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Gabriele Anello

A che punto è il calcio in Asia?

Il movimento calcistico asiatico è in forte espansione: romperà il duopolio Europa-Sudamerica?

Le profezie raramente si avverano e sono spesso sconvenienti, sia per chi le pronuncia che per chi ne è oggetto. Edson Arantes do Nascimento, in arte Pelè, è stato uno più grandi nella storia del calcio, ma alcuni suoi pronostici hanno lasciato strascichi negativi, come la Colombia vincitrice alla Coppa del Mondo 1994 o il Brasile eliminato ai gironi nel 2002. Durante Italia 90, però, Pelè andò oltre. Di fronte al Camerun sconfitto ai quarti dall’Inghilterra, O Rey fu didascalico: «Un’africana vincerà il Mondiale entro il 2000» (salvo ripensarci otto anni più tardi). Al di là della sparata, l’interrogativo rimane: è veramente possibile mettere fine al duopolio Europa-Sud America?

 

Nella storia dei Mondiali, i venti trofei sono stati quasi equamente divisi tra il Vecchio Continente (11) e l’America Latina (9). Agli altri – per storia, cultura ed evoluzione dello sport – sono rimaste le briciole. L’Oceania ha all’attivo un ottavo di finale con l’ultima Australia nella sua confederazione; il Nord America un terzo posto con gli USA, ma nel 1930; l’Africa, invece, sul podio non ci è mai arrivata, raggiungendo al massimo i quarti (Camerun ’90, Senegal 2002 e Ghana 2010).

 

In questo scenario, è sorprendente scoprire che l’Asia è la confederazione che più recentemente ha centrato (l’unica) top 4 della sua storia ai Mondiali. L’avventura della Corea del Sud nell’edizione casalinga del 2002 è ricordata più per i vizi arbitrali ma dietro c’era comunque la mano di Guus Hiddink, che avremmo sofferto anche quattro anni più tardi, stavolta in versione Aussie.

 

Il termine fixed ha cancellato quanto di buono ha fatto la Corea del Sud nel girone. E forse anche nella semifinale con la Germania, vinta con Kahn e Ballack in versione superstar.

 

Eppure l’ultimo Mondiale per club ci ha dato qualche indicazione interessante sulla crescita del calcio asiatico. I Kashima Antlers in Giappone sono una tradizione: 20 titoli in due decenni di professionismo indicano una mentalità vincente, la stessa che li ha portati in finale al Mondiale per club, costringendo il Real ai supplementari dopo esser persino passati in vantaggio. Può sembrare una semplice luce nel buio, ma è il segno di come gli equilibri calcistici potrebbero cambiare nei prossimi anni.

 

 

Storia e problemi

 

Per usare un proverbio: «A esser giovani s’impara da vecchi». E di strada per maturare l’AFC (Asian Football Confederation) ne ha fatta parecchia. Se la CONMEBOL ha una nascita precoce (1916) e l’UEFA, fondata negli anni ’50, in realtà aveva già grosso potere nella FIFA dal 1904, l’AFC è stata la terza confederazione a darsi un suo statuto: 13 federazioni si unirono per formarla a Manila l’8 maggio del 1954.

 

È un processo fisiologico: dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, le potenze coloniali hanno perso un po’ di peso. Nonostante i diversi conflitti, il calcio ha trovato un modo per farsi spazio e ramificarsi: tramite un lavoro lungo 60 anni, l’AFC oggi accoglie 47 federazioni, tra cui esuli dall’OFC (Guam e l’Australia) e membri AFC, ma non FIFA (le Isole Marianne settentrionali). Ha creato diversi tornei per club e per nazionali, ma soprattutto ha una struttura di cui poter esser fiera, peraltro recentemente riformata.

 

L’AFC è guidata dallo sceicco Salman Bin Ibrahim Al-Khalifa, ex presidente della federazione del Bahrain e membro della famiglia reale che governa il paese. Recentemente ha anche tentato la scalata alla FIFA, ma molti lo hanno criticato per questa scelta: un po’ perché il suo lavoro all’AFC è apprezzato e temevano distrazioni, un po’ perché secondo Human Rights Watch Al-Khalifa sarebbe stato coinvolto nella repressione degli oppositori al regime in Bahrain.

 

Purtroppo, gli ultimi presidenti AFC sono stati controversi: il qatariota bin Hamman (2002-2011) è rimasto pesantemente coinvolto in vari scandali, mentre il malese Ahmad Shah (’94-2002) è stato lo Yang di-Pertuan Agong di stato, ovvero il sovrano della Malesia dal ’79 all’84. Nonostante l’enorme disponibilità economica, la sicurezza di vincere e degli avversari apparentemente sfavoriti, alla fine Al-Khalifa ha perso contro Gianni Infantino.

 

«Non abbiamo mai preso decisioni sui giocatori riguardo problemi che non siano relativi al calcio».

 

A questo si aggiungono problemi che attanagliano alcune federazioni. Le sospensioni non sono uno strumento nuovo usato dall’AFC: l’ultimo (e abbastanza imbarazzante) caso è quello del Kuwait, la cui federazione è stata invasa dal controllo governativo, contrariamente a quanto stabilito dai regolamenti continentali e FIFA (per lo stesso motivo l’Indonesia non ha iniziato il percorso di qualificazione al Mondiale 2018).

 

Ma se la squalifica per l’Indonesia è arrivata nel maggio 2015, con effetto immediato, diversa è stata la sorte del Kuwait, la cui federazione di fatto è stata sospesa nell’ottobre 2015, impedendo la partecipazione delle sue rappresentative nazionali alle competizioni asiatiche. Il Kuwait è presente nelle qualificazioni ai Mondiali del 2018, con la squadra comunque ancora in corsa per il terzo turno, nonostante una federazione recidiva.

 

La ciliegina è arrivata in chiusura di 2016, con l’AFC che ha rinviato la decisione sulla sospensione all’11 gennaio 2017, lasciando in vita una federazione non in regola. Con il Kuwait escluso, a rientrare in gioco è Macao, eliminata al primo turno, ma vice-campione dell’AFC Solidarity Cup, la nuova coppa che promuove le realtà marginali dell’AFC e che sostituisce l’AFC Challenge Cup, abolita nel 2014. Il tutto dopo che Guam – underdog della prima fase di qualificazione – ha dovuto rinunciare al percorso per problemi finanziari, facendosi sostituire dal Nepal, anch’esso eliminato malamente nel primo turno.

 

Problemi che si ripresentano anche a livello di club. I sud-coreani del Jeonbuk Hyundai Motors, campioni d’Asia uscenti ai danni dell’Al-Ain di Omar Abdulrahman, sono i primi a vincere un titolo continentale e a non partecipare alla prossima edizione della Champions League asiatica per un’accusa riguardante un match truccato, fenomeno non nuovo per il calcio coreano.

 

 

Rinascita graduale

 

Eppure, il lavoro dell’AFC sotto la presidenza Al-Khalifa è stato lodevole. I partner commerciali sono di alto livello, ma soprattutto ci sono state due novità importanti: la crescita costante del calcio femminile e la riforma delle qualificazioni per le squadre maschili a Mondiale e Coppa d’Asia.

 

La prima non è propriamente una novità, quanto piuttosto un ulteriore miglioramento in un percorso comunque d’eccellenza. Le gerarchie del calcio femminile sono diverse da quelle maschili: nell’ultimo Mondiale del 2015, l’Asia aveva diritto a 5 posti su 24 (quasi il 25%, contro i 4,5 su 32 di quello maschile, quindi il 14%). Non solo: il Giappone si è presentato da campione uscente e medaglia d’argento alle Olimpiadi di Londra 2012.

 

Alla fine, tre di queste cinque (Giappone, Cina e Australia) sono entrate nella top 8, con le nipponiche distrutte in finale dagli Stati Uniti, ma di nuovo all’ultimo atto. Se a Rio non è arrivata nessuna medaglia, i segnali sono comunque quelli di un dominio imminente. In fondo, il ranking FIFA vede cinque nazionali nelle top 20.

 

E il meglio deve ancora arrivare per l’AFC: la Corea del Nord ha trionfato sia al Mondiale U-20 che in quello U-17, entrambi disputati sul finire di quest’anno. Benissimo ha fatto anche il Giappone, in semifinale nel primo e in finale nel secondo per una finale tutta asiatica. Se il trend fosse questo anche solo per i prossimi dieci anni, l’Asia rischia di monopolizzare il calcio femminile.

 

 

E se intanto nel futsal l’Iran è arrivato terzo all’ultimo Mondiale di categoria (battendo Brasile e Portogallo), l’AFC ha nel frattempo messo a punto una riforma intelligente per accorpare le qualificazioni al Mondiale e alla Coppa d’Asia, che si disputano a distanza di sei mesi l’uno dall’altra. In precedenza, i due formati di qualificazione si disputavano separatamente, garantendo ai primi tre classificati della precedente Coppa d’Asia una qualificazione diretta all’edizione successiva.

 

Ad aprile 2014, l’AFC ha deciso un cambio di rotta, sfruttando l’aumento di squadre partecipanti alla prossima Coppa d’Asia (nel 2019 saranno 24 contro le attuali 16). Primo e secondo round vanno di pari passo per Mondiale e Coppa d’Asia, con una fase di play-off a scremare le nazionali più deboli in partite di andata e ritorno, capaci di regalare storie come quelle del Bhutan (con il Ronaldo locale) o di Timor Est.

 

Il secondo round vede l’entrata del resto delle squadre, con 40 nazionali divise in otto gruppi da cinque e partite di andata e ritorno: gli otto vincitori dei gironi più le quattro migliori seconde passano alla fase successiva, quella che si divide in due ulteriori gruppi da sei che combattono per i 4/5 posti al Mondiale 2018. Quelle 12 squadre sono già qualificate per la Coppa d’Asia – tra cui sorprese come Siria e Thailandia – mentre le altre si sfidano per arrivare a un’altra fase a 24 squadre, divise in sei gironi, per ottenere i rimanenti 12 posti per la competizione continentale, che nel 2019 sarà ospitata dagli Emirati Arabi Uniti.

 

Se la Siria ha vinto in Cina, la Thailandia gioca così sotto il ct che li ha fatti rinascere, l’ex leggenda Kiatisuk Senamuang.

 

Così facendo, l’AFC ha cambiato la vita di federazioni come Guam, Laos, Maldive, che finalmente hanno potuto giocare 10 match competitivi nel giro di un anno, senza doverli organizzare da soli, costringendosi all’esilio competitivo. Perché per una nazionale dal ranking basso perdere 12-0 in Cina o 9-0 in Corea del Sud è sempre meglio che non giocare affatto. Ci sono margini di miglioramento nascosti in una sconfitta, che è comunque un’esperienza. L’ha capito persino la CONCACAF, che sta pensando a una riforma del format di qualificazione al Mondiale, considerato ormai “arcaico”.

 

Ora però bisogna capire come le nazioni asiatiche potranno imporsi anche sullo scenario internazionale. E ci sono tre modi per farlo, perché l’Asia è talmente grande da esser paragonabile a un mostro tricefalo: la confederazione è unica, ma al suo interno ci sono diverse vie per arrivare all’obiettivo prestabilito.

 

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Gabriele Anello ha il passaporto italiano, ma il cuore giapponese. Scrive per Crampi Sportivi, SampNews24 e MondoFutbol. In più, gestisce i blog Golden Goal e #IPGSDIW.