serata, ma i valori, la bellezza dello sport che ti cambia la vita, vende gli abbonamenti». Ma che pretende, che l’UFC cambi le proprie abitudini per lui, perché altrimenti non rilascerà più interviste in caso di vittoria? «No, no, ormai quella cosa l’ho detta. Io vorrei che i fighter fossero più uniti, che si evitasse lo sciacallaggio tra di noi. Già è così difficile fare ‘sto sport…».

Mentre aspettava il suo turno durante la cerimonia del peso, dietro di lui c’era il suo avversario. Buckley cercava di provocarlo: «Era insopportabile, doveva per forza parlare, interagire, mi prendeva per il culo». A un certo punto Alessio guarda un video di suo figlio, che gli aveva mandato la compagna da Roma. Buckley si sporge e Di Chirico ha l’impressione che, vedendolo, sia rimasto colpito. «Forse perché lui è cresciuto senza padre. Ho avuto l’impressione che si sia fermato un attimo, poi è andato a fomentarsi con i suoi ed è tornato di nuovo tutto fomentato».

Quella che secondo me sarebbe la vera battaglia di Alessio Di Chirico, è il modo in cui non rinuncia alla parte umana di se stesso e degli altri fighter. «Io studio sempre tutto dei miei avversari. Anche la loro vita privata, mi aiuta a visualizzare il match, l’avversario, la persona che affronto. Buckley lo visualizzavo come una brava persona, che però mi sembrava un po’ esaltato. Era venuto col cappello “solo dio può giudicarmi”, che magari può significare che si sente giudicato da qualcuno, che combatte anche contro di “loro”. E quindi se l’avessi criticato o provocato l’avrei in qualche maniera aiutato al combattimento».

Jeff Bottari/Zuffa LLC

Oggi Di Chirico ha un nuovo allenatore, Michele Verginelli (primo fighter di MMA italiano, dal 1998), oltre a professionisti e atleti di élite con cui allenarsi a Roma (Mattia Faraoni, Luca Anacoreta). Anche quando parla di come sono cambiate le cose lo fa dal punto di vista umano: «A posteriori posso dirti che era destino finissi con Michele? Siamo troppo simili su certe cose. Adesso stacco dal bar e sento come se andassi a divertirmi, come se fosse ricreazione. Prima era un po’ più lavoro, un po’ più faticoso. Poi avevo mille infortuni prima… Mi sono ripromesso che sarà il mio ultimo allenatore. Se va male anche lui farò altro».

Insieme a Verginelli, Di Chirico sta cercando di cambiare anche il proprio stile: «Mi dice sempre che devo attaccare di più, essere più intraprendente». È una delle cose per cui Di Chirico è stato più criticato in passato, e che gli è costata i match più in bilico, quelli in cui serve “mostrare” qualcosa in più dell’avversario ai giudici, non solo avere il controllo della situazione (o dell’ottagono). «Ci sto lavorando molto con lui. È vero che studio molto l’avversario. È una cosa che mi porto dietro da esperienze passate. Michele però mi dà la libertà di sbagliare e questo secondo me mi farà migliorare».

L’intervista si chiude e Di Chirico torna alla cassa. Il che non significa che Di Chirico non stiamo mettendo tutto se stesso nelle MMA, in attesa del prossimo combattimento. Anzi, mi sono fatto l‘idea che sentirsi una persona completa, con una vita piena piena di affetti (compagna, figli, fratello, madre, allenatore, amici) e passioni (tipo la Roma, che segue come quando andava in Curva Sud), non faccia da distrazione, ma anzi lo aiuti a combattere.

«Io sono completamente devoto a questo sport, ma la mia famiglia viene prima di tutto. Devo sempre pensare a un piano B, quando uno finisce di combattere e si ritira deve avere qualcosa per mandare avanti la famiglia. Una volta sono andato alla Posta e mi ha riconosciuto un impiegato, che era un lottatore. E mi ha detto questa che io poi ho pensato “cazzo è vero”; mi ha detto: “Questi sono sport poveri. Le superstar non esistono perché nel momento in cui uno pensa di essere una superstar arriva il cazzotto che lo manda giù”. Quindi io riesco a fare l’atleta di MMA, poi magari apro il bar la mattina, poi mi vado ad allenare, poi magari la sera torno al bar e lo chiudo».

Quando ci alziamo dal tavolino esterno un uomo si avvicina a noi. «Stavate parlando di boxe?», chiede. Quasi, rispondo io, e mi sento in dovere di presentare Alessio. L'uomo poi tira fuori dal portafoglio una foto, con sopra una faccia che conoscevo. Era quella di Carlo Maggi, suo fratello e allenatore della boxe San Basilio, una palestra di un quartiere romano periferico da cui sono usciti 15 campioni, tra cui Daniele Petrucci, arrivato a un passo dal titolo mondiale. Penso che è una strana e felice coincidenza, a inizio intervista avevo consigliato da Alessio i podcast in cui si racconta la sua storia (realizzati da Matteo Gagliardi e pubblicati su Radio Rai tre). Ascoltandoli mi sono commosso pensando a Roma come un contenitore di eccellenze che bruciano troppo velocemente, nella diffidenza e nei pregiudizi. E che poi vengono dimenticati con tristezza, anziché tramandati con orgoglio. Di Chirico e il fratello di Carlo Maggi si salutano con la promessa di fare colazione insieme un altro giorno, io li guardo e penso alla forza simbolica del loro incontro, a tutto quello che rappresenta la storia di Maggi per Roma, a tutto quello che può rappresentare la storia di Di Chirico.

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