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Redazione

Come ricorderemo il Real Madrid di Zidane

Forse i successi della "Casa Blanca" non sono stati solo frutto del caso.

 

 

Zidane è stato solo fortunato?

di Emanuele Atturo

Quando Zinedine Zidane si è seduto sulla panchina del Real Madrid, il 4 gennaio del 2016, la squadra sembrava praticamente a fine ciclo. Carlo Ancelotti aveva vinto la “decima” due anni prima, dopo averla inseguita per dodici anni, e le difficoltà di Rafa Benitez nei sei mesi precedenti sembravano certificare che la squadra ormai non aveva molto da dare. Niente di nuovo: con il passaggio dalla Coppa dei Campioni alla Champions League, dal 1992 cioè, nessuna squadra aveva mai vinto due coppe consecutive prima del Real Madrid di Zidane.

 

Questo contesto viene spesso dimenticato quando si tratta di stabilire i meriti di Zidane, che all’inizio doveva essere un semplice traghettatore. Zinedine Zidane con un brutto curriculum: vice di Ancelotti, poi due anni grigi al Castilla; Zinedine Zidane che sembrava aver obbedito al “richiamo del campo” senza una vera e propria direzione, che sembrava l’ennesimo esempio del grande campione che non riesce a capire cosa vuole fare da grande.

 

Tutte cose che dimentichiamo quando parliamo di questo Real Madrid come di un semplice assembramento di grandi campioni che “si mettono in campo da soli”, come furono i “Galacticos” quindici anni fa.

 

Zidane ha vinto tutte le Champions League a cui ha partecipato, non è mai stato eliminato in uno scontro diretto della competizione, eppure spesso questi record eccezionali vengono usati come conferma dell’eccezionalità della sua fortuna. Per molti Zidane è solo un vincente incredibilmente fortunato, con un rapporto privilegiato con il Dio del calcio, che dopo averlo dotato di un talento tecnico sovrannaturale ora gli permette di vincere tutto anche in panchina. Tutti i dettagli sembrano confermarlo: l’incapacità a sbagliare un trasferimento, i giovani che gli esplodono tra le mani, i cambi sempre azzeccati, le partite svoltate un episodio alla volta.

 

Si potrebbe guardare all’insieme dei fatti attraverso il filtro del pensiero magico, e a quel punto pensare davvero che Zidane è il Grande Fortunato della storia del calcio. Un modo altrettanto semplice, invece, per cominciare ad accorgersi del suo lavoro (della sua “mano”) è quello di guardare quanto il Real Madrid sia cambiato in questi due anni e mezzo.

 

Se è vero che l’ossatura della squadra è più o meno la stessa che vinse la Champions League con Ancelotti, Zidane è stato bravo a lavorare su piccoli cambiamenti mantenendo un’identità di squadra. Un principio profondo è rimasto lo stesso sin dall’inizio della sua gestione: il Real Madrid come squadra che controlla la partita attraverso il pallone, che tramite la palla disordina e riordina i momenti del gioco, creando un contesto nel quale si può sopravvivere solo grazie al dominio tecnico. Anche questa idea è tutt’altro che scontata: il Real Madrid di Mourinho, quello di Ancelotti e anche quello di Benitez erano squadre di transizioni, che esercitavano la propria superiorità attraverso le corse in campo aperto.

 

 

Zidane ha trasformato il Real Madrid ipercinetico di Bale e Cristiano Ronaldo nel Real Madrid dei centrocampisti. Il deus ex machina di questa idea è stato naturalmente Isco, messo in condizione di vagabondare per il campo per giocare con i confini tra equilibrio e squilibrio del sistema di Zidane e di quello avversario. La scelta di eleggere a cardine del proprio sistema un centrocampista anarchico e innamorato del pallone come Isco è anti-intuitiva rispetto alla direzione verso cui sta andando il calcio, ed è stata la mossa da cui forse più traspare l’ideologia di Zidane allenatore.

 

Zidane è stato fenomenale nel mettere i propri giocatori nelle migliori condizioni per esprimersi, ma quando lo si dice ci si riferisce soprattutto all’aspetto psicologico, sottovalutando invece la sensibilità del tecnico francese per il talento calcistico. Nel documentario dedicato a Benzema (“Le K Benzema”) l’attaccante spiega che in uno dei primi colloqui con il tecnico Zidane gli ha detto: «Non posso spiegarti come giocare a calcio. Lo sai benissimo da solo».

 

Zinedine Zidane conosce i limiti del proprio lavoro, ma anche le potenzialità dell’intelligenza calcistica dei propri calciatori.

 

L’integrazione fra i movimenti di Benzema e quelli di Cristiano Ronaldo; le funzioni di Kroos e Modric nella costruzione bassa; la catena di sinistra tra Marcelo, Kroos e Cristiano Ronaldo; la copertura difensiva di Sergio Ramos sulle salite di Marcelo. Sono tutte piccole connessioni che creano l’equilibrio sottile su cui gioca il Real Madrid, e su cui sarebbe ingeneroso non vedere la mano di Zidane. Ci sono poi aspetti più evidenti del suo lavoro, che hanno a che fare con un’intelligenza pratica troppo spesso sottovalutata.

 

La gestione dei cambi ad esempio: il ruolo da supersub cucito su Asensio, che ha risolto i quarti di finale contro il PSG e anche le semifinali contro il Bayern Monaco. Alcune scelte controintuitive, come quella di far giocare Lucas Vazquez titolare contro i bavaresi, lasciando Benzema in panchina; oppure quella di usare Bale solo a partita in corso nella finale contro il Liverpool. La marcatura raffinata di Casemiro su Firmino, che ha tolto dal gioco il regista offensivo dei “Reds”. Il tecnico è saputo anche tornare sui propri passi, mettendo in discussione le sue idee più importanti: quest’anno più di una volta ha tolto Isco e il rombo di centrocampo per fare spazio a Bale e al 4-3-3. La sua squadra non si è comunque snaturata, trovando sempre la via migliore per vincere le partite.

 

 

Zidane è un allenatore che lavora sui dettagli, sulle piccole rifiniture e sui confini entro cui devono muoversi i suoi giocatori, a cui comunque viene lasciato il compito di dipingere il grande quadro d’insieme. Spesso lavora per sottrazione, quasi scomparendo dietro il talento individuale dei suoi uomini, in un lavoro raffinato non sempre immediatamente percepibile. Eppure è difficile guardare ai successi del Real Madrid senza riconoscere a Zidane un’intelligenza risultata essenziale, e che ha fatto la differenza tra un assembramento casuale di campioni e una squadra leggendaria.

 

Il dominio tecnico del Real Madrid di Zidane

di Daniele V. Morrone

“L’adattabilità del Real Madrid nasce da un approccio quasi esclusivamente tecnico. Quello di Zidane è un sistema che si organizza da solo, trovando direttamente sul campo le risposte ai quesiti posti dalla complessità delle partite. La tecnica è lo strumento che utilizza per apprendere e migliorare, ampliando le possibilità tattiche della squadra”. Queste tre frasi, tratte dell’analisi di Juventus-Real Madrid di Fabio Barcellona, riassumono alla perfezione cos’è stato il Madrid di Zidane negli ultimi due anni e mezzo.

 

Per Zidane il calcio nasce dai piedi più che dal cervello, e con il suo Madrid ha rimesso la tecnica al centro del discorso tattico: la superiorità del Real Madrid parte dall’eccellenza qualitativa della sua rosa e passa per l’adattamento al contesto, per terminare al dominio dei momenti della partita, più che dell’avversario. È questo il motivo che ha portato la squadra di Zidane ad avere successo soprattutto nella competizione dove i momenti sono fondamentali, cioè ovviamente la Champions League.

 

Il Real Madrid sembra reagire ai momenti della partita in maniera autonoma, come se i giocatori fossero programmati a qualunque eventualità. Ad esempio, gestendo il possesso creando un lato forte con Marcelo, Isco e Kroos; o muovendo il pallone con precisione in transizione tra Modric e Benzema; o ancora scegliendo il momento migliore per tirare con Cristiano e Bale; o infine resistendo alla pressione avversaria nella propria area con Ramos e Varane. Non esiste un fondamentale tecnico a cui la squadra di Zidane non possa attingere: i cross di Marcelo, i tunnel di Isco, i passaggi d’esterno di Modric, i lanci di Kroos, ma anche il tiro di Cristiano, gli appoggi di Benzema, l’abilità nell’usare il corpo di Varane. Non c’è un dilemma tattico che il Real Madrid non sappia risolvere, sia a livello collettivo che individuale.

 

Dalla tecnica con il pallone nascono anche le connessioni in campo, che con il tempo migliorano risultando sempre più veloci: non bisogna mai sottovalutare la capacità di far giocare insieme per tanto tempo un gruppo di giocatori, a qualsiasi livello. Non è un caso se nella finale di Champions League i tentativi di pressione del Liverpool che avevano terrorizzato il resto della competizione, sono stati scansati con scambi veloci tra Ramos, Kroos, Isco e Marcelo, con la stessa apparente semplicità con cui li fanno in allenamento.

 

Le connessioni aiutano ad esaltare il talento di chi ne ha da vendere, come Marcelo e Isco, due giocatori che con Zidane hanno giocato il miglior calcio della propria carriera. Ma riescono anche a spingere i giocatori a rendere di più di quello che il proprio ventaglio tecnico permetterebbe. Casemiro, ad esempio, nei due anni e mezzo in cui è stato reso titolare fisso da Zidane è sembrato crescere tecnicamente o almeno di essere convinto di essere in grado di fare cose che prima neanche immaginava. Quello in finale contro la Juventus l’anno scorso è il gol di chi si sente talmente in fiducia da non aver paura di tentare di andare molto oltre i propri mezzi.

 

 

Dalla convinzione di essere superiori tecnicamente nasce la convinzione di poter uscire indenni da qualunque situazione, la capacità di trovare sempre la soluzione giusta al momento giusto. Quale altra squadra al mondo è in grado di segnare nel momento più importante della partita due gol come quelli in rovesciata di Cristiano e Bale nella stessa competizione? Quale altra squadra è capace puntualmente a ribattere colpo su colpo dal punto di vista psicologico, potendo permettersi il lusso di far giocare al massimo l’avversario, anche meglio, consapevole di essere sempre comunque in grado di dare l’ultimo colpo?

 

Se è vero che una parte di fortuna in qualunque successo è innegabile, è anche vero che nessuno come il Real Madrid ha i mezzi e la capacità mentale per sfruttarli a proprio vantaggio, anche quando il piano gara non funziona e gli aggiustamenti non riescono a a cambiare l’inerzia della partita.

 

In un periodo storico in cui i sistemi provano a dominare il caos aumentando il valore tecnico collettivo delle squadre, Zidane riconduce il calcio al minimo denominatore della palla, con cui però non si prova a controllare la partita ma il suo esito, che alla fine è quello che conta per vincere. La superiorità tecnica e il carisma debordante permette al Real Madrid di portare sul campo da calcio un senso di ineluttabilità, che porta gli avversari a sentirsi sconfitti ancora prima di entrare in campo.

 

Le migliori partite con cui ricordarlo

di Federico Aquè

Zinédine Zidane ha allenato il Real Madrid per 149 partite e ha vinto 9 titoli, concentrando in un periodo così breve una quantità di successi che la maggior parte degli allenatori non accumula in una carriera. All’allenatore francese sono bastate 33 partite per vincere tre volte la Champions League, unico allenatore a riuscirci per tre anni di fila. Un traguardo assurdo, al cui raggiungimento hanno contribuito alcune partite epiche, che hanno definito la superiorità del Real Madrid in questi anni, il suo stile e il modo in cui verrà ricordato in futuro. Ne ho raccolte cinque particolarmente significative.

 

Real Madrid-Wolfsburg 3-0

Negli ultimi tre anni il Real Madrid ha perso una sola volta la gara d’andata delle fasi a eliminazione diretta: un 2-0 contro il Wolfsburg ai quarti dell’edizione 2015/16. Zidane era subentrato da poco a Benítez, e aveva esordito in Champions eliminando la Roma agli ottavi con un doppio 2-0, poi ai quarti aveva pescato il Wolfsburg e subito la prima sconfitta, prendendo due gol nei primi 25 minuti da Ricardo Rodríguez e Arnold.

 

Obbligato a ribaltare il 2-0, la reazione del Madrid nella gara di ritorno al Bernabéu è stata furiosa: dopo 17 minuti Cristiano Ronaldo riportò la qualificazione in parità con una doppietta, poi, a meno di un quarto d’ora dalla fine, completò la rimonta con una punizione che passò attraverso la barriera e si infilò alla sinistra del portiere, Diego Benaglio.

 

Dal doppio confronto contro il Wolfsburg emersero alcuni dei tratti caratteristici del Real Madrid di Zidane: le disfunzionalità tattiche, la sofferenza contro squadre organizzate, anche se di livello più basso, la capacità di superare anche i momenti più bui, l’impatto devastante di Cristiano Ronaldo nelle situazioni più difficili. Senza la rimonta contro il Wolfsburg il ciclo di Zidane non sarebbe nemmeno iniziato, ma il fatto di averla compiuta, e di non essersi più trovato nelle condizioni di dover ribaltare una situazione di svantaggio nei turni a eliminazione diretta successivi, descrivono bene la continuità con cui il Madrid è riuscito a piegare dalla propria parte i momenti che decidono le partite e le qualificazioni.

 

Real Madrid-Napoli 3-1

Con Zidane, il Real Madrid non hai mai vinto il proprio girone in Champions League. Nella stagione 2016/17 è arrivato secondo dietro il Borussia Dortmund, in quella appena conclusa è invece rimasto alle spalle del Tottenham. Una stranezza difficile da spiegare, specie se messa a confronto con l’imbattibilità nelle fasi a eliminazione diretta, come se bastasse davvero schiacciare un interruttore per adeguare la prestazione al livello richiesto dagli ottavi in poi.

 

Contro il Napoli un anno fa è successo più o meno questo: dalle sofferenze contro il Borussia Dortmund e il Legia Varsavia, a cui addirittura aveva concesso un pareggio, il Madrid è passato a una partita di controllo quasi totale contro il Napoli agli ottavi, in cui ha esibito tutta la sua superiorità tecnica, fisica e mentale, senza scomporsi dopo il gol segnato presto da Insigne. I “Merengues”, infatti, dominarono e ribaltarono la partita grazie ai gol di Benzema, Kroos e Casemiro.

 

Più del risultato, ripetuto anche nella gara di ritorno nonostante una prestazione più brillante del Napoli, della sfida contro la squadra di Sarri è importante sottolineare la naturalezza con cui il Madrid ha alzato il livello dopo una fase a gironi deludente e le contromosse trovate per dominare una squadra dal gioco molto strutturato come il Napoli, a dimostrazione di una sensibilità tattica che non viene quasi mai riconosciuta a Zidane. Il Real Madrid ha vinto non solo perché era più forte, ma perché aveva un piano gara migliore, che ha incanalato questa superiorità rendendola ancora più visibile.

 

Real Madrid-Atlético Madrid 3-0

Cristiano Ronaldo è stato il capocannoniere della Champions League nelle ultime sei stagioni, segnando complessivamente 82 gol. Nell’edizione appena conclusa ha concentrato i gol nelle fasi iniziali, diventando il primo giocatore a segnare in ogni partita dei gironi, mentre un anno fa la distribuzione delle sue reti ha seguito l’andamento opposto: 2 nella fase a gironi, ben 10 dai quarti in poi. Cristiano aveva trascinato il Madrid nella doppia sfida contro il Bayern ai quarti, segnando in tutto cinque gol, e si ripeté nella semifinale d’andata contro l’Atlético Madrid segnando tutte e tre le reti della partita.

 

 

La sensazione di imbattibilità restituita dal Madrid in Champions si è riflessa in Cristiano Ronaldo più che in chiunque altro: le sue medie incredibili e i record accumulati sono lì a dimostrare la bontà della sua gestione per arrivare sempre tirato a lucido nelle partite europee. Contro l’Atleti, poi, questa sensazione che, qualunque cosa accada, alla fine vince sempre il Real Madrid, ha assunto una forza particolare. Nelle cinque partite di campionato, Zidane ha battuto i “Colchoneros” soltanto una volta, ma nelle due occasioni in cui li ha incontrati in Champions, la finale a Milano del 2016 e la semifinale dell’anno successivo, è sempre uscito vittorioso. In questo senso, il Real Madrid ha ridefinito la capacità di gestirsi e trasformarsi nelle partite più importanti.

 

Juventus-Real Madrid 1-4

La finale di un anno fa contro la Juve ha fornito un altro esempio della sensibilità tattica di Zidane, della sua capacità di incidere sulla partita con aggiustamenti magari poco appariscenti, ma decisivi. È noto che la partita sia cambiata dopo l’intervallo, e che nel secondo tempo il Madrid abbia dominato anche grazie ad alcune decisioni di Zidane, che ha cambiato posizione a Isco e chiesto ai suoi di alzare le linee e pressare con più aggressività.

 

Nella partita più importante dell’anno, e contro una squadra altrettanto abituata a gestire i momenti e a piegarli a suo vantaggio, la strategia pensata da Zidane si è rivelata una dei fattori chiave di una finale più sbilanciata di quanto fosse lecito aspettarsi.

 

Il cambio di contesto ha liberato tutte le qualità del Madrid: il dominio del tempo e del possesso di Modric e Kroos, la supremazia sulle fasce, il disordine creativo di Isco, la freddezza di Cristiano Ronaldo in area. Dopo l’intervallo la squadra di Zidane ha mostrato la miglior versione possibile di se stessa, dimostrando di poter sfoggiare, oltre all’incredibile dominio tecnico e mentale, la dimensione tattica necessaria a sovrastare una delle squadre più organizzate d’Europa, specie dal punto di vista difensivo.

 

Juventus-Real Madrid 0-3

Forse anche più della finale del 2017 sempre contro la Juve, l’andata dei quarti di finale giocata un paio di mesi fa è la partita manifesto del Real Madrid di Zidane. Dentro ci sono tutti i temi principali: la supremazia tecnica, illuminante già nel primo gol di Cristiano Ronaldo, segnato con un’azione che mette in fila un paio di giocate eccezionali (il passaggio di Marcelo a Isco, il senso per lo smarcamento di Cristiano e la sua sensibilità con l’esterno destro a mandare il pallone sul palo più lontano), poco appariscenti perché offuscate dalla rovesciata inumana di Cristiano; la forza mentale; il caos organizzato con cui riesce a dominare il contesto tattico; l’inesorabilità con cui i momenti della partita girano dalla sua parte (l’espulsione di Dybala subito dopo il 2-0, l’errore di Cuadrado all’ultimo secondo).

 

Le sfide contro la Juve hanno definito il Real Madrid di Zidane meglio delle altre perché hanno reso chiaramente visibile quella forza inspiegabile e quasi mistica che ha permesso ai “Merengues” di vincere nonostante i limiti e le disfunzionalità. Affrontare una squadra altrettanto preparata ad adattarsi e girare a proprio vantaggio le differenti situazioni che si creano all’interno di una partita ha spinto il Real Madrid, come ha scritto Fabio Barcellona, a portare ancora più in alto l’asticella, esibendo tutte le caratteristiche che hanno composto i suoi successi in questi anni.

 

La forza straordinaria dei centrali difensivi

di Dario Saltari

Raphaël Varane è stato acquistato dal Real Madrid nell’estate del 2011 per una cifra che si presume tra gli 8 e i 10 milioni di euro (la “Casa Blanca” non ha mai svelato al pubblico il prezzo del cartellino). Il giovane centrale francese aveva solo una stagione da professionista alle spalle, al Lens, che proprio alla fine del 2011 è retrocesso in Ligue 2, dov’è ancora oggi. Rileggendo la formazione della partita che ha condannato il Lens alla retrocessione (un pareggio per 1-1 in casa del Monaco, in cui peraltro Varane segnò) non si può fare a meno di notare la presenza di Serge Aurier, che ha un anno in più del centrale del Real Madrid e che oggi lotta per un posto da titolare al Tottenham.

 

Nonostante allora sulla panchina del Real Madrid ci fosse Mourinho, a quanto pare l’acquisto di Varane fu fortemente voluto da Zinedine Zidane – che, tra l’altro, quando provò a chiamarlo la prima volta per convincerlo a venire nella capitale spagnola fu bruscamente messo in attesa, perché Varane stava nel mezzo del suo esame di maturità. Mundo Deportivo, un quotidiano vicino al Barcellona, scrisse maliziosamente che l’acquisto di Varane era una mossa politica per far sentire importante Zidane e “fargli credere che le sue opinioni contino all’interno del club”. Un’opinione che, per quanto faziosa, allora aveva più o meno la stessa verosimiglianza di quella del presidente del Lens, Gervais Martel, che dichiarò che Varane sarebbe partito lo stesso, anche senza la retrocessione, “perché è un fenomeno”.

 

Varane è diventato definitivamente un titolare del Real Madrid solo con Carlo Ancelotti (con Zidane che gli faceva da secondo), circa tre anni dopo il suo arrivo, all’inizio della stagione 2014/15. Mourinho, nelle tre stagioni precedenti, gli ha quasi sempre preferito Pepe, una scelta che comunque sembrava logica se persino Marca (vicino invece al Real Madrid) nell’agosto del 2012 scriveva che quella formata dal portoghese e Sergio Ramos era “la coppia perfetta”. Quando ha iniziato ad essere messo in panchina, Pepe aveva ancora 31 anni, Varane 21. Forse è superfluo ricordarlo, ma il portoghese ha lasciato il Real Madrid nemmeno un anno fa.

 

Ho ripercorso sinteticamente la storia di Varane al Real Madrid prima delle quattro Champions League vinte per ricordarci che molte scelte che sono alla base del successo della squadra di Zidane che oggi sembrano facili, o scontate, in realtà non lo sono state affatto. Vedendo oggi Varane non sfigurare accanto a Sergio Ramos, impersonare forse meglio di chiunque altro quel mix di potenza atletica e raffinatezza tecnica che si richiede ad un centrale di difesa moderno, si potrebbe pensare che non poteva andare altrimenti. E in parte sicuramente è così: quanti altri centrali di difesa di 25 anni al mondo hanno effettivamente lo stesso talento di Varane?

 

C’è da dire poi che per un club dalla potenza economica del Real Madrid 10 milioni di euro sono una scommessa praticamente ininfluente, almeno a livello finanziario. Ma se non fosse andata a buon fine, il Real Madrid avrebbe comunque vinto 4 Champions League in 5 anni?

 

Non ne avremo mai la riprova, ovviamente, ma la storia di Varane ci può comunque dire molto sulla forza primordiale e insondabile della “Casa Blanca”, a partire dalla sua incredibile capacità di mantenere un certo equilibrio difensivo nonostante tutto. Innanzitutto della capacità di Zidane non solo di vedere il talento ma anche di coltivarlo, di farlo crescere con la stessa pazienza con cui si cura un bonsai. «[Zidane] mi incoraggia ad assumermi più rischi, esaltando le qualità che possiedo», ha dichiarato Varane a inizio stagione «La sua personalità trasmette un senso di calma, di serenità e di forza».

 

Ma anche della tendenza dei giocatori del Real Madrid di contaminarsi a vicenda, come se fossero un gruppo di artisti. Varane non sarebbe cresciuto allo stesso modo se non si fosse allenato tutti i giorni con Pepe e Sergio Ramos, un giocatore da cui d’altra parte trae beneficio anche in partita. È sicuramente vero che difendere insieme a Sergio Ramos sia più facile – e quest’anno lo si è visto ad esempio nei quarti di ritorno della Champions contro la Juventus in cui il Real Madrid senza il suo capitano sembrava poter prendere gol in qualsiasi momento – ma questo non dovrebbe farci sottovalutare anche il suo contributo.

 

 

Varane quest’anno è stato uno dei centrali tecnicamente più puliti della Liga, uno di quelli che ha sbagliato meno passaggi (1.9 lanci lunghi e 2.9 passaggi corti ogni 90 minuti) e meno tocchi in generale (0.3 ogni 90 minuti). Il centrale francese non ha di certo la creatività da regista di Sergio Ramos (che ha numeri offensivi semplicemente assurdi) e nemmeno la sua capacità sovrannaturale di coprire un quarto di campo di puro posizionamento (Carvajal non è Marcelo), ma la sua esplosività nel coprire la profondità e la sua affidabilità nel gestire del possesso basso sono un tassello imprescindibile in quel mosaico perfetto che è stato il Real Madrid in questi ultimi anni.

 

Magari è solo fortuna, e il Real Madrid e Zidane hanno goduto di un allineamento dei pianeti tale da fargli cadere dal cielo un centrale di difesa con il talento di Varane. O forse è davvero solo tutto merito di Sergio Ramos, che riuscirebbe a non far segnare la squadra avversaria nemmeno se fosse affiancato da tre sedie.

 

Ma la storia di Varane dovrebbe metterci in guardia di fronte a questo tipo di conclusioni semplicistiche. D’altra parte, lo stesso Sergio Ramos che oggi consideriamo imprescindibile arrivò a Madrid con la nomea del terzino offensivo e inaffidabile. E nel 2005, quando il Real Madrid sborsò 27 milioni di euro per acquistarlo, José Maria del Nido, allora presidente del Siviglia, dichiarò: «Nessun difensore al mondo vale tutti quei soldi».

 

L’invenzione di Casemiro, o dell’armonia a centrocampo

di Daniele Manusia

Il 27 febbraio 2016 il Real Madrid, allenato da poco più di un mese da Zinedine Zidane, ha perso in casa il derby con l’Atletico, subendo gol su un’azione cominciata da un fallo laterale battuto prima della linea di metà campo, sul lato destro del campo. Dopo un paio di rimpalli successivi alla rimessa, Griezmann riceve spalle alla porta e si gira controllando la palla di suola, scappando via a Modric che prova prima a impedirgli di girarsi e poi a fermarlo in scivolata. Griezmann porta palla fino al limite dell’area, Isco rinuncia quasi subito a inseguirlo mentre Toni Kroos lo segue da qualche metro di distanza, senza mai accelerare. Griezmann la scambia con Luis Filipe che gliela ridà di prima all’indietro e poi tira di prima nell’angolino, calciando di piatto indisturbato dal centro dell’area di rigore, con la difesa del Madrid molto bassa (Carvajal ha dovuto coprire su Filipe Luis, Varane era occupato dall’inserimento di Koke e Sergio Ramos fin dall’inizio dell’azione teneva d’occhio Fernando Torres).

 

È stata la prima sconfitta in campionato di Zidane. Adesso chiudete gli occhi e chiedetevi: chi mancava nell’azione qui sopra?

 

Ok, non voglio barare dicendo che il Real Madrid, poi, non ha più subito transizioni di quel tipo, anche perché non esiste un giocatore da solo in grado di coprire in tutte le situazioni, una porzione di campo grande quanto vogliamo, contro qualsiasi giocatore. Uno di quei giocatori che però ci va più vicino, è proprio Casemiro.

 

Sono tornato a raccontare un gol dell’Atletico in un derby di più di due anni fa perché se oggi sembra naturale immaginare il centrocampo del Madrid con Casemiro pronto a coprire le spalle di Modric e Kroos (e quelle di Marcelo e Carvajal), quando Zidane ha preso in mano la squadra non era una mossa così scontata.

 

Casemiro aveva giocato poco con Benitez e Ancelotti, che aveva preferito mandarlo in prestito al Porto. Ma più che per dimostrare il talento nella scelta di un singolo giocatore che altri avrebbero tenuto ai margini (e che Zidane descriveva come perfetto, pur sapendo che Casemiro è tutto tranne un giocatore perfetto) il suo ingresso in squadra è significativo se si tiene conto dell’equilibrio che ha portato nella squadra di Zidane. Soprattutto, simboleggia meglio di qualsiasi altra scelta di Zidane in questi anni, quel “sistema” di forze che è stato il suo Real Madrid, in cui il talento di un giocatore ne influenzava altri due o tre, e a sua volta era influenzato da alcuni compagni che ne coprivano i difetti e ne esaltavano le qualità.

 

Ad esempio, un’altra cosa che ormai tutti sanno di Casemiro è che quando il Real è in possesso palla, e Modric e/o Kroos si sono abbassati a far uscire la palla dalla difesa, lui si toglie letteralmente dai piedi. Sta bene attento a non sporcare linee di passaggio utili verso gli attaccanti e se la palla deve passare dai suoi piedi si limita ad appoggiarla di prima se pressato e ad azzardare un passaggio in avanti o in diagonale solo se veramente sicuro – non molti giocatori con le sue qualità difensive sarebbero in grado di giocare altrettanto intelligentemente a uno o due tocchi. Casemiro si sposta in avanti, dove può tirare da fuori (e ha segnato gol importanti, il Napoli li ricorda bene) e portare pressione a ridosso dell’area avversaria.

 

Quale altra squadra di prima fascia fa una cosa del genere? Quale altro centrocampista gioca in questo modo?

 

Casemiro è il punto di equilibrio, un’invenzione unica (chissà se verrà replicata dal prossimo allenatore, non è detto) al pari dell’altra intuizione geniale di far giocare Isco vertice alto del centrocampo a rombo, che ha cambiato faccia al Real Madrid quando tutti pensavano di conoscerlo già, dopo la prima Champions League vinta (in questo senso, ci sono almeno due diversi centrocampi del Real Madrid di Zidane da ricordare).

 

 

Si può discutere se Kroos-Casemiro-Modric sia il miglior centrocampo al mondo di questi ultimi anni, ma di certo è stato il più unico e peculiare. Nessuno dei tre avrebbe giocato così bene in un sistema diverso, con compagni diversi, ma ognuno dei tre ha giocato a dei livelli irraggiungibili rispetto a quasi tutti gli altri centrocampisti al mondo. Quante altre squadre vi vengono in mente che hanno fatto giocare insieme, contemporaneamente in campo, due dei centrocampisti più tecnici degli ultimi anni?

 

Persino in quest’ultima stagione, in cui Modric è sembrato leggermente in calo, pochissimi si avvicinano alla sua sensibilità nel controllare e calciare la palla (con tutte le parti del piede destro, con un uso particolarmente eccezionale dell’esterno, che ricorda davvero Zidane). Né, in una stagione in cui il centrocampo del Real Madrid ha avuto un controllo tecnico minore su un numero elevato di partite, ci sono molti giocatori che hanno espresso una purezza geometrica paragonabile a quella di Kroos, alla sua precisione e alla sua visione di gioco.

 

Perché se Casemiro esprime il suo gioco anche in assenza, Modric e Kroos sono due numeri dieci leggermente arretrati, chiamati a conservare palla, a impreziosirla anche nelle situazioni più statiche. Due trequartisti in origine diventati playmaker vecchio stile, due giocatori che influiscono sulla partita decidendone il ritmo e la direzione.

 

Del Real Madrid di Zidane dovremo ricordarci anche di questo centrocampo unico, che se oggi ci sembra “normale”, o persino scontato, è solo perché ZZ ha trovato il modo di farlo funzionare al meglio.

 

 

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