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La vittoria più importante di Alessio Di Chirico
18 gen 2021
18 gen 2021
Messo alle strette, Di Chirico è diventato pericoloso.
(articolo)
9 min
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Prima di ogni aspetto tecnico, a determinare la prestazione di Alessio Di Chirico contro Joaquin Buckley sarebbe dipesa da quello mentale. Certo, è una banalità: quando, in fondo, l’approccio mentale non ha avuto la sua importanza in una prestazione sportiva? Quando si parla di Alessio Di Chirico, però, la psicologia sembra più importante rispetto ad altri fighter.

Dall’inizio della sue esperienza UFC ha dimostrato da una parte di essere solido, difficile da battere, forte dal punto di vista difensivo e completo; dall’altra di essere timido, poco aggressivo, con una frequenza di colpi limitata e un ritmo troppo blando per riuscire a imporsi definitivamente esprimendo il suo potenziale. Il suo parziale, alla vigilia del match con Buckley, non era dei più confortanti: cinque sconfitte e tre vittorie, e soprattutto arrivava da una striscia di tre sconfitte consecutive che avevano messo in dubbio la sua permanenza in UFC. Di Chirico sapeva di essere con le spalle al muro, e che se avesse perso sarebbe finito molto probabilmente fuori dalla promotion.

Cosa avrebbe dovuto fare Di Chirico per vincere? La risposta, sebbene affrontasse un atleta con caratteristiche diametralmente opposte a quello precedente restava la medesima: sarebbe dovuto essere aggressivo. Anche se dal punto di vista puramente tecnico questo lo avrebbe esposto a rischi maggiori rispetto al match contro Zak Cummings, per via del peso nettamente superiore dei colpi da parte di Buckley.

Autore di quello che è stato scelto come knock-down del 202o (e che persino Kanye West ha ritwittato), Buckley aveva promesso un KO e persino Di Chirico aveva parlato di un incontro che sarebbe stato senz’altro «spettacolare». Alla fine ha vinto lui per KO, con un calcio alla testa che, per usare le parole del commentatore ed ex fighter Dan Hardy, ha lasciato Buckley «come se avesse guardato negli occhi Medusa».

Cosa ci si aspettava da lui

A proposito del volume di colpi di Di Chirico: negli 8 match disputati in UFC prima di affrontare Buckley, soltanto in tre occasioni aveva effettivamente colpito più dei suoi avversari, e soltanto in due i suoi colpi tentati sono stati superiori. Non sempre la frequenza di colpi è un fattore fondamentale per un fighter, ci sono fighter in quella categoria di peso, per esempio Israel Adesanya e ancor di più Yoel Romero, che pur modulando con attenzione la propria aggressività riescono ad essere devastanti grazie alla qualità dei loro colpi d’incontro e in secondo luogo in virtù del peso dei propri colpi. Ma nel caso di Di Chirico il problema è diverso: un atteggiamento attendista non era congeniale a esaltare le sue qualità. Di Chirico non aveva mai dimostrato di avere un counterstriking valido al punto da metterlo al centro del proprio stile di combattimento, né i suoi colpi (a parte il lampo contro Bangbose) avevano mai particolarmente brillato per potenza e predisposizione al KO.

Per questo motivo, non avendo trovato ancora grandi soluzioni nel grappling (il meglio lo ha dato finora forse nelle fasi di clinch), per Di Chirico il ritmo doveva essere un fattore importante. Anche in questo caso, una maggior iniziativa da parte di Di Chirico potrebbe fare la differenza: sia perché Buckley è quel tipo di fighter che se lasciato troppo libero di imporre i propri colpi poteva diventare devastante, grazie a una creatività a tratti davvero sbalorditiva e a combinazioni pugilistiche di straordinaria potenza; sia perché Di Chirico ha bisogno di essere meno contratto, più sfrontato, per far emergere un potenziale ancora inesplorato. Oltretutto, sarebbe stato utile anche per sondare i limiti difensivi di Buckley, evidenziati in particolare nel match perso contro Kevin Holland (sebbene in quel caso Buckley avesse l’attenuante di aver combattuto un altro incontro una settimana prima, ma non voleva farsi perdere la chance di esordire in UFC).

Proprio il match contro Holland è stato emblematico, invece, del percorso di Alessio Di Chirico: un atleta che sembra esaltarsi contro fighter di elevata caratura tecnica, ma che non era riuscito a trovare il proprio ritmo e far valere la propria supremazia quando l’avversario era alla sua portata.

Alla vigilia Buckley sembrava appartenere alla prima categoria. Da un lato il valore dello sfidante, dall’altro l’importanza vitale di questo incontro sembravano i presupposti giusti per spingere Di Chirico a esprimere tutto il proprio valore. Certo, l’idea di base era anche che Di Chirico avrebbe dovuto fare grande attenzione, in fondo Buckley è un fighter estremamente esplosivo, con una grande predisposizione al KO, e sarebbe convenuto aspettare che, per via della imponente massa muscolare, fosse un minimo calato. Nessuno si sarebbe aspettato un’efficacia così immediata.

D’altra parte, uno dei punti di forza di Di Chirico è stata la sua capacità di non farsi sopraffare. Le sue sconfitte, se si eccettua quella contro Eric Spicely (per sottomissione) sono state tutte di misura: si è lasciato sconfiggere, ma mai dominare. E proprio quando si è trovato sull’orlo del precipizio ha trovato la spinta necessaria per esprimere finalmente tutta la propria forza.

Capovolgere il tavolo

«Ero reduce da tre sconfitte e non ho parlato nel post-intervista», ha detto Di Chirico subito dopo aver messo KO Buckley. «Vi ringrazio, ma non mi piace che intervistiate solo il vincitore. In questo sport ci sono due uomini, sempre». Di Chirico si è sempre mostrato indifferente alle comuni pratiche mediatiche delle MMA moderne. Se non infastidito, quanto meno diverso, ed è rimasto fedele al suo codice d’onore anche dopo il suo momento più alto in carriera, anche dopo aver battuto un avversario che, al momento della cerimonia del peso, lo ha provocato (a favore di camera) chiedendogli: «Hai paura eh?». Di Chirico lo ha fissato senza rispondere, ora sappiamo che no, non aveva paura.

Quando è iniziato il match Di Chirico aveva una guardia molto aperta, più del suo solito, che pareva voler invitare Buckley ad entrare nel suo range. Nonostante fosse più basso, Buckley aveva il vantaggio dell’allungo, ragion per cui poteva permettersi di provare a colpire in avanzamento. E in effetti nei primi scambi il jab di Buckley pareva poter funzionare, almeno finché Di Chirico non gli ha preso il tempo.

Di Chirico non ha caricato i primi colpi, ha indietreggiato aprendo la guardia cercando di affondare di rimessa. Dopo poco più di due minuti ha trovato il tempo per un buonissimo high kick che si è infranto sulla guardia del suo avversario, e poi per un’ottima ginocchiata d’arresto: ha fatto assaggiare a Buckley la sua forza esplosiva e il suo timing. Poco dopo, mentre Buckley si stava abbassando per creare un’apertura fra volto e figura, Di Chirico ha preparato un headkick chirurgico che si è schiantato sulla tempia del suo avversario - un colpo che gli è valso il bonus Performance of the Night da 50mila dollari.

I momenti successivi sono stati iconici: Di Chirico si è inginocchiato, non riuscendo a trattenere l’emozione e le lacrime. Finalmente è riuscito a dimostrare il suo valore, mettendo il match sui binari che voleva lui e affondando al momento opportuno, in un modo che ha fatto sembrare la sua vittoria persino semplice.

Cosa ci aspettiamo adesso

La vittoria con Joaquin Buckley, uno dei fighter con più hype della categoria, significa molte cose. Anzitutto significa che Di Chirico è indubbiamente meritevole di stare in UFC - cosa che prima veniva messa in dubbio se non altro dalla striscia di tre sconfitte negative; significa poi che, dopo aver fatto deragliare il treno di Joaquin Buckley, il prossimo match potrebbe essere speciale. Significa, inoltre, che l’Italia ha rafforzato la propria posizione sulla mappa delle MMA mondiali, grazie a un exploit clamoroso che segue quello altrettanto, se non di più, eccezionale di Marvin Vettori, vincente in cinque riprese contro Jack Hermansson, entrando tra i primi 5 del ranking dei Medi.

Ma dal punto di vista personale, significa anche altro. Il messaggio di Di Chirico a fine incontro, ribadito successivamente nell’intermezzo e addirittura in conferenza stampa, può sembrare polemico ma solo Di Chirico può sapere come si è sentito nei match precedenti. Solo lui può sapere cos’è andato davvero storto. Ora, intervistare un fighter dopo che ha subito un KO, come nel caso di Buckley, non sarebbe salutare, né sarebbe un’abitudine corretta, ma dare possibilità agli sconfitti di parlare dopo il match, concedendogli l’onore delle armi, sarebbe invece una scelta nobile.

Di Chirico non sa fingere, neanche con Dana White (presidente dell’UFC) che dopo l’incontro, quando si è avvicinato per congratularsi con lui, dice che Di Chirico gli ha rivolto uno sguardo del tipo: «E te che cazzo vuoi».

Ma anche questa è una polemica sterile, dato che il giorno successivo Di Chirico ha ringraziato pubblicamente Dana White e Nick Maynard per aver creduto in lui e non averlo licenziato nel periodo in cui hanno dovuto fare molti tagli. Di Chirico non appare, semplicemente è fatto così, è genuino. Forse per questo non è un animale da palcoscenico. Ma da ottagono, quello sì.

La vittoria con Buckley ci dice anche che quando Di Chirico affronta i camp e i match con serenità è un fighter pericoloso per chiunque. Il che ci porta alla questione di cui si parla sempre in Italia: è davvero necessario allenarsi negli Stati Uniti per arrivare ai massimi livelli? Sicuramente, lo si è detto più volte, il materiale umano (ed anche i mezzi) negli Stati Uniti sono molto migliori. Un atleta, però, deve anche preoccuparsi del proprio stato psicologico e allenarsi in un ambiente confortevole, che lo spinga a superare i propri limiti e lo stimoli a crescere.

La vittoria di Di Chirico non dimostra che “è meglio allenarsi in Italia”, come quella di Marvin Vettori non dimostra che “è meglio allenarsi in America”: entrambi semmai hanno dimostrato che un combattente di alto livello, reduce o meno da un periodo di difficoltà, con un camp perfetto alle spalle e la giusta condizione psicofisica, può affrontare sfide di altissimo livello.

In tempi recenti Di Chirico ha cambiato team ed è passato alle cure di Michele Verginelli, coach e veterano di MMA che lo ha assistito anche nel match contro Zak Cummings. È diventato padre e ha dovuto allenarsi nelle ristrettezze di una pandemia che ha reso difficile, se non impossibile per lunghi periodi, spostarsi per allenarsi. Eppure nel match contro Joaquin Buckley non ha mostrato la timidezza dei match precedenti, è stato estremamente concentrato e aggressivo, ha dominato un match sì breve, ma che è sembrato nelle sue mani fin dall’inizio.

Di Chirico ci ha ricordato che nelle MMA non si può dare nulla per scontato. D’altronde l’aveva detto in un’intervista prima del match a Tommaso Clerici:«Sono stato poco incisivo, credo sia dipeso da fattori tecnici e psicologici. Ma ci ho lavorato sopra, è un errore che non ripeterò». Promessa mantenuta.

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