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Antonio Pugliese
Tassonomia del traghettatore
27 nov 2023
27 nov 2023
Sette categorie per classificare gli allenatori chiamati a salvare una stagione.
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Antonio Pugliese
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credits: IMAGO / NurPhoto
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È novembre: Cioffi è tornato sulla panchina dell'Udinese, Andreazzoli su quella dell'Empoli, Mazzarri su quella del Napoli (questo non lo avevamo visto arrivare). L’alternanza delle stagioni è ancora intatta in Serie A. A noi non sembra strano che molte squadre cambino guida tecnica già a questo punto della stagione, ma è davvero la normalità? Anche all'estero ci sono cambi di panchina a stagione in corso, ovviamente, ma non sembrano così frequenti come in Italia, e in ogni caso di solito sono accompagnati da un cambiamento radicale di progetto tecnico. Certo, non è una regola, ma forse non è un caso se all’estero sono molto più frequenti i casi di allenatori giunti a stagione in corso poi vincitori a maggio. Da nessun’altra parte, almeno tra i campionati di maggiore rilevanza, la questione assume un carattere sistemico come in Italia, dove nel tempo è sorta un'intera categoria di specialisti. Allenatori abili a saltare al volo su squadre come se fossero treni in corsa, aggiustarle con pochi cambiamenti, renderle più funzionali rispetto ai predecessori. Le società, da loro, non pretendono successi, né nel breve né nel lungo periodo, ma solo di salvare la stagione, per poi ricominciare da zero una volta che ne inizia una nuova, spesso scegliendo un allenatore diverso.

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Sì, insomma, i traghettatori. Allenatori che siamo abituati a considerare come ministri di un governo tecnico, specialisti in tempo di crisi. Che ci fanno dimenticare che nessuno vuole davvero lavorare in un periodo di transizione, che ogni allenatore preferirebbe costruire la stagione a luglio. In ogni caso, i traghettatori hanno un posto speciale nel nostro cuore, anche se non sempre riescono a raggiungere l'obiettivo finale. Per questo motivo ho cercato di classificarli per categorie, per una tassonomia di una specie che si spera possa rimanere endemica del nostro Paese. Gli “scossisti”: Cavasin, Capuano, Gattuso I traghettatori più conosciuti e di dominio pubblico: spesso piazzisti, con lo sguardo duro, caotici in mezzo al caos, le figure più amate da quella frangia di tifosi che sogna di fare irruzione negli spogliatoi quando le cose non vanno per il verso giusto. Sono gli allenatori che “danno la scossa”, io li chiamo gli “scossisti”. Tecnici che aspirano a comportarsi come Eziolino Capuano ai tempi dell’Arezzo: entrare nello spogliatoio con l’intenzione di distruggerlo e, in tre minuti di sfuriata, farsi scappare anche un: «io vi squarto» (Capuano alla fine ha quasi mantenuto fede alla promessa, ammettendo con tranquillità di aver «preso a pugni diversi calciatori»). Populisti, e amati in quanto tali, gli “scossisti” sono sempre pronti a paragonare lo stipendio dei giocatori a quello di un operaio, a decantare la propria provenienza proletaria, facendo contestualmente riferimento ai privilegi della categoria. Gli “scossisti” bastonano - pubblicamente ma forse anche, in senso letterale, in privato - quel giocatore indolente che «pensa di essere fenomeno» o «chi pensa di fare sceneggiate alla Mario Merola».

Il machismo tossico, l’esibizione di una retorica forzatamente piena di testosterone, è un topos degli “scossisti”. Uno dei loro esponenti più in vista, “Ringhio" Gattuso, una volta ha ammesso: «mi dispiace, ma le donne nel calcio non le vedo molto bene». C’è chi, come il solito Capuano, ricorre alla metafora col mondo animale per dipingere lo spirito guerresco che vorrebbe infondere: celebre il paragone tra i propri giocatori e delle «scrofe assatanate, vogliose sempre di aggredire». Gli “scossisti” arrivano e pretendono di rappresentare la legge marziale. Ci riescono? Non sempre, e comunque non vengono quasi mai riconfermati, come quei generali che diventano famosi solo in tempo di guerra ma poi ritornano nelle caserme. Richiamati nel momento del bisogno, è difficile che cadano nel dimenticatoio, perché la fama li precede e sovrasta i loro risultati, dimenticati in fretta. Sono figure ingombranti, gli “scossisti”, spesso svelano gli alibi delle società nella costruzione di una rosa lacunosa. Sullo sfondo degli atteggiamenti descritti rimane poi la motivazione esistenzialista: chi approccia in questo modo al mestiere professa di "giocarsi la vita in ogni partita", "dicendo sempre quello che penso", e stabilendo, nel caso di Gattuso, un rapporto intimo con la morte, l'unica cosa realmente temuta, combattuta opponendole una vitalità necessariamente estrema, come un tossico che oscilla tra gli effetti di cocaina ed eroina ed usa entrambe le sostanze in contrasto l'una all'altra. I peggioratori:Montella, Giampaolo, Lampard Artisti incompiuti nella maggior parte dei casi, allenatori col curriculum decaduto negli anni a seguito di insuccessi che li hanno costretti a vivere di "espedienti", ovvero accettare anche le panchine più improbabili pur di rimanere nel giro. Le società per qualche ragione si fidano di loro, pensano che non sia mai tardi per l'ultimo treno, per dimostrare di non essere "bolliti". Ogni volta, però, dopo il loro arrivo la situazione tende a peggiorare. Per questo li chiamo i “peggioratori”. Sembra che il loro unico scopo sia mettere in evidenza i problemi di squadra e società, cartine di tornasole buttate via una volta segnalato il problema. Prendete come esempio Di Francesco, non proprio un traghettatore visto che in questi anni non è mai arrivato a stagione in corso: prima di redimersi a Frosinone, sembrava in grado di corrodere anche l’ambiente più sereno, che avrebbe ritrovato tranquillità solo dopo il suo addio. I “peggioratori" hanno lo stile di chi ha visto la propria azienda fallire e si è messo a fornire consulenze. Caratteri a metà tra Wanna Marchi e Stefania Nobile, offrono corsi di vendita online in cambio, ovviamente, di lauti compensi. Non sempre le cose peggiorano con il loro ingaggio, va detto: si pensi al rendimento della Turchia da quando è arrivato Montella. Al contrario degli "scossisti", paradossalmente, con i “peggioratori” è più facile intravedere la luce alla fine del tunnel: si tratta pur sempre di tecnici con un valore di fondo, che ad un certo punto della carriera sembravano promettere un grande futuro e che magari hanno bisogno di ritrovare la scintilla. Ammirabile, in questo senso, la rinascita di Giampaolo, partita nel 2015 ad Empoli, dopo anni di purgatorio che lo avevano portato addirittura in Serie C. Il problema principale per i “peggioratori” è spesso la fede cieca in determinati principi di gioco, difficili da impiantare a stagione in corso: esemplificative le 5 sconfitte di fila che portarono la Fiorentina di Montella, arrivato ad aprile 2019, a conquistare la salvezza solo all’ultima giornata contro il Genoa (entrambe riuscirono a scampare la Serie B dopo uno 0-0 a suo modo leggendario). O ancora, l'ultimo scorcio di carriera di Frank Lampard, mai in grado, tra Everton e Chelsea, di migliorare il rendimento delle proprie squadre rispetto ai predecessori (col Chelsea, lo scorso anno, è passato addirittura dall’undicesimo al dodicesimo posto). Se si passa da un esonero all’altro diventa complicato trovare una panchina a luglio: si entra così in un vortice di fallimenti da traghettatori. Pare che Montella stia per uscirne, ma sappiamo che basta poco per rientrare nel giro.

I vincenti: Flick, Tuchel, Di Matteo, Hiddink Arrivano in punta di piedi, se ne vanno da protagonisti. Dopo la riconferma, di solito la scintilla si spegne nella stagione successiva e vengono mandati via. I titoli, però, restano. I vincenti di solito sono grandi tattici – d’altra parte vincere arrivando a stagione in corso presuppone grande disponibilità al compromesso – e riescono a convincere tutti in poco tempo grazie ad una personalità in grado di far presa su dirigenza in spogliatoio. Tuchel nel 2021 ha rappresentato la massima espressione della categoria. Giunto a Londra col Chelsea nono, ha rimontato fino al quarto posto senza mai perdere fino a fine stagione e, soprattutto, ha condotto i blues alla vittoria della Champions con una serie di partite preparate ad hoc sui limiti degli avversari, semifinale col Real Madrid e finale contro il Manchester City su tutte. Tuchel è riuscito a sfruttare l'indole operaia di una squadra sprovvista di leader tecnici ma priva di veri punti deboli. Il Chelsea sembra possedere una speciale predisposizione per questo tipo di allenatore. Ne sono una dimostrazione Avram Grant, finalista della Champions 2007/08 dopo aver sostituito Mourinho a stagione in corso, Guus Hiddink, il mister Wolf della gestione Abramovich, capace di mettere in bacheca una FA Cup, e, soprattutto, Roberto Di Matteo, vincitore di una Champions ancora più epica di quella di Tuchel, con Drogba a fare da trascinatore nei momenti più complicati. I “vincenti” segnano dei punti di svolta nella storia del calcio e sembrano sempre sull’orlo dell’estinzione. Finché ci saranno presidenti autoritari e invadenti, e forse al Chelsea ne esisterà sempre uno, questa specie, però, non sparirà mai del tutto. Gli “Ortro”, oil duo improbabile: Pulga/Lopez, Viviani/Schelotto, Zaffaroni/Bocchetti Li chiamo gli “Ortro”, come il cane, fratello di Cerbero, che aveva due teste e la coda da serpente. Sono figure così rare che quando la scorsa stagione ne è stata avvistata una nuova al Bentegodi mi sono quasi emozionato. Mi riferisco al duo Zaffaroni-Bocchetti, coppia di allenatori arrivati in corsa sulla panchina del Verona, anche se in momenti diversi, per sostituire l’esonerato Cioffi. In una squadra da reinventare, che sembrava sempre più confusa dalle indicazioni combinate dei due, si davano il cambio nell'area tecnica come i wrestler in un tag team match, sempre un attimo prima di arrivare al KO tecnico, allo schienamento, al burnout causa stress. Ogni tanto mi domando se si possano scindere, le due anime degli “Ortro”, se siano poi davvero due persone separate. Mi viene sempre da chiedermi perché una società pensi al doppio allenatore: due mezzi allenatori ne fanno uno come in un'addizione? Lo sai che la Tachipirina 500 se ne prendi due diventa 1000, dice il poeta. Visti i risultati, viene da pensare che sia davvero così. Ma allora perché non aggiungerne un terzo? L'usato sicuro: Ranieri, Tesser, Nicola, Gotti La categoria più vasta nel microcosmo dei traghettatori, quella in cui rientra la maggior parte degli esemplari. Si tratta dei tecnici dalla personalità più tranquilla, uomini con cui sapete già di potervi sentire al sicuro, il bar di quartiere in cui vi infilate il martedì alle 7 e mezza di sera per una birra prima di tornare a casa per cena. Queste figure somigliano più a padri che ad allenatori, fanno riscoprire la voglia di giocare a calcio. Arrivano nello spogliatoio, chiedono "come stai?" e senza accorgersene la squadra si è già affidata a loro. Parafulmini per i momenti negativi, trasformeranno gruppi di giocatori modesti in squadre arcigne. Tutto ha una scadenza però e, superato un certo periodo, la carrozza torna ad essere zucca. Sarà questa la categoria di Mazzarri? I monogami: Fatih Terim, Zeman, Andreazzoli, Ballardini Gli allenatori nati per guidare una squadra, e una sola, per tutta la propria carriera. L’alchimia tra alcune piazze e alcuni mister è difficile da spiegare, evidentemente esistono dei segreti di certi ambienti di cui solo questi allenatori sono a conoscenza. Passi Ballardini, che forse con quell’aria da sbirro del G8 intimorisce i genovesi sottomettendoli come un padre freudiano. “Ballardini sembra incatenato alla panchina del Genoa come gli invitati della cena dell’Angelo Sterminatore di Bunuel”, ha scritto Emanuele Atturo qualche tempo fa. Passi anche Zeman, che da anni ormai sembra rinascere in seconde, terze e quarte giovinezze non appena mette piede a Foggia e Pescara. Ma rimane qualcosa di insondabile nel rapporto tra questi allenatori e le città che decidono di adottarli, un legame diretto con ciò che ci fa innamorare di questo sport. Due anni fa sono stato a Istanbul e un tassista, tifoso del Galatasaray, aveva la foto di Fatih Terim sul cruscotto. Ovunque proteggimi. Gli stressati: Cosmi, Malesani, Delneri, Baldini Allenatori incompresi, underdog, quelli che se la carriera fosse girata nel verso giusto magari avrebbero potuto fare di più, molto di più (e qualcuno qualcosa di più l'ha pure fatta, ma poi è sembrato aver perso il tocco, e ha cominciato a traghettare senza sosta). Sono gli “stressati”, tecnici consumati dal calcio fino all’esaurimento, e infatti hanno tutti smesso o quasi. Sono anche persone rotte, gli “stressati”, uomini con cui empatizzare. Chi non si è immedesimato almeno una volta in uno sfogo di Malesani in conferenza stampa? Chi non si è sentito come Delneri, incompreso, letteralmente, perché arrivato dalla provincia e abituato a parlare con un accento per molti incomprensibile? Sono allenatori difettosi, che per qualche motivo il calcio, ad un certo punto, ha rigettato, ma che hanno lasciato l’impressione di essere stati fraintesi. Questi allenatori, prima di tutto uomini, a tratti remissivamente aziendalisti, a tratti bellicosi, non sono mai riusciti a stabilizzarsi su una panchina a causa dello stress accumulato nel grande calcio: uno specchio della nostra fallibilità.

Incompresi e incapaci di comprendere, allenare per brevi periodi diventa condizione imprescindibile per farli esprimere a un buon livello. Frastornati dal calderone del calcio professionistico, schiacciati dalla pressione, alcuni col tempo hanno preferito il silenzio della campagna agli stadi rumorosi. Ad un tratto possono ritornare sulle panchine di squadre improbabili, altre volte li ritroviamo in TV per qualche comparsata. Con loro sorge spontaneo chiedersi che fine avessero fatto. La risposta, magari, è che stavano semplicemente vivendo, lontani da una professione che troppo spesso sembra essere alternativa a una vita normale, qualsiasi cosa significhi. Gli “stressati” se ne vanno lentamente, in silenzio. Dopo aver capito che il mondo del calcio non fa per loro, escono senza sbattere la porta, ammettendo a sé stessi che, se queste sono le regole del gioco, allora è meglio farsi da parte.

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