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Giovanni Bongiorno e Gianluca Faelutti
Cosa abbiamo imparato da UFC 235
06 mar 2019
06 mar 2019
Ad esempio, che Diego Sanchez è immortale e Kamaru Usman è il miglior Welter in circolazione.
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Giovanni Bongiorno e Gianluca Faelutti
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L’UFC attraversa da diverso tempo un periodo non troppo florido per quanto riguarda l’organizzazione di eventi di una certa importanza. Le ultime card numerate sono state piuttosto deludenti, non soltanto in termini di spettacolo, ma anche di prestigio. UFC 234 aveva perso gran parte della propria attrattiva quando è saltato, all’ultimo, il match di maggior interesse tra Robert Whittaker e Kelvin Gastelum; UFC 233 invece ha visto rimandare uno dei suoi incontri più interessanti, quello tra Ben Askren e Robbie Lawler, dirottato poi in quest’ultima card. Anche andando più indietro, a UFC 232, tolti i fuochi d'artificio di Amanda Nunes e Chris Cyborg, non ha brillato il main event, dove Jon Jones ha passeggiato su Alexander Gustafsson. Per questo c’erano molte aspettative sull’evento di sabato notte, UFC 235, che aveva tutte le carte in regola per riportare la magia delle grandi notti.

 




 

Oltre alla card principale, UFC 235 ha regalato agli appassionati alcuni incontri d’interesse assoluto nei preliminari. Come quello di Diego Sanchez, che dopo un continuo girovagare fra le categorie nell’ultima parte della carriera ha deciso di tornare alle origini, nella categoria che, insieme a quella dei Medi, gli ha riservato le maggiori fortune: quella dei Pesi Welter. I fan old-school ricordano Sanchez - l’unico tra i partecipanti alla prima edizione di

, il reality che ha di fatto dato il via al successo mediatico dell’UFC, andata in onda la bellezza di 14 anni fa - come un brawler senza paura, sfrontato, capace di battere avversari del calibro di Nick Diaz, Joe Riggs e Takanori Gomi. Quel fighter non ha lasciato il posto a una versione più morigerata di sé stesso, come spesso accade, perché c’è un unico e solo Diego Sanchez.

 

Ci ha provato, Diego Sanchez, a essere più conservativo, ma con scarsi risultati. Snaturandosi, e rischiando di perdere anche dei match per decisione. Tornato in “brawl mode”, Sanchez è stato battuto a causa dei colpi subiti che ne hanno indebolito il mento (l’accumulo dei danni è inevitabile per un mattatore con 40 battaglie alle spalle), ma negli ultimi due anni, complice probabilmente il fatto d’aver combattuto meno, ha sfoderato due prestazioni sensazionali.

 

L’ultima è quella di sabato notte, contro Mickey Gall, che ha costruito il proprio hype distruggendo quello (ingiustificato) di CM Punk e Sage Northcutt, Sanchez è sembrato davvero quello “di una volta”. Una prestazione che ha visto nei cambi di livello e nel pressing perpetuo dell’avversario la giusta chiave per la vittoria. Sanchez non ha avuto fretta, ma ha stremato Gall, finalizzandolo in ground and pound nel corso del secondo round.

 

Dopo l’incontro Sanchez ha detto che il suo sogno è sempre quello di diventare campione del mondo e che grazie al suo allenamento non invecchierà. Speriamo sia vero e che combatta per sempre.

 




 




 

Cirkunov è un fighter di origine lettone, dotato di un wrestling potente, che ha avuto un grande impatto al suo arrivo in UFC vincendo i suoi primi 4 match in modo molto convincente. Poi però ha visto affievolire le sue aspettative in seguito a due brutte battute d’arresto, prima contro Volkan Oedzemir, poi contro un veterano come Glover Texeira, solo in parte riscattate dall’ultima vittoria su Patrick Cummins.

 

Johnny Walker invece era soltanto al suo terzo match nella promotion, ma le sue precedenti vittorie hanno generato scalpore: per il suo atteggiamento provocatorio e scanzonato, ma soprattutto per i suoi devastanti KO, che in entrambe le occasioni gli sono valsi il bonus della

Infine anche il fatto che abbia solo ventisei anni lo rende potenzialmente un prospetto di grande interesse in una categoria, quella dei Massimi Leggeri, che di certo non abbonda di nuovi talenti.

 

Passano esattamente trenta secondi dall’inizio delle ostilità e Walker compie qualcosa di assolutamente strabiliante, eseguendo una flying knee perfetta che impatta con spaventosa violenza in pieno volto Chirkunov, che crolla a terra e viene finito dal solito impetuoso ground and pound.

 

https://www.youtube.com/watch?v=LOP8E6W6tk4

Bella musica.


 




 

Ma il match più interessante tra quelli che hanno preceduto la card principale, l’ultimo (una posizione strategica che ospita spesso incontri di un certo rilievo), è stato quello tra una delle più grandi promesse viste negli ultimi tempi, Zabit

- daghestano atipico perché a un grappling d’elite, com’è consuetudine per i fighter di quella provenienza, aggiunge uno striking estroso, creativo e spettacolare - e Jeremy Stephens - fighter assolutamente pericoloso, esperto, con grande forza fisica e mani pesantissime.

 

L’incontro inizia con i due che si studiano per un paio di minuti, poi il match si apre con Stephens che avanza, ma fatica a chiudere la distanza a causa del velocissimo footwork del suo avversario. Stephens impone un volume di colpi più alto, ma Zabit contrappone la sua solita precisione, e nessuno dei due sembra in grado di prendere il sopravvento sull’altro, anche se è il secondo ad aggiudicarsi il round, seppur di misura. Per vincere anche la seconda ripresa, Magomedsharipov punta sul suo grappling: trova l’atterramento, poi la back mount e finisce in dominio la ripresa. C’è stato anche uno screzio al termine del secondo round, con i due che si sono spintonati vicendevolmente.

 

Nella terza ripresa però Zabit fatica a trovare il takedown ed è Stephens a prendere l'iniziativa; Magomedsharipov si dimostra come sempre molto elusivo, però fatica a contrattaccare in maniera efficace. Stephens sa che deve finalizzare o vincere la ripresa in modo davvero dominante se non vuole andare incontro alla sconfitta; Magomedsharipov dal canto suo accetta di concedere la ripresa all’avversario, ma non vuole prendersi rischi. Stephens mette anche buoni colpi, ma non riesce a essere continuo, Zabit si muove bene con il corpo e ne manda a vuoto la maggior parte, il match finisce con uno scambio aperto che infiamma il pubblico. Alla fine vince Zabit vince ai punti, 29-28, contro un avversario ostico, una vittoria che conferma tutto ciò che di buono è stato detto su di lui.

 




 

Cody Garbrandt, reduce dalla doppia sconfitta titolata contro TJ Dillashaw, cercava il riscatto contro Pedro Munhoz, fighter talentuoso, completo e reduce da 7 vittorie negli ultimi 8 incontri (una striscia di vittorie peraltro interrotta da una decisione non unanime contro John Dodson). Il match è cominciato a ritmi alti, con Munhoz che ha sorpreso Garbrandt intercettando un leg kick e andando a colpire con l'overhead. Il match si fa incandescente dopo pochi secondi: a metà ripresa Garbrandt dà spettacolo con le sue celebri schivate, ma a un minuto dal termine del round è ancora Munhoz a sorprenderlo con l'overhead sinistro, che stavolta impatta con maggiore violenza e piega le gambe a Garbrandt, che reagisce riportandosi immediatamente in piedi e s’immola - è il caso di dirlo - in un’aggressione feroce ai danni di Munhoz.

 

L’iniziativa, che dapprima appariva giustificata come reazione al knockdown appena subìto, non si placa e con il passare dei secondi, questo attacco a due mani, da brawler, con persino due spettacolari flying knee tentate, appare invece sempre più scriteriato e fuori controllo. Munhoz si copre con efficacia e accetta lo scambio selvaggio, mandando ancora una volta knockdown Garbrandt, stavolta arrivando alla finalizzazione, a pochi secondi dal termine del round.

 

È la vittoria più prestigiosa nella carriera di Munhoz, contro l’ex campione di categoria, che potrebbe addirittura aprirgli la strada per un match titolato. È invece una pessima sconfitta per Cody Garbrandt, fighter dal talento sconfinato, ma incapace di mantenere la lucidità necessaria nei momenti chiave del match, segno inequivocabile dell’incapacità da parte dell’ex campione di trarre insegnamento dalla doppia sconfitta con TJ Dillashaw, dove si erano palesati i medesimi limiti.

 



 




 

Quello tra la fighter cinese Wili Zhang - dal record corposo che segna 19 vittorie e una sola sconfitta - e Tecia Torres (10-4), era l’unico match femminile nella card. Torres è una combattente di prima fascia, non è mai stata finalizzata in carriera e le sue 4 sconfitte sono arrivate per mano di Joanna Jedrzejczyk, Jessica Andrade, Rose Namajunas e proprio Weili Zhang: il meglio del meglio.

 

Torres è una macchina da punti, tutti i suoi match - eccetto uno - sono finiti per decisione. È solida e rapida, in perfetta in antitesi con lo stile di Zhang, meno mobile nel breve spazio ma capace di affondare bene verticalmente grazie a un ottimo footwork e a colpi secchi e precisi mutuati dalle arti marziali tradizionali.

 

A quota 3-0 in UFC, Zhang si è guadagnata il diritto di essere vista come una potenziale minaccia alla top 5 di categoria, grazie allo stile sfrontato, alla capacità di sostenere scambi pesanti e alla predisposizione all’avanzamento. La fighter cinese è una combattente dall’arsenale incredibilmente vario: con 9 vittorie per KO o TKO e 7 per sottomissione (una delle quali contro Jessica Aguilar in UFC) è senz’altro una delle fighter più interessanti del momento.

 

Contro Torres, con una serie di attacchi in spinning, alcuni dei quali andati fuori misura - perché Torres era attenta ad accorciare ogni volta che vedeva Zhang spostarsi su un lato - la fighter cinese ha imposto ritmo e distanze del match, non subendo mai davvero la sua avversaria. La sua gestione dei momenti è già quella di una veterana, è composta e aggressiva e ha messo anche a segno degli ottimi takedown, dominando la sua avversaria da terra e mettendo anche delle belle gomitate corte.

 

Due dei giudici hanno decretato la vittoria per Zhang con un punteggio di 30-27, uno di 29-28. Dopo una decisione unanime molto convincente, Zhang si prepara ad affrontare un’avversaria dei piani alti della divisione.

 


Foto di Isaac Brekken / Getty Images.


 






L’hype che accompagnava Ben Askren (19-0, 1 NC) all’esordio in UFC era stato più volte messo in dubbio, sia da fan che da osservatori attenti. La mistificazione del wrestler imbattibile aveva vacillato solo contro Luis Santos, in un match a ONE Championship (nell’aprile del 2015), terminato in No Contest a causa di un eye poke da parte di Askren.

 

Dopo quel match, 4 vittorie di fila e infine il ritiro momentaneo, prima di tornare sui propri passi e tentare l’avventura in UFC. Gli ha dato il benvenuto una leggenda come Robbie Lawler (28-13), che non ha bisogno di presentazioni.

 

L’inizio del match è stato fulminante: Askren tenta un takedown, Lawler difende e poco dopo prende le redini in clinch e con una potentissima slam fa perdere per un attimo la concezione di sé ad Askren, che arrivato al tappeto subisce un brutale ground and pound.

 




 

Askren però torna a difendersi dopo poco, sopravvive, come si dice in questi casi. Molto lentamente si riporta in piedi, sembra essere stremato, ma è noto a chi lo segue che è un motore diesel: porta a parete Lawler, che si difende ancora in maniera eccellente, mettendosi spalle a parete e riservando ancora una dura punizione tramite colpi di ginocchia all’ex campione Bellator e ONE. Il lento lavoro sporco a parete di Askren pian piano dà i suoi frutti: Lawler prima tenta degli sprawl sui tentativi di double-leg da parte di Funky Ben, ma poi deve arrendersi alla sua maggiore esperienza nella fase lottatoria.

 

Messo a terra, Askren controlla il polso di Lawler, che è costretto a girarsi e dare la schiena. Nello scramble, girandosi, Lawler concede il collo e Askren chiude una bulldog choke. Mentre Lawler tiene la testa di Askren, lascia andare il proprio braccio a terra. Sembra svenuto e l’arbitro Herb Dean lo tocca per sincerarsi che sia tutto OK, gli parla anche ma Lawler - dirà dopo - non riesce a sentirlo perché ha entrambe le orecchie chiuse da Askren. Lawler accenna un timido pollice alto, ma l’arbitro forse non lo vede e decide di interrompere il match. Lawler schizza in piedi e si lamenta.

 



 

Si trattava di una scelta difficilissima per l’arbitro, non totalmente colpevole su uno stop che però sembra leggermente prematuro. I dubbi potrebbero essere sciolti con un rematch. Intanto, Ben Askren esce ufficialmente trionfante dal suo esordio in UFC grazie a una reazione coriacea e a una bella bulldog choke.

 




 

La cintura dei Welter in possesso di Tyron Woodley, strappata a Robbie Lawler e difesa in maniera così convincente contro Darren Till, Stephen Thompson e Demien Maia, sembrava difficile da scalfire. Kamaru Usman, però, ha avuto

e la sua ascesa di 9 vittorie consecutive sembrava molto convincente - tanto da spingerci a inserirlo alla posizione numero 4 nella lista dei

. Così, dopo l’ultima vittoria dominante su Rafael Dos Anjos, la promotion ha deciso di dare a lui e non a Colby Covington - campione ad interim - la chance titolata.

 

Il nigeriano inizia il match con il suo consueto gameplan, conservativo ma costantemente attivo, che si concretizza in un costante avanzamento e nella capacità di accorciare le distanze, per poi costringere a parete i propri avversari e da lì far valere il grappling asfissiante. Il campione, che dal canto suo si trova spesso a proprio agio spalle a parete, finisce per subire l’iniziativa di Usman. Quella di Woodley era, stando alle statistiche, la miglior difesa ai takedown di tutta la UFC, ma dopo soli trenta secondi dall’inizio Usman trova l’atterramento con un single leg takedown, e da lì ha martellato incessantemente di colpi al corpo il campione, impedendogli per di più di essere incisivo nelle rare occasioni dove si trova a distanza.

 

Alla fine della prima ripresa sono già 68 i colpi portati da Usman, dei quali 22 significativi.

 



 

Nel secondo round, Usman non cambia il suo atteggiamento, costringendo Woodley, troppo timido a parete, a una pressione costante. Dopo un minuto e mezzo Usman non soltanto trova un altro atterramento, con uno splendido body lock, ma ottiene con altrettanta facilità la monta, senza perderla fino alla fine del round, riducendo al minimo le possibilità di Woodley di poter sfuggire alla sua posizione dominante e colpendolo ripetutamente dal ground and pound.

 

Nel secondo round Woodley riuscirà a colpire il suo avversario soltanto una volta.

 



 

Nella terza ripresa Usman non riesce a essere particolarmente efficace dal clinch, ma

(saranno addirittura 45 i colpi significativi andati a segno in questa ripresa) e questo finisce per neutralizzare qualsiasi tipo di reazione da parte del campione, che appare disorientato, troppo preoccupato nel difendere il takedown di Usman da poter pensare a qualcos’altro.

 

Siamo grossomodo a metà del match quando in sovraimpressione appare una cifra emblematica del lavoro instancabile dello sfidante: 105 colpi al corpo. Dopo trenta secondi dall’inizio del quarto round, Woodley si trova già a parete e

, ma così finisce per trovarsi nella full guard. Dopo che Goddard ha fatto ripartire il match in piedi per inattività, lo sfidante prima si rende pericoloso con le ginocchiate dal clinch e poi dimostra di non avere nessuna paura a scambiare con Woodley, aprendo uno scambio feroce dove riesce adimpattare con combinazioni di montanti e ganci.

 

Il quinto round è una formalità perché Usman non vuole rischiare nulla e Woodley, che in questo match di energie sembra non averne mai avute, è sfinito e cerca soltanto di limitare i danni.

 

Impressionanti al termine dell’incontro i numeri di Usman: 336 colpi totali, di 141 significativi, e 17:51 minuti di controllo. Ma la misura della grandezza della prestazione di Usman ce la da ancor di più, per contrapposizione, il grigiore della performance di Woodley, che ha finito il match con 34 colpi significativi, dei quali soltanto 12 alla testa.

 

Usman strappa così la cintura a Woodley con un dominio assolutamente sbalorditivo all’interno di un match mai in discussione, imponendo in maniera travolgente il suo wrestling su uno dei migliori grappler del roster, che ha fondato parte del suo dominio proprio su quel grappling difensivo. A fine match, Usman dice a Joe Rogan di non essere il miglior striker, né il miglior grappler, ma di essere il miglior welter quando mischia queste cose insieme.

 




 

Il main event di UFC 235 è finito in modo tutto sommato prevedibile: con un dominio incontrastato del campione dei Massimi Leggeri, Jon Jones, alla sua prima difesa della cintura.

 

Jones

contro un generoso Anthony Smith, colpendolo dalla distanza, cambiando guardia a piacimento, colpendo con dei precisi colpi in girata, side kick, gomitate e chi più ne ha, più ne metta, cementificando così il proprio dominio in una divisione che può essere salvata - a livello di competitività - solo dalle nuove leve. Jones ha colpito dalla distanza andando sempre a segno sul suo avversario, mandandolo a vuoto nei rari e vani tentativi di ritorno e mettendo a segno inizialmente in maniera piuttosto semplice gli atterramenti. Smith è stato lentamente demolito e al termine della quinta ripresa sembrava sfinito e totalmente fuori posto.

 



 

Nonostante Jones abbia vinto tutte e cinque le riprese e non abbia forzato troppo per cercare la finalizzazione, nel corso del quarto round

al volto di Smith mentre era ancora a terra, che gli è costata ben due punti. Un’altra squalifica sfiorata, un fantasma che riaffiora, quello ormai lontano della battaglia contro Matt Hamill che gli costò la prima e unica sconfitta in carriera. Jones si è addirittura inginocchiato e si è fatto il segno della croce mentre Herb Dean riguardava il replay, per sua fortuna Smith non ha pensato neanche per un secondo ad approfittarne e dopo una breve pausa è tornato a combattere. Ma il dislivello era troppo alto.

 

Il grande allungo e la gestione delle distanze, oltre alle maniacali attenzione e concentrazione che contraddistinguono Jones, hanno fatto sì che il campione portasse a casa la vittoria abbastanza agilmente, dopo aver costretto il suo avversario spalle a parete, devastandolo tramite calci obliqui, headkick (brillantemente parati da Smith), gomitate e buoni diretti per spaccare la guardia di Smith. Per intenderci, un po’ di statistiche: Jon Jones ha controllato per ben 11 minuti e 47 secondi la fase di clinch, Smith solo per un secondo. Tradotto: un ribaltamento di posizione durato un battito di ciglia, per tornare poi sui binari del treno Jones.

 

Ancora: 125 colpi significativi da parte di Jones, solo 36 da parte di Smith. Una differenza impietosa, che sottolinea il livello diverso a cui appartengono i due fighter. 3 takedown su 8 messi a segno da Jones, che comunque tocca la gamba dell’avversario e cambia livello anche solo per far cambiare il set-up e la guardia, costringendolo a entrare nel suo raggio d’azione e dominandolo su ogni piano del combattimento. Il punteggio finale vede una decisione unanime di 48-44 per Jones da parte di tutti e tre i giudici.

 

La domanda è sempre la stessa: chi può fermare Jones?

 

I vari Walker e Reyes hanno l’esperienza necessaria per affrontare il dominatore di Endicott?

 

Thiago Santos ha fatto abbastanza per guadagnarsi la title shot?

 

… qualcuno ha fatto il nome di Daniel Cormier???

 

Le risposte a queste domande le daranno i vertici UFC. Intanto Jones si dimostra ancora una volta l’unico e solo re incontrastato dei Pesi Massimi Leggeri e uno dei migliori di tutti i tempi, doping permettendo.

 

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