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Dario Vismara
Buon compleanno, LeBron
30 dic 2014
30 dic 2014
LeBron James compie 30 anni oggi. Chi era, l'atleta che vale mezzo miliardo di dollari per la sua città? E chi è diventato, oggi?
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Dario Vismara
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La sera di Natale, mentre guardavo la partita tra Cleveland Cavs e Miami Heat con alcuni (distratti) amici, una delle domande che mi sono state fatte riguardava ovviamente il peso di LeBron James: “Oddio ma quanto è dimagrito? Perché ha deciso di sgonfiarsi così?”, come se la perdita di 10 kg nel corso dell’estate fosse stata una scelta di James per diventare un

giocatore di basket, una specie di Superman che rinuncia ai superpoteri per un capriccio. L’unica cosa che sono riuscito a rispondergli è stata “perché tra cinque giorni compie 30 anni, e si è ritrovato di fronte alla sua mortalità cestistica”, lasciandoli un attimo interdetti.

 

In realtà avrei dovuto citare il fatto che LeBron ha giocato finora 34.364 minuti in regular season (76esimo ogni epoca, appena dietro a Larry Bird e davanti a Magic Johnson, per dirne due a caso) e altri 6.717 ai playoff (18esimo, a un centinaio di minuti dal sette volte campione NBA Robert Horry), vale a dire l’equivalente di 14 stagioni intere. Di questo passo, potrebbe raggiungere i primi posti detenuti da Kareem Abdul-Jabbar e Tim Duncan nel giro dei prossimi 8 anni. È chiaro quindi che, con un chilometraggio del genere alle spalle, perdere peso potrebbe permettergli di salvaguardare un po’ ginocchia e salute, perché portare a spasso 125 kg di muscoli come fa lui in campo non può non avere un enorme impatto sul suo fisico.

 

Quando gli è stato chiesto della sua dieta ad inizio stagione, però, James ha

facendo riferimento da una “sfida mentale con me stesso che non ha niente a che vedere col basket”. E di cosa sta parlando allora? Forse è proprio il suo 30esimo compleanno ad averlo portato a questa decisione, una sorta di “crisi dei 30 anni” affrontata però dal più forte cestista del mondo, che vive sotto i riflettori da quando ne ha 14. Già, i riflettori. Ma chi era LeBron James prima che il mondo si accorgesse di lui? E cosa lo ha portato ad essere quello che è ora?

 


La biografia ufficiale vuole che si inizi a parlare della sua vita in questo modo:
LeBron Raymone James nasce il 30 dicembre 1984 ad Akron, città di quasi 200.000 abitanti a 65 km da Cleveland, nello stato dell’Ohio. È figlio di Gloria James, madre appena a 16 anni, e di un padre la cui identità rimane tutt’ora (almeno pubblicamente) sconosciuta. Le ipotesi più accreditate sono due: c’è quella più “romanzata” che indica la figura di Roland Bivins — stellina liceale della squadra di basket noto per il suo sorriso ammaliante, la personalità debordante e la sua passione per le donne, tra cui certamente Gloria — morto nel 1994 a seguito di uno scontro a fuoco. L’altra, quella più probabile, porta al nome di Anthony McClelland, compagno di scuola della madre, imprigionato varie volte per crimini minori e partner occasionale di Gloria. Nonostante lei fosse rimasta incinta, lui non riconobbe mai il bambino e lo incontrò solamente quando LeBron aveva già 9 anni per fargli conoscere suo fratellastro, ma senza che il rapporto andasse oltre quel fugace incontro, anche per la freddezza del giovane James che tutt’ora nega di avere un padre. Difatti, per tutto il resto della sua carriera la domanda sul padre è rimasta tabù nella sua biografia: solo in un’occasione LeBron ha parlato pubblicamente di lui, in

nel quale lo “ringraziava” per non esserci stato nella sua vita e averlo reso quello che era.

 

Come in molte altre storie di grandi atleti americani, anche quella di LeBron è segnata da un’infanzia difficile: la nonna Freda, fulcro della famiglia a cui si appoggiavano Gloria (16 anni) e i fratelli Terry (19) e Curtis (9), muore nel Natale del 1987, il giorno in cui il piccolo LeBron riceve in regalo il suo primo canestro giocattolo. Dopo quel giorno, i tre fratelli decidono di lasciare la vecchia e decrepita casa di Hickory Street e di dividere le loro strade. Gloria e il piccolo LeBron si imbarcano in un pellegrinaggio di quasi 8 anni tra divani, camere affittate e ospitate da amici per le strade di Akron, quasi sempre rimanendo nei dintorni del pericoloso quartiere di Elizabeth Park — dove i proiettili, come in ogni storia americana che si rispetti, sono all’ordine del giorno.

 

Il carattere difficile di Gloria — che ha alle spalle diverse denunce per atti vandalici, disturbo della quiete pubblica e insulti a pubblici ufficiali — non aiuta il loro girovagare: non riesce a tenere un lavoro per più di tre mesi e la sua brutta influenza si ripercuote anche su LeBron, che in quarta elementare salta ben 87 dei 16o giorni di scuola, spesso rimanendo alzato fino a tardi a vedere la tv con la madre o attaccato ai videogiochi. A questo punto della storia entra in gioco una delle tante figure cardine della sua vita ad Akron: Frank Walker Sr., l’allenatore della sua squadra del quartiere di pee wee football.

 

Un giorno suo figlio, Frank Jr., gli comunica che LeBron non si è presentato in classe dopo le vacanze di Natale e il capofamiglia decide di andare dai James per fare un’offerta a Gloria: “Lascia che LeBron venga a stare da me, sistema la tua vita e torna a trovarlo nel weekend”. I James accettano, e LeBron per la prima volta in vita sua conosce la disciplina: sveglia alle 6:15, preghiere, scuola, compiti, pulizie domestiche e poi — solo poi — tutto il resto, a partire dal basket, a cui giocava contro Frank Jr. dietro casa perdendo regolarmente perché non aveva idea di come gestire quel corpo. Frank Sr. però si accorge del suo talento innato per il gioco e lo indirizza verso la pallacanestro, che a quel tempo veniva molto dopo il football, la vera passione del giovane James.

 




 


La svolta arriva con il secondo three-peat di Michael Jordan, che fa esplodere nel piccolo LeBron la sua voglia di “essere come Mike”, e i tornei della AAU, dove conosce l’allenatore Dru Joyce II, suo figlio “Little” Dru Joyce III, Sian Cotton e Willie McGee, ovverosia i protagonisti delle “Shooting Stars”, una delle migliori formazioni del circuito AAU di sempre. Il nome di LeBron inizia a circolare tra gli addetti ai lavori dello stato e la sua scelta per il liceo è già un piccolo evento: tutti si aspettano che i tre giocatori scelgano di andare a Butchel High School, scuola a maggioranza afro-americana dove allenava Joyce II, ma “Little” Dru sa che in quella squadra non avrebbe avuto la possibilità di giocare — per via del padre allenatore e del fatto che non arrivava all’1.50 — e perciò decide di andare a St. Vincent-St. Mary, scuola a maggioranza bianca dove allena Keith Dambrot, che ha un passato nella Division I NCAA ma sta ricostruendo la sua carriera dalle ceneri di una brutta storia di razzismo (cercando di spronare i suoi giocatori durante un timeout, aveva usato la frase “You’ve got to play like niggers”, suscitando le reazioni che potete immaginare della scuola e dei genitori).

 

LeBron si lascia trascinare dagli altri — che considera

i fratelli che non ha mai avuto — e va a SVSM, dove conosce altre figure fondamentali della sua vita: diventa amico del centro titolare della squadra, Maverick Carter, che dopo il college lavorerà per Nike (che ci aveva già visto lunghissimo su LeBron…) e diventerà il suo “braccio destro”; inoltre conosce Rich Paul e Randy Mims, entrambi compagni di scuola, che insieme a LeBron e Maverick fonderanno la LRMR, la società che gestisce gli interessi della multinazionale LeBron James; e Savannah Brinson, sua futura moglie e madre di tre figli.

 

Inoltre in squadra arriva Romeo Travis, che insieme a LeBron, Little Dru, McGee e Cotton forma i “Fab Five”, sulla scia di quelli di Michigan che all’inizio degli anni '90 rivoluzionarono il basket NCAA. Anche loro, a modo loro, sono una piccola rivoluzione: nei quattro anni passati insieme vincono tre titoli statali, ma è soprattutto la figura di LeBron a cambiare totalmente la percezione dell’atleta liceale a livello nazionale. LeBron James diventa il primo teenager a fare notizia sui grandi network televisivi e sulla stampa sportiva, le sue partite vengono seguite e trasmesse su ESPN2 e in pay-per-view (arrivano addirittura anche in Italia, su Tele+), ed è sostanzialmente lui il primo giocatore per cui viene coniato il termine hype nell’accezione moderna, ovverosia per quell’insieme di aspettative, fanfara e dichiarazioni illogiche che accompagnano i giovani che fanno intravedere un po’ di talento (nel suo caso, un bel po’). Insomma, sono tutti convinti che LeBron James diventerà come minimo il più forte giocatore del mondo, e i paragoni con Michael Jordan — su cui viene costruito il pezzo più importante di questo suo periodo, ovverosia la

— sono ormai all’ordine del giorno.

 

C’è abbastanza materiale per poter perdere completamente la testa, ma LeBron (pur con qualche

) gestisce tutto in maniera mirabile, tanto da convincere Nike e Reebok a battagliare per metterlo sotto contratto con la loro azienda. Il prezzo finale a cui Nike (grazie anche all’intercessione di Maverick Carter) è costretta a salire per avere i suoi servigi è da capogiro: 100 milioni di dollari in 7 anni, il più alto mai firmato da un debuttante. E dire che nemmeno si sa in quale squadra NBA andrà a giocare.

 


La narrative vuole che si parli ora della “storia perfetta”, quella della squadra di casa sfigata che sceglie il più forte giocatore che il suo stato abbia mai visto e lo fa diventare una superstar a livello globale. Per carità, per certi versi è andata proprio così: Cleveland e i Cavaliers non hanno mai vinto nulla (solo una finale di conference nel 1992) e sono la squadra geograficamente più vicina al luogo di nascita di LeBron James (che però è di Akron, e sempre lo sarà); inoltre, nel 2003 hanno la botta di culo di vincere la lottery proprio nell’anno in cui il primo premio è lui. L’esordio di James nella NBA è uno degli eventi più importanti non solo della sua carriera o della storia dei Cavs, ma della NBA intera: il 29 ottobre a Sacramento ci sono 350 giornalisti accreditati, ben più di quelli presenti per l’ultima partita della stagione precedente (una gara-7 di playoff…), e il

“la partita più attesa per un giocatore al primo anno di tutti gli sport, e forse di tutti i tempi”. La prestazione di James è spettacolare: 25 punti, 6 rimbalzi, 4 recuperi e soprattutto 9 assist, di cui uno a Ricky Davis quando avrebbe potuto tranquillamente andare a schiacciare. È la cifra stilistica del suo primo anno in NBA, e volendo anche della sua intera (prima) esperienza ai Cleveland Cavs: una sensazionale performance individuale all’interno di una sconfitta di squadra.

 

Nei suoi primi 7 anni nella Lega, LeBron vince tutto quello che è possibile vincere a livello personale: Rookie dell’Anno nel 2004; All-Star dal 2005 in poi; MVP dell’All-Star Game, primo quintetto All-NBA e prima partecipazione ai playoff nel 2006; campione della Eastern Conference nel 2007; capocannoniere NBA nel 2008; primo quintetto difensivo e, soprattutto, MVP nel 2009 e nel 2010. C’è tutto: è la superstar più giovane e più amata della Lega, ha uno stile di gioco unico e mai visto prima, è leader e giocatore più importante di una squadra in ascesa, non ha un singolo comportamento fuori posto o che gli faccia far notizia fuori dal campo, è padre di due figli (anche se vengono mostrati molto poco al pubblico, al tempo). Ha costruito il perfetto modello mediatico dell’atleta USA, buono per le famiglie mainstream (di cui conquista i televisori con i suoi

) quanto per gli “impallinati” di basket (che ne lodano, tra le molte qualità, l’altruismo in campo), e il tutto prima ancora che abbia compiuto 25 anni.

 

https://www.youtube.com/watch?v=UFBX5OOxW2s

 


C’è tutto, tranne ovviamente la cosa più importante: il titolo NBA. E nessuno come la multinazionale LeBron James sa che vincere il titolo è il passo successivo, quasi necessario, per la costruzione della sua carriera e della sua immagine. Dopo essere arrivato in Finale nel 2007 — forse più per demeriti dei Detroit Pistons e di una

che per meriti dei Cavs come collettivo — ed essere esposto in tutti i suoi limiti (uno su tutti, il tiro da fuori) dai diabolici San Antonio Spurs, LeBron non è più riuscito a tornare in finale: nel 2009 per colpa degli irripetibili Orlando Magic di Howard, Turkoglu e Lewis; nel 2008 e nel 2010 per via dei Boston Celtics dei nuovi Big Three, diventati per lui una sorta di ossessione. È soprattutto la sconfitta del 2010 a far nascere in James la convinzione che, con la squadra che gli era stata costruita attorno a Cleveland — con il defensive-minded Mike Brown in panchina e un supporting cast che in sette stagioni aveva prodotto solo due All-Star (Zydrunas Ilgauskas nel 2005 e Mo Williams nel 2009) — non avrebbe mai potuto battere quei Celtics e vincere il titolo NBA. E LeBron James non poteva permettersi di non vincere il titolo NBA, perché la sua intera carriera era stata costruita per giungere a quel momento e certificare quello che si diceva di lui già quando aveva 16 anni.

 

Ecco perché, al di là di mille altre supposizioni, alla fine ha deciso di andare a Miami: perché aveva bisogno di una squadra migliore per vincere, e non solo a livello di compagni (certo, avere Dwyane Wade e Chris Bosh certamente aiuta) ma anche di allenatore (Erik Spoelstra), proprietà (Micky Arison) e management, ovverosia

. E se sulla scelta in sé e per sé ha avuto certamente ragione — quattro Finali in quattro anni, con due titoli NBA e due titoli di MVP — la strada per arrivarci è stata tutt’altro che semplice, a partire da The Decision, lo show di un’ora andato in onda su ESPN l’8 luglio 2010 nel quale ha annunciato il suo passaggio ai Miami Heat.

 

Non c’è una singola cosa di quella serata che possa essere salvata, tranne il motivo (almeno ufficiale) per cui è stata ideata, ovverosia raccogliere fondi per il Boys and Girls Club di Greenwich, Connecticut, dove è andata in onda la sua intervista. Ci troviamo di fronte ad uno dei più grandi autogol mediatici della storia della comunicazione, non solamente sportiva: quella singola serata hanno cambiato totalmente la percezione del “personaggio LeBron James” che, pur con i suoi fisiologici detrattori (o “haters”) che già aveva ai tempi di Cleveland, era mediamente molto apprezzato dalla stampa, tifosi e opinione pubblica generale.

 

Quei 60 minuti hanno dato vita a un LeBron totalmente diverso da quello a cui eravamo abituati: non più il gioviale ragazzone di casa diventato uomo e leader della comunità giocando per la squadra della sua città, ma l’egoista montato che aveva spezzato il cuore ai suoi stessi concittadini tradendoli e venendo meno alla sua parola di portare un titolo a Cleveland nel corso della sua carriera. E in quel ruolo da “villain” LeBron ci si è calato con tutto se stesso, affrontando con arroganza e cattiveria il suo primo anno a Miami, quasi provocando i “boooo” dei tifosi avversari e un atteggiamento generale da “Me against the world”.

 


“What should I do? Should I accept my role… as a villain?”



 

Anzi, si potrebbe dire che era “we against the world”, perché a Miami LeBron ritrova quel sentimento di fratellanza che tanto aveva cercato dopo i suoi anni a SVSM: con Wade e Bosh, certo, ma anche gli altri compagni agli Heat a partire da Mike Miller e James Jones (che, guarda caso, lo hanno poi seguito a Cleveland), LeBron ha ricreato una situazione in cui non doveva essere lui e solo lui sopra tutti come era ai Cavs, ma un “primus inter pares” che si adattava molto meglio alla sua personalità, naturalmente portata alla condivisione e all’altruismo. Non è un caso che LeBron definisca i suoi anni a Miami come “i miei quattro anni al college”, facendo riferimento a un’esperienza di vita comune a tantissimi statunitensi, che lasciano casa a 18 anni per andare lontano a studiare e poi tornare nella città natale per intraprendere il loro percorso di vita.

 

Sia come sia, la fine del suo primo anno a Miami è il momento decisivo della sua carriera: la sconfitta contro Dallas in Finale NBA dopo essere stato a due vittorie dal primo titolo in carriera — e in particolare un’incomprensibile

da 8 punti — lo costringe a ripensare se stesso, sia come uomo che come giocatore di pallacanestro. Abbandona la maschera da “cattivo” (per quanto la percezione pubblica lo veda in larga parte ancora come tale), assume un nuovo publicist (e una delle sue prime mosse è aprire a un possibile ritorno a Cleveland, per preparare il terreno), sviluppa un gioco in post completo e immarcabile (che per anni gli era stato imputato come difetto principale oltre al tiro da fuori) e grazie ad esso apre il campo ai nuovi Miami Heat con la strutturazione da “small ball”, che dalla serie contro Indiana dell’aprile 2012 non verrà più battuta in una serie di playoff fino alla sconfitta con gli Spurs dello scorso giugno, infilandoci in mezzo anche una serie di 27 vittorie consecutive, la seconda più lunga della storia NBA.

 

Ci sarebbero mille altri particolari da raccontare della sua esperienza a Miami — tipo altri due premi di MVP o un

nella partita più importante della carriera in trasferta, a Boston, tanto per gradire —, ma è storia abbastanza recente affinché tutti voi che siete arrivati fin qui già la conosciate.

 

Piuttosto, è interessante notare come la sua carriera a Miami si sia conclusa in maniera strana: il progressivo distaccamento tra gli Heat e James nasce con la decisione di “amnistiare” Mike Miller, il suo miglior amico in squadra, per motivi finanziari, e a seguito di una regular season giocata con le marce basse dalla maggior parte della squadra, in particolare Wade che viene tenuto a riposo per 28 partite. Non è un caso che LeBron, nel momento in cui deve concedere il premio di MVP a Kevin Durant, riconosca i meriti dell’amico-avversario ma aggiunga anche “Io credo di aver giocato da MVP,

per permettermi di vincerlo”. Le ultime partite contro i San Antonio Spurs non hanno fatto altro che confermare questo pensiero, in particolare nella conclusiva gara-5: a fronte di uno sforzo enorme di James nel primo quarto, chiuso con 17 punti, nessuno dei suoi compagni è stato in grado di fare un passo in avanti e dagli una mano, progressivamente alienandolo dalla partita come era già successo nelle sue precedenti “debacle”, nel 2010 contro Boston e nel 2011 contro Dallas. Il suo addio a Miami, anche se è semplice dirlo ora a cose già accadute, è solo il risultato di tutto quello che è successo quell’anno.

 


Se la Decision del 2010 era stata un autogol mediatico senza precedenti, quella del 2014 è stata gestita in tutt’altra maniera: pur essendosi preso 10 giorni per decidere (e di conseguenza ha messo “in stallo” l’intera lega, intenta a cercare di capire quello che avrebbe fatto), la sua scelta è stata resa nota tramite

pubblicata sul sito di

scritta con Lee Jenkins, la principale penna “ritrattista” della NBA e già autore di diversi profili molto approfonditi su LeBron, che evidentemente lo stima abbastanza da concedergli l’esclusiva mondiale del suo ritorno ai Cleveland Cavaliers.

 

La “narrative” da poter sfruttare è fin troppo semplice, ma sempre di grande effetto: il ragazzo di casa che si è redento, figliol prodigo degli anni 2000, torna nella franchigia del suo stato per portare la squadra alla terra promessa e rimettersi i panni del salvatore della patria che aveva strappato quattro anni prima. E per rimanerci per il resto della carriera, perché una volta che hai fatto una scelta del genere, non puoi più rimangiartela (vi immaginate se se ne andasse adesso dopo quello che è successo?).

 


Cleveland on three.


 

Inoltre, LeBron James è molto più che un semplice giocatore: è il principale esponente dello stato dell’Ohio nel mondo, ha un impatto da

sull’economia di Cleveland, e da quando è tornato ai Cavs ha pieno potere decisionale su ogni questione della squadra, che sia esplicito o meno. Non è un caso che i due giocatori non citati nella lettera (Anthony Bennett e la prima scelta assoluta Andrew Wiggins) siano stati scambiati da lì a un mese per arrivare a Kevin Love; non è un caso che siano arrivati i suoi amici Mike Miller e James Jones; non è un caso che gli standard qualitativi richiesti all’interno della franchigia siano schizzati alle stelle — anche per cose frivole come il

alla Quicken Loans Arena, chiamato “Humungotron”.

 

E il potere di LeBron si estende anche in campo, spesso sovrapponendosi — per non dire imponendosi — su quello dell’allenatore (non scelto da lui) David Blatt: il web non ha mancato di far notare delle occasioni in cui James ha

, gli ha

di diminuire il suo minutaggio, ha

per lanciare un segnale ai compagni, ha deciso per se stesso il suo ruolo in squadra

(“Posso farcela da solo, non devo chiedere a nessuno”) e anche della generale

tra i due. Intendiamoci: tutto questo tra due settimane potrebbe essere storia antichissima, ma l’atteggiamento in campo di LeBron James in questo inizio di stagione — nel quale non inizia a impegnarsi finché un avversario non lo stimola (chiedere di Tobias Harris e del

) e non difende fino al secondo tempo, in una squadra che non può permetterselo — non sembra certo quello di un uomo completamente rapito dal suo allenatore. E i Cavs stessi stanno seriamente rischiando di commettere di nuovo nzi, sono già usciti i

e LeBron ha pubblicamente

di schierarsi dalla sua parte.

 

I Cavs, sostanzialmente, stanno seriamente rischiando di commettere di nuovo lo stesso errore dell’altra volta, ovverosia concedere fin troppo potere ad un singolo giocatore con il rischio di rimanerne bruciati. Ma d’altronde, quando hai LeBron James che sceglie di giocare per te che fai, gli dici di no?

 


Al di là dei problemi con David Blatt — che pure l’anno scorso sembrava ad

, e poi ha vinto un’incredibile Eurolega col Maccabi —, quello che sembra mancare nel LeBron James di oggi è quel senso di fratellanza trovato a SVSM con i Fab Five e cercato a Miami con i coetanei Wade e Bosh. Non è un caso che prima e dopo la partita di Natale li abbia salutati con

. A Cleveland non ha (ancora?) sviluppato un rapporto del genere né con Kyrie Irving né con Kevin Love, e nessuno dei due è mai stato particolarmente noto nei circoli NBA per la loro vicinanza nei confronti dei compagni (alcuni ex Cavs

, pare), nonostante

di

. LeBron invece, per sua stessa ammissione, vive di questo: “Lo spirito di squadra è molto importante. Ogni leader è diverso. La mia leadership si basa su questo, perché rende la squadra molto migliore in campo. Quando sei amico fuori dal campo, il gioco diventa molto più semplice”.

 

Tirando le somme, LeBron James oggi è

che sta cercando di capire come far funzionare la squadra che ha scelto per il resto della sua carriera e i compagni che ha attorno a sé, portando sulle sue spalle l’intera franchigia come ha sempre fatto. Ma soprattutto, è un uomo che sta cercando di far fronte alla propria mortalità cestistica, perché ora non può più fare quello che prima faceva senza nemmeno pensarci. Ora deve basare il suo gioco principalmente sulla sua testa, togliendosi gli abiti da Superman.

 

Forse, per la prima volta nella sua vita, LeBron James, a 30 anni, è diventato umano.

 

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